13 dicembre 2022
Caro Marco,
no, non ho ancora (colpevolmente) letto i tuoi libri, come avrei dovuto, e me ne scuso. Mi riprometto di farlo fra poco, magari nel vuoto pneumatico delle giornate natalizie, quando avrò la necessaria misura di calma e la mia mente sarà sintonizzata sulle giuste frequenze. Ci sono libri che non si possono (e non si debbono) leggere subito, anche se magari la loro musica è tentante e ci invita a un ascolto, il quale tuttavia sarebbe imperfetto se non fosse del tutto libero come deve, specie quando vorrebbe essere preludio alla scrittura.
Si ascolta veramente solo per scrivere. Ogni ascolto, ma vorrei dire ogni forma di percezione, ha senso, per me, solo se, prima o poi, riesce a rompere i sigilli che bloccano le porte della scrittura, che è sempre prigioniera, sempre da liberare. Poco fa accennavo alla musica, non casualmente, come forse avrai capito, visto che di musica – anzi, della musica – si parla nel tuo saggio pubblicato su Doppio Zero (Suonare nei Lager | Marco Ercolani (doppiozero.com) Si parla della musica – dicevo –, che è il linguaggio dell’uomo interiore, come direbbe Agostino, o dell’anima, e che come l’anima appunto è, a differenza di tutte le altre forme della creatività artistica umana, letteratura e poesia incluse, la più invisibile di tutte – quella che si affida all’aria e in essa sembra dissolversi senza lasciare tracce. Eppure, tu dici citando le parole di Francesco Lotoro, autore del libro su cui rifletti, questa è invece “l’arte più solida” in grado di resistere, meglio della altre, alla morte.

Si tratta di una frase incisiva e paradossale, o forse incisiva per la sua paradossalità, che, in virtù del suo potenziale eversivo, non sarebbe potuta sfuggire ai tuoi sensori, sempre pronti a captare le onde sonore trasmesse dal perturbante, in qualsiasi forma artistica decida di declinarsi, in qualunque linguaggio voglia esprimersi… Un lettore che fosse dotato di una discreta recettività, che avesse in dote cioè una disponibilità a sorprendersi almeno pari alla tua abilità nel produrre o nell’individuare sorprese e mirabilia ovunque si presentino, non potrebbe sottrarsi al fascino inquietante di questo assunto, che lo spinge a domandarsi come possa la musica, l’arte più invisibile di tutte, essere dotata di “solidità”, che è notoriamente un attributo di tutto quanto è materiale e rientra perciò sotto la giurisdizione del Visibile, e di una solidità tale, da farsi argine inattaccabile, scudo adamantino, contro la morte.
La risposta è contenuta nelle righe successive: la solidità e dunque la forza oppositiva (alla morte) della musica è direttamente proporzionale alla sua immaterialità (e invisibilità). Se infatti tutto ciò che è materiale – come i quadri, i libri – può essere oggetto di distruzione, allora la musica, in quanto appartiene all’invisibile, fatta d’aria come il fiato, la psyché, sprovvista perciò di quei requisiti che la rendono candidata a ogni sorta di aggressioni esterne, sia da parte dell’uomo, sia da parte della natura, appare, di conseguenza, indistruttibile, quasi… “in odore” di “immortalità”. Ma questa è una motivazione sin troppo facile e scontata, che colma solo in parte il vuoto aperto dalla domanda. In realtà, se vogliamo restare fedeli al “meraviglioso”, che è la regola aurea a cui la tua scrittura poetica e metapoetica obbedisce, dobbiamo spingerci ben oltre la crosta superficiale di questa risposta, alla ricerca delle sue diramazioni sotterranee più profonde, addentrandoci in quello stesso “segreto” – l’uomo interiore appunto – in cui la musica veniva clandestinamente custodita dai detenuti nei Lager nazisti (e non solo). «La musica che un musicista conserva nella sua mente e che non ha ancora concretizzato in spartito è indistruttibile finché lui vive»: solo in quanto il suo spazio e il suo tempo sono lo spazio e il tempo del “segreto”, essa ha speranza di attingere a quell’ indistruttibilità, che è prodigiosa, seppure provvisoria, essendo legata alla durata dell’esistenza dell’uomo, e salvifica.
Ho anche pensato che forse il progetto di Lotoro – «raccogliere la musica sopravvissuta alle deportazioni e ai campi di sterminio» – abbia attratto la tua attenzione nella misura in cui l’atto di “conservare” «quanto non deve andare perduto», equivaleva a un “custodire”, e l’immagine, così dimessa, senz’aura, dell’archivio, adombrava l’archetipo, ricco di risonanze religiose, dell’ “arca”: non un semplice contenitore (un archivio, appunto), ma un grembo che custodisce, senza tradire il “custodito”. Solo se in grado di mantenere integra l’incompiutezza, la frammentarietà dei documenti musicali, la loro natura di resti o reliquie dell’Altro (non per nulla, l’esecuzione perfetta dell’opera, la sua uscita trionfale dallo statuto umbratile, di frammento, quasi un noumeno che sogna, suggella in realtà la fine dell’opera stessa, nonché il suo tradimento, come osservi tu nell’Arte della distanza) questa raccolta-grembo possiede carattere salvifico: è, a tutti gli effetti, un canto capace di adempiere – e di adempiervi in modo perfetto – al compito festivo indicato dal titolo: salvare il mondo.

«Il libro di Lotoro è un tentativo illuminista di dare ordine alla catastrofe, riattribuendo a certe opere perdute i nomi dei loro autori ritrovati, come in un mai terminato atto di giustizia postuma che decreti la fine del “lutto millenario” dei deportati dei campi di prigionia, vittime di un détour tragico dal loro futuro di uomini», scrivi tu, poco dopo aver evocato, nelle righe precedenti, lo spettro della catastrofe e dell’apocalissi – quella fine del Tempo annunciata dall’Angelo nel Quartetto per la fine del mondo di Olivier Messiaen di cui aveva già scritto in Le forme dell’aria. Un altro canto, un sinolo di dissonanze perfette, dove la fine (del tempo, del mondo) è paradossalmente (ma il paradosso è, come si sa, la cifra enigmatica, argentata, della tua riflessione e della tua scrittura) il frutto meraviglioso concepito nel seme di una spem. Quella Spem in alium di Thomas Tallis, la cui «incredibile lunghissima nota articolata da quaranta voci potenti, delicate, dolenti, sovrane», nell’immaginazione (e nella speranza) del Messiaen prigioniero nel Lager nazista, ma libero nel sogno e nel “segreto” della sua stanza musicale, avrebbe potuto dissolvere «baracche, nebbie, paludi, carnefici, reticolati, con un incantesimo smisurato e abbacinante» (Le forme dell’aria, p. 39).

Ecco, ti mando queste poche parole, incomparabilmente più tenui di quel «tenue graffio nel legno» impresso dalle «fioche note di prigioniero» di Olivier Messiaen, per ringraziarti e porgere, nel segno di questa Spem, a te e a Lucetta i miei auguri per le imminenti feste natalizie. Con un abbraccio,
Daniela