I testi sono tratti da: Silvia Patrizio, Smentire il bianco, Arcipelago Itaca Edizioni, 2023
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Anche i poeti amati da Silvia partecipano a questa operazione di innesto e di riscrittura. Le citazioni sono più corpi in vita che parole e la diagnosi è più per penetrazione che per osservazione. La mancanza («l’infanzia che non ha fotografie»), l’assenza, il «respiro ribattuto…», il vuoto rappresentano forse il bianco da smentire. O da mentire. Se domandiamo alla memoria soltanto un’informazione (o un colore) di ordine intellettuale la memoria ce la restituisce senza la sensazione di evocare niente da noi stessi. In questa raccolta, invece, Silvia si abbandona a una conversazione intima col passato elaborandolo attraverso un’indagine endoscopica rigenerativa.
(Da Una pagina per Silvia di Andrea De Alberti)
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Il sapore è quotidiano, del cibo annerito
sui fornelli, e un sollievo di torta alle mele.
Non c’è altro da prelevare all’incoscienza
tenuta nel rilievo
di una telefonata attesa, e subito
ritratta dalla mancanza d’aria che si apre
appena prima di avvistare
le pareti, o sospettarle.
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Eppure ha senso adeguare un campionario
di pensieri declinandoli al già visto:
il tavolo il rimprovero dei libri
lo specchio il lampadario che fa scudo
del suo doppio e quel tango inappagato
che ritorna, compromesso a ogni curva
come un respiro ribattuto…
*
Il danno ha i contorni del corpo
– lesioni ispessimento terapia –
sorprende nomi inediti alle cose
e li chiarisce
nel suo lessico d’aghi
che scuce le vertebre e sceglie
una posizione alla paura.
Il corpo è una fessura, la metà di un errore
fissato tra le otto e le nove
di un intero inverno.
Ma sarà rapida
la sera, col suo affamarsi di spettri:
antidoti che il calcolo frantuma.
*
Cosa classifica la gioia? Che cosa captano i segnali?
Cosa ti lega al tuo narrare? Adesso basta, è innaturale
come affondare nel piatto le date importanti
ma viene ancora da inventare
un balcone per la casa di viale dei Tigli
l’infanzia che non ha fotografie
un traghetto che ogni anno lascia il golfo
per un alito lievissimo
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Silvia Patrizio
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Questa poesia sceglie la parola come radiografia del proprio essere-nel-mondo (“Appartenevi all’indulgenza delle foglie, / al chiodo che cresce la sua ombra / sul rovescio dell’insonnia. Eri il fuoco / gettato sull’amore / dalla parola amore”). Smentisce il bianco del silenzio per riordinare la propria voce, la propria intima conversazione con se stessi, unica terapia contro il dolore. (È la lingua a interdire / l’esperienza autoimmune del rimorso / (nel diario tra parentesi aggiungevo / il blues è un suono, un’intenzione / l’errore è nel respiro). Il poemetto Medea – un intermezzo a più voci – ci racconta come sia necessario ri-narrare il mito perché l’uomo si re-interroghi sul proprio presente, dove i vivi parlano ai morti, e scelga una posizione per la propria paura: (“Ora è spina / questa fibra di voce, la lingua che si fa / memoria, / destinazione della mano”). Il libro si chiude slacciando visioni, ritrovando radici, in un movimento delicato e rigoroso di equilibrio, dove per “equilibrio” intendiamo un silenzioso accordo dell’angoscia con il rigore della frase poetica: “Lo spessore che prima era rifugio / ora è vento che slaccia le visioni / e annuncia l’inverno. Piove / – non temere la morte per acqua – / Ecco il dettaglio, l’ultimo / a chiudere la scena: / l’inchino del salice / sulle sue radici”. (M.E.)
Breviario provvisorio di fede nelle apparizioni: Eccomi!
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Sono caduto dalle nuvole col paracadute, mi sono arrampicato sugli specchi con le ventose e ho appena bevuto l’amaro calice zuccherando abbondantemente il caffè.
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La gente non mi piace ma vanto amicizie nel genere umano.
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Prendendo le cose con filosofia le capirò?
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Mi sono riciclato come personaggio di fantasia così da poter immaginare la realtà.
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Sto cercando di fissare sulla carta gli errori commessi in modo da poterli ripetere tali e quali in futuro.
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La crisi mi ha fatto precipitare al di sotto delle mie ordinarie impossibilità.
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Mi mancano i mezzi per giustificare una fine. Per adesso continuo.
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Cerco di ridere per fare rima con vivere.
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Mi sono limitato a dare soltanto un’occhiata alla civiltà, c’è troppo da imparare.
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Mi basterà un caffè con panna montata per sedere al tavolino della pace.
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Io sono questo. Dove ho sbagliato?
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Mi ritrovo sempre fra i piedi e non mi do nemmeno una mano.
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La prima cosa che mi è venuta in mente mi ha esaurito e l’ho dimenticata.
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Esito a prenderla come una buona notizia, sembra tuttavia che Dio sia intenzionato a credere che esisto.
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Posso anche essere al di là del bene ma non del malessere.
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Ho ragione di non credere nella ragione. Me ne farò una ragione.
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Perché puntare al futuro quando non ho ancora riempito del tutto il passato?
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Devo stare in guardia con gli amici, qualcuno di loro potrebbe anche esserlo.
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Ho il dispiacere di non essere riuscito a fare grandi cose ma ho anche provato la soddisfazione di disfarle.
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Pinot Gallizio
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Carlo Romano è una singolare figura di intellettuale eclettico e marginale, un petit maîtreobscur che ha fatto del disadattamento un’estetica in cui convergono Huysmans e la scapigliatura, il radicalismo e l’avanspettacolo, Fluxus e il Conte Mascetti, l’underground e il dandismo, il libertarismo americano e il Marchese de Sade, il blues e il trallalero, le droghe e i bignè. Una struggente idea della Liguria su tutto il resto. Penso di poter affermare che ha fatto dei libri la sua passione assoluta, con evidenti sconfinamenti in una vera e propria perversione cartacea (e oggi non solo cartacea). La libreria Il Sileno di Galleria Mazzini a Genova, alla quale si dedicò col fratello Mario, è stata un luogo di elezione per almeno un paio di generazioni di intellettuali (nonché di sbandati) genovesi e la sua biblioteca (oltre trentamila volumi che da poco hanno trovato sede presso la Fondazione De Ferrari) può essere forse considerata la sua più importante “opera” di artista (segreto). Oggi vive a Uscio, il paese da cui proviene la famiglia paterna, legge (onnivoramente, come sempre), scrive (è collaboratore delle pagine culturali del Secolo XIX) e cura un sito internet La biblioteca dell’egoista che è lo specchio fedele della varietà dei suoi interessi culturali (Giuliano Galletta).
I testi sono tratti da: Alfonso Guida, Khnopff, a cura di Barbara Gortan, Casa del Libro, Taranto, 2023.
Knoppfh è un’aria della vita. A vent’anni vidi il suo dipinto Il silenzio e sentii che quell’immagine non mi avrebbe più lasciato. A distanza di trent’anni ho omaggiato il pittore simbolista belga soffiandone le atmosfere in questa plaquette di 20 componimenti, data a Barbara per affetto dopo un lungo corteggiamento. È così che scrivo ora. Tutto non può che essere cosi (A.G.)
I testi sono tratti dal libro collettivo: AA. VV., I nomi della sincronicità, a cura di Stefano Baratta e Flavio Ermini, Moretti e Vitali, Bergamo 2007.
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In uno dei suoi haiku Matsuo Basho scrive: «Erba estiva: / per molti guerrieri / la fine di un sogno». Da sempre i poeti mettono al centro della scena il tempo inesorabile e la caducità della vita con le sue imprese illusorie, il dolore per giovinezza e bellezza spariti, fugaci come ali di farfalla. L’ala di farfalla mi riporta all’idea di Psyché e quindi a Sigmund Freud, che nel suo Caducità, parla di questo dissolversi e del dolore che ogni essere umano non può non provare nel momento in cui ne acquisisce interamente coscienza. «Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello o nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto [….] gli sembrava svilito dalla caducità a cui era destinato».
Ma, a segno di questa mancanza, di questo profondo sentimento dell’effimero, il poeta ci lascia in eredità le sue parole: poesie che, lette e rilette, diventeranno humus per poesie che verranno scritte da altri. Si delinea quindi una traccia, una scia di volo per chi voglia seguire la divagante e invisibile traccia della farfalla. Per sostare ancora in area giapponese, ricordo le parole del settecentesco Yosa Buson: «Un monaco solo / legge una pietra incisa / nel vento invernale». Una pietra incisa come quella di Gilgamesh giunta fino a noi dal fondo dei millenni, e non solo perché la pietra è materia legata alla permanenza più di un foglio di carta. Buson sembra rispondergli anche lui facendo parola del sentimento dell’eternità esprimendolo simultaneamente in tre immagini: il monaco solitario – speculare al lettore in tempo reale – , la pietra che fissa la parola e il vento che non la cancella.
Il poeta, leggendo altri poeti, ha la sensazione di abitare in una comunità dove ogni componente rappresenta la caducità nella propria individuale versione, con le parole che affida al sogno della sopravvivenza dopo la sua morte fisica, qualunque sia il supporto – petroso, cartaceo, digitale, ventoso. Siamo di fronte a un “atto di resistenza” come suggerisce Gilles Deleuze. La resistenza – l’atto in cui la vita si oppone al “destino della vita” – consiste proprio nel parlare della morte, nel corteggiarla fino a quando lei non avrà il sopravvento: è “atto poetico” attorno alla morte. Nelle epoche d‘oro della poesia spagnola inglese, francese, al pieno fulgore di una regalità terrena fa da contraltare il riflesso spoglio della sua caducità, così come nella pittura della natura morta gli oggetti sono colti nel punto di sparire dall’occhio dell’osservatore – occhio vivo, demiurgico, e asincronicamente occhio della morte che ne illumina la precarietà. Lo stesso messaggio – il permanere della dissoluzione del paesaggio nel tempo – viene espresso dal tema delle tavole apparecchiate e sparecchiate. Quando John Donne inneggia all’amore parlando della morte e inneggia alla morte alludendo all’amore, questo amore mai scisso dalla morte si eternizza nelle parole come pietre tombali, testimoni dei morti vivi fra di noi. È un doppio movimento di sincronia che ruota attorno a se stesso, non la coincidentia oppositorum verso qualche ipotetico centro. Il concetto di caducità – che si tinge di religiosità e di fede nell’ultraterreno come di umana laicità senza futuro – segue una traiettoria dal fuori al dentro e viceversa, in un apparente sincronismo, celebrando o il Tempo (che coglie passato, presente e futuro) o il tempo (dove vediamo il presente, il semplice sparire dell’uomo. Una sparizione fatta di segnali che continuano a parlarne, un morire composto di segni che restano le uniche consolazioni per chi li scrive, contro ogni trascendenza. Ai versi di Omar Khayyàm “In mano prendi una coppa e la treccia d’Amica gentile / che passa, passa e non resta questa tua vita d’un giorno” fanno eco quelli di Lorenzo il Magnifico “chi vuol essere lieto sia / del doman non ‘è certezza”.
Il poeta non ha un suo pensiero originale. Ha un destino, comune a tutti i poeti: circoscrivere la sua lotta e la sua illusione dentro un tessuto di parole, e applicarsi ostinatamente a questo lavoro. Il suo perenne scacco è speculare alla consapevolezza che nel vuoto delle parole non troverà che il vuoto delle parole. Ma la vita è divenire, supera e travolge l’impermanenza umana. Quello che qui muore altrove può vivere, forse sta già nascendo Pensando oltre di noi, come oltre le nostre parole, troviamo vita e morte compresenti in un divenire non legato alla cronologia umana. Allora, se è vero che ogni poeta cerca la sua voce per individuarsi dal nulla, è anche vero che la poesia è chiamata a compiere un passo ulteriore: procedere oltre il suo percorso individuativo e confluire, con la sua debole scia, nell’aria vasta di tutte le parole. Sono loro a possederlo, non il contrario. E lui è voce tra le voci, disseminata in intrecci, mescolanze, polifonie. Nel suo provvisorio hic et nunc il poeta si individua nelle variazioni di queste tracce, come un attore che ogni sera intona le stesse battute con vibrazione individuale e sempre diversa, perché l’arte è molteplicità e continuum della stessa intonazione.
Il poeta sa che il suo nome si perderà insieme a mille altri, creando una molteplicità di voci, un suono di fondo, una polifonia anonima. Non esiste nessun vello d’oro da raggiungere ma un viaggio verso l’ignoto dentro il quale usare le parole come frecce e come scudi contro la morte. Parole-maschere, tracce del suo passaggio terreno. Solo attraverso di esse può fingersi immortale e collegarsi all’idea del divenire. La sincronicità è questo contrasto insanabile, tra vita e morte, che solo le parole, con la loro pelle illusoria, nella tessitura dei richiami e delle corrispondenze, hanno il potere di alleviare. Se il non fare parola è consegnarsi all’irreversibilità e inappellabilità di una morte che esiste qui, nel nostro tempo ma non nel divenire del Tempo, scrivere è il tentativo di esprimere qualcosa di traboccante che ci ammutolisce mentre ci esorta, paradossalmente, a farne parola. Una finzione che non sarà più finzione ma specchio microcosmico di un’altra – seppure irraggiungibile – realtà.
Vicente Aleixandre, nei suoi Poemas de Consumatiòn, scrive: «Fare è vivere ancora,/ o essere vissuti, / o prossimi. Chi muore vive e dura».
Ho sovrapposto un quartetto a una sinfonia; ho tolto i bassi all’orchestra; ho fatto scorrere a doppia velocità il quartetto. A che scopo? Solo allo scopo di infastidirvi con un rumore che neppure dodici falciatrici farebbero e per non darvi punti di riferimento, nessun riposo, nessun piacere. Le rose e i rampicanti sono crollati, la fontana spara acqua a caso – vi conviene scansarvi – il chiosco liberty per la musica rumoreggia – sono le vostre proteste – che si aggiungono allo sfregio. Attenti alle bibite! Il tavolino vibra, i bicchieri scivolano con gli ombrellini, ora sono sul bordo e al prossimo quartetto sovrapposto cadranno sulla pietra rosa della passeggiata, la famosa passeggiata con il suo famoso parco e la sua famosa torre e la scogliera che slitta in mare. Che rumore! Che musica mai sentita! Armonici a triplo strato come certe rocce! Inascoltabili… eppure li ascoltate, o meglio, li subite. Protestando, è vero, però non restate impalati a conversare, a sorseggiare, a guardare il bel tramonto… scattate in piedi. Vi prude la pelle. Vorreste uno zampirone anti – frastuono, vorreste sentire un quartetto per volta o solo la sinfonia… E anche i bassi! Volete anche i bassi! La musica del passato si rispetta! gridate. Chi ha osato? Vergogna! Come risposta, e qui facciamo un antifonario, tolgo tutte le note alterate. Come vi sembra adesso? Un po’ smilzo… sì… Allora lascio la sinfonia e tolgo i quartetti… ma azzero tutti gli strumenti ad arco! Non sembra la radiografia della Pastorale? Annullo anche l’ordine dei tempi. A che scopo? Mi annoiano le forme classiche. Ricordano sempre la Trinità, Santissima più o meno. Un bel dualismo? No? Nemmeno… I vostri bicchieri sono sul bordo, ancora una piccola vibrazione…
C’è un terzo orecchio come c’è un terzo occhio. Si apre solo su certe frequenze, quelle dove viaggiano i ragni trasportati dal vento, le onde radio sommerse che si alzano in un impeto di orgoglio, i chiodi sonori, le pause smarrite etc. etc. Una riunione di parvenze e corpi, riunione familiare, quelli che furono con quelli che ancora sono. Una bandiera strappata portata al galoppo oltre il confine e piantata nella terra in sommossa, nella terra stanca di ricevere cibo guasto. Vi suoneremo un aratro, stasera. Sceglierete voi lo standard più adatto per essere percosso sull’erpice. Sarete complici, senza volerlo. Summertime? La faremo con un fischietto da arbitro e un richiamo per le anitre. Qualche corda del basso pizzicata. Strapperemo le corde e ne faremo un gomitolo da cui ricaveremo una maglia strettissima e voi la indosserete. La maglia di Nesso, un po’ attillata, sì. Vi dedicheremo il primo assolo collettivo, il primo assolo mentre sudate terrorizzati. Io starò a guardare il mio sax appoggiato contro un muro mentre crea fessure. Non vi aiuterò. Non posso. Sono andato laggiù e quando tornerò per voi sarà tardi. E non ci sarà una seconda take. Per voi.
Dopo la morte di mia moglie sedicenne durante il parto, e di mia figlia appena venuta alla luce, sono sparito. Ho iniziato a vagabondare lungo il delta, pieno di dolore e con una fede che vacillava. Non ho mai incontrato nessun maestro di chitarra tedesco o svizzero: non credete alle leggende. Ma sono arrivato davvero a quell’incrocio: quattro strade senza sapere quale imboccare. Strade polverose come i miei vestiti e le mie scarpe. Stavo diritto e irresoluto al centro dell’incrocio aspettando. Aspettando che cosa? Un segno? Distante franava del terriccio ma lo sgranarsi del piccolo smottamento non mi ha suggerito niente. Neppure il canto degli uccelli. Forse avrebbe funzionato con Sonny Boy Williamson II. La posizione delle stelle? Mi sembrava sempre la stessa: gelida e silenziosa. Una preghiera? So che qualcuno ha cantato per voce sola certe mie canzoni con un risultato apprezzabile. Sembrano canti liturgici ma non so di quale liturgia. Durante i miei vagabondaggi ho saputo che hanno mandato nello spazio un brano di un bluesman blind. Non sono pochi i blind nel blues. C’è anche un blind bianco che suona la chitarra da tavolo. Un giovane biondo… almeno… era giovane, era biondo. Qui in questo incrocio ho incontrato il diavolo, è vero, confermo la leggenda. Ma non è il diavolo che immaginate. Nessun patto, nessuna anima in cambio di una prodigiosa tecnica chitarristica. Era un povero diavolo, conciato peggio di me, seduto su una roccia. Nella mano – sinistra naturalmente – teneva un bicchiere di latta, chiedeva l’elemosina. Era davvero un povero diavolo, così ho scritto Me and a poor devil, e il bicchiere mi ha ricordato un avvertimento di Sonny Boy: “Non bere mai da una bottiglia già stappata.” Saggio avvertimento, ma purtroppo ero già ubriaco e innamorato della moglie del padrone: non mi sono accorto di niente. Poco male. Le mie canzoni le avevo già scritte tutte. Tranne un paio di cui lascerò gli spartiti al povero diavolo seduto qui con me all’incrocio, un diavolo che mi somiglia molto, forse più smarrito e stanco di me e che non saprei aiutare. Così c’è stato un diavolo e c’è stato, non uno scambio, ma un dono. Se i biografi vorranno correggere li ringrazio. Sulla mia evoluzione tecnica alla chitarra ne hanno scritte tante. Inventino quello che vogliono: si ha il diritto di inventare, di immaginare. Un patto col diavolo proprio a un incrocio! Perfetto. Faust blues. Lo avrei anche fatto, ma la mia anima era quasi sparita, un brandello inzuppato nell’alcol, nei vizi e nella disperazione. Forse il solo motivo che ha dato una spinta alla mia tecnica è il dolore e il vaneggiamento, una specie di perdizione, qualche fantasma. Me and the poor devil walking side by side… Adesso imbocco una strada qualsiasi, poi mi pulirò bene i vestiti, prenderò una camera, registrerò le due nuove canzoni e fra un’incisione e l’altra scenderò in strada a rimorchiarmi una puttana.
Albino Crovetto è poeta e fotografo. Ha pubblicato diversi libri di poesia ed esposto in Italia e all’estero. Ha tradotto, tra gli altri, Mirbeau, Dumas, Jaccottet, Volodine. Suoi testi poetici sono apparsi in riviste, fra cui “Poesia”, “Arca”, “La foce e la sorgente”.
“Frammento dal video-poema di Cristiana Panella e Caroline Boulord, “l’amore mendica e ripete (rosario del movimento curvo)”, 2020 (testo di Cristiana Panella)
Taccuini inediti di Caspar David Friedrich (datati 1836), ritrovati in un album di schizzi con sulla copertina, scritta, in inchiostro rosso, la parola “Reisengebirge”.
Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Discorso contro la morte, I libri dell’Arca, Joker, 2008.
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Un cielo di Leonardo, e in quell’azzurro così calmo, in quel tono così giusto, la quiete che desidero. Imitarlo, ridipingerlo.
Martedì. Riesengebirge. L’ennesimo tramonto. Devo stare attento. Troppa bellezza costringe a un respiro breve, a un disegno esatto, a contorni precisi.
Stare a letto, dormire. Poi svegliarsi, passeggiare, respirare, sapendo che le tele sono tutte là, intoccate, nell’atelier. Creare è un attimo. Ciò che resta è l’arte del respiro. Non si può tumulare il mondo.
Tele senz’aria. Tre quarti della mia opera. Disprezzo.
Nei miei schizzi è diminuito quell’eccesso di cielo, di bianco assoluto, che aveva fatto dei miei covoni e dei miei alberi tracce lievi sulla carta, delle navi e dei porti uno scheletro di vele e di scogli. Comincio a colorare i cieli, a respirare in modo ampio. Sono cieli smorzati, soffici, dolci; aprono spazi, speranze. Non devo più essere esatto. Ho un corpo con tante lacune. Sbaglio.
L’arte consumata in solitudine. Infelicità vigilata.
Se osservi il quadro della nave naufragata nel ghiaccio non credere, come tutti, che io sia il devoto discepolo di un’allegoria della morte. Guarda bene le luci di quei pezzi di ghiaccio: sono foglie illuminate dall’alba, piante che stanno per fiorire.
Solo a mettere nelle tele quanto l’occhio vede. La natura è vuota se non la colma l’occhio. Ma l’occhio è infecondo se non si lascia invadere dalla luna, dal fumo, dai ghiacci, dagli orizzonti, da Rungen bianca e rocciosa…
Nelle mie tele si è depositata la sostanza di molte visioni e, se le guarderai tutte insieme alla mostra di Lipsia, vedrai un limpido anfiteatro di immagini – dalle rovine alla civette, dai fiumi alle nuvole. Ma che fatica, ora, parlarne. Sono così sazio di quest’aria sublime, rarefatta e chiara, dove ogni sentimento della vita è inscindibile dal sentimento dell’opera assoluta. Ogni arte vale in sé, come lavoro dell’anima e non come esibizione di forme. La sua necessità è la caducità, la mutevolezza.
Mi sento felice da quando penso che qualcuno potrebbe rubare o bruciare le mie tele. Ne sorrido. Vita, ambizioni, opere, immortalità – tutto legato a un filo. Solo per caso ci ricordiamo di Leonardo e di Michelangelo, e non di altri autori che hanno avuto lo stesso genio ma non le stesse occasioni. Io stesso sono Caspar David Friedrich al trenta per cento.
Quando dipingo l’aria divento per tutti intrattabile, perché so che sarà imperfetta. Ma quale aria è perfetta?
Concentro la mente in un quadro che non ho ancora cominciato. Ne conosco il tema, il nome, le minime gradazioni di colore, ma non riesco ad iniziare. Ho paura che, se lo comincio, un qualche fuoco eccessivo mi arderebbe vivo.
Vorrei abbracciare una donna senza l’ossessione di dipingerne la schiena…
Gli artisti sono più miseri degli uomini comuni: subdoli, bugiardi, ipocriti, pronti alla calunnia e all’omissione, alla malvagità e alla dimenticanza. Invidiano i fortunati, disprezzano gli ingenui. Curano il loro orto con scrupolo e malizia. Se possono, tradiscono. A volte, non hanno neppure la forza di tradire. Dimenticano. Sono stupidi, sordi.
Ricordo le parole di Kleist su di me: «È magnifico in una solitudine infinita contemplare un deserto d’acqua sconfinata sotto un cupo cielo in riva al mare. Il quadro è là, con i suoi rari oggetti misteriosi come l’Apocalisse, come se nuovamente meditasse sui pensieri notturni di Young, e giacché esso, nella sua immensità, non presenta nulla in primo piano fuorché la cornice, quando lo si osserva si ha come l’impressione che le palpebre vengano recise». Impressione? Realtà. Il mio occhio è perpetuamente spalancato. La mia ossessione non ha un attimo di quiete, neppure quello concesso da un battito di ciglia. Guardo fisso davanti a me. Basterebbe che qualcuno arrivasse alle mie spalle e mi posasse la mano sulla schiena per decidere del mio destino: fermarmi o proseguire. Ma finora sono sempre stato solo davanti ai paesaggi.
I burocrati della pittura usano paesaggi fissi, con scene mitologiche e tramonti di cartone. Ho rischiato anch’io questo codice, quando la mia anima era ridotta a un fossile. Adesso lavoro notte e giorno sulla naturalezza – un compito immane – e penso di essere un genio. A volte è necessaria l’illusione del genio: per i disperati è l’unica salvezza. Anche se – lo sappiamo – un artista diventa geniale quando si dimentica.
Ai visitatori dell’atelier rivelo il mio tono, distante e impassibile, come se fossi un principe morto che guida i suoi amateurs alla collezione delle sue opere, come se io fossi un principe morto che li guida, la candela accesa, all’interno del suo corpo sventrato da qualche cavallo imbizzarrito. Indico i miei quadri al solenne Goethe, che nella mia arte non trova nessuna certezza; al dolce Carus, che dalle mie albe ricava pensieri che non ha mai osato pensare; al timido Runge, che mi fraintende sempre; al pallido Kleist, che mi capisce in silenzio.
Vuoi sapere il nome del mio ultimo quadro? Aurora boreale. Il soggetto: un sole pallido sale all’orizzonte, nascosto dai rami di una betulla. Cielo straordinario: una fascia rosa scuro, con nuvole gonfie e precise, dagli orli neri; in alto, all’orizzonte, un azzurro nitido, sfavillante, che precede la notte. In cieli come questi, mostrati e velati da foglie, con il sole è sempre presente luna. Convivono con singolare saggezza. Gli antichi aruspici, quando scrutavano cieli che non appartenevano né al giorno né alla notte ma ad entrambi, pronunciavano profezie apocalittiche.
Alla croce, all’arcobaleno, alla luna, non corrispondono più i simboli consueti. L’equivalenza si è spezzata.
Aurora boreale. Tronco, arbusti, picchi aguzzi, e poi il sentiero sassoso, in una luce fredda, con le nubi esatte, gli orli rossi, il cielo azzurro chiaro. Aurora boreale. Una luce come non ne esiste più. Irripetibile. Isola di Rungen. Rocce bianche, di un bianco vicino all’oro. Schizzi della costa, ancore, vele. Alberi, cavalli, case. Studi di nuvole. Sotto le nuvole il Reisengenbirge. Tramonto. Una nave in secca, il chiarore lunare, il fuoco sugli scogli. Uomini, al bivio. Invisibili, a volte visibili. Viandanti, di schiena, davanti a un burrone di nebbia. Carri, piante, profili. Rocce, trave, vela. Mare, sempre. Una pianta sospesa nel grigio. Foglie allargate nel vuoto. Rovine su rovine. Querceti.
Cerco enigmi senza solitudine. Chissà se esistono.
Kleist, mio povero e folle amico! Uccidersi come lui? No. Heinrich amò chi amava la morte come lui. Amore come desiderio condiviso della morte. Solo con quest’amore convinse Henriette Vogel ad annegare con lui nell’acqua del Wansee. Io potrei morire come lui solo se ritrovassi Johann, solo se avessi un’altra occasione: sprofondare nel ghiaccio al suo posto. Talvolta lo desidero. Quando vedo le rocce bianche e il mare di Rungen, smetto di pensare. Torno a casa e dipingo i segni della fine imminente: tumuli, urne, cipressi, civette. Talvolta la morte assomiglia proprio a un’assenza di suono.
Una volta Jean Paul paragonò il mio atelier al cadavere sventrato di un principe morto. Credo avesse ragione. Vide esattamente la verità. Solo i corpi svuotati ritornano alla loro essenza. Solo i corpi dei prìncipi possono averne la fierezza. Il pittore non deve dipingere solo ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede dentro di sé. Se però dentro di sé non vede nulla, che cessi di dipingere ciò che vede davanti a sé.
GERMANY – CIRCA 2002: Monk by the Sea, 1808-1809, by Caspar David Friedrich (1774-1840), oil on canvas, 110×171 cm. (Photo by DeAgostini/Getty Images); Berlin, Schloss Charlottenburg (Art Museum). (Photo by DeAgostini/Getty Images)
Un sole a picco, perpendicolare alla terra; una luce assoluta, che appartiene al regno della notte; gli abitanti, o invisibili o morti; il pianeta sprofondato nel silenzio; le città addormentate: porte sbarrate, finestre chiuse, viali deserti, fiume prosciugato. Per anni ho disegnato l’albero scheletrico fra le rovine, la civetta sulla tomba, il cancello del cimitero, il salice isolato nella pianura lunare. Poi, cominciando a conoscermi, ho capito che non potevo glorificare soltanto le rovine, come un guardiano fedele. Sdraiato su un prato, mi accorsi di annoiarmi di me. Inebriato dalla visione delle nuvole, dal colore degli orli, dal movimento di masse bianche e d’oro, mi sentii la testa leggera. Avevo i piedi nell’acqua, il vuoto nella mente. Mi assopii pensando di cambiare pelle.
Talvolta, alla porta, sento dei suoni – fruscii insistenti, come di giunchi strisciati sul legno; scricchiolii ripetuti, come di armature di cavalieri fantasma; tonfi sordi, come di sacchi sbattuti sulla sabbia. Una notte ho dipinto una pianura completamente buia con il pensiero assorto in quei suoni.
Questo maledetto visibile di cui sono costretto a servirmi perché il mondo capisca! Desolante schiavitù. Vorrei smettere di usarlo. Vorrei essere solo musica e suono. Quando dipingo e penso al regno dei miei occhi, mi trovo a collocare templi e rovine in un silenzio assoluto.
Sedere su uno scoglio e gettare pietre contro la mia ombra, dietro di me. Davanti, guardare l’acqua del mare.
Ho sempre pensato di essere costretto all’esattezza perché, nel momento in cui mi fossi sbagliato, sarebbe accaduto qualcosa di orribile. Come quel giorno in cui dipinsi la porta murata di una vecchia abbazia e durante la notte sentii venire, dalla tela, dei rumori misteriosi, come se qualcuno battesse, dall’altra parte, con colpi di vanga o nocche di mani.
Ho sognato che volevo costruire una casa per me. Ma, nello spazio che avevo deciso per la costruzione dell’edificio, o svenivano dei bambini o scoppiava un temporale o si commetteva un delitto. Alla fine, invece di una casa, avrei costruito una tomba.
Anni fa, con l’esattezza dell’orafo, disegnavo delle foglie. Se avessi raccolto tutte le foglie della foresta, dopo l’uragano, e le avessi riattaccate al ramo da cui erano cadute, avrei completato il progetto di un’arte precisa, inattuabile, inutile. Smisi di pensarlo, considerandolo un’idiozia. Non voglio che la mia pittura sia inerte come il corpo immobile del re che regna. Voglio che sia disordinata, proprio come il corpo sventrato di quel principe.
Sento un vuoto sotto le costole, sopra lo stomaco, all’altezza del cuore. È una sensazione penosa, ma garantisce la bellezza e la forza della tela.
Ho sognato un uomo. Avanzava altero e sicuro, poi mi venne di fronte e disse: «Tutte le notti, alle undici, guarda il fiume». Io restai sbalordito. Mi sembrò che passassero molti anni e ogni sera di ogni giorno di ogni anno ero lì, davanti al fiume alle undici, guardare fisso un punto nell’acqua. Dopo un tempo indefinito vidi, una sera, un uomo, alle undici, in quel punto del fiume. Stava annegando. Mi gettai, lo salvai. Quell’uomo aveva la stessa faccia dell’uomo che mi aveva ordinato di guardare, ogni notte, il fiume.
Non c’è più scampo, per me. Lo sapevo da tempo. Da quando, bambino, ho saputo che Johann moriva, niente è più apparso come prima. C’è stato solo quel buio, quella vita che avevo sottratto al mondo e che laggiù, nella notte, esigeva la sua esistenza, negata dalla morte prematura. Una morte che lo aveva raggiunto a causa mia. Perché Johann volle salvarmi dal ghiaccio dove stava annegando e morì al mio posto. Una vita rimasta là, fra le non-vite, che si vendicherà della mia. La sento nascere, formarsi, plasmarsi. È solo lamento, solo voce, ma presto diventerà corpo, il suo corpo. Il mio volto, mentre la sua vita comincia a parlarmi, sta cambiando; comincio, continuo a cambiare; fra poco, al mio posto, col mio stesso volto, ci sarà Iohann, lui, Johann, il fratello che ho ucciso e che vivrà coi miei gesti e la mia voce, mentre io, annientato, espierò, sepolto nel ghiaccio, senza riuscire a morire…
Claudio Parmeggiani, Caspar David Freiedrich
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Dipingere non il frassino ma il suono del frassino, lo schianto della folgore sul ramo. O, delle betulle, certi rami, bianchi come avorio, alti e flessuosi, dove la corteccia si distacca lentamente, con strisce sottili, come di carta – carta per piroghe, sandali, tetti, ponti, libri…
Come era facile montare i consueti materiali – luna, rocce, vele – e comporre miracoli cromatici, meraviglie meccaniche, ingegnosi e sublimi paesaggi! Ma la realtà è diversa. Esiste, nelle cose e nell’arte, una misteriosa rivoluzione che non posso più controllare con i miei freddi calcoli di pittore, con le mie alchemiche strategie di luce…
Guardo, nel muro sopra il mio letto, il disegno a sbarre creato dal chiarore lunare.
Fu quando parlai con Goethe. Scegliemmo un angolo buio, io dissi ciò che dovevo dire. La sua faccia si riempì di lacrime. Era con noi anche Jean Paul. Mi disse che non aveva mai visto Goethe piangere. Cosa gli hai detto? – mi chiese. Non ricordo più – risposi.
L’arte è la forma di ciò che la esclude: la passione diretta, il grido che ammutolisce, la mortalità.
Non posso che dipingere schiene. Non ci sono modelli che mi guardino negli occhi. Nessuno deve guardarmi negli occhi. Tutti hanno da fissare il paesaggio, abbaglia, ammutolisce, toglie il fiato. Non posso che mettermi dietro di loro, da complice e da spia.
Non conosco il sud del mondo. Non ho mai sognato il sud. Il mio unico sogno è una distesa piatta, un orizzonte metallico, una linea grigia sotto il cielo. Potrebbe essere la linea che delimita l’oceano come il deserto. Nei miei sogni non accade nulla. Io non ci sono. Anche le mie visioni non hanno bisogno di me.
«Perché quest’uomo raffigura solo la schiena?».
«Perché è il luogo dove tu non potrai mai guardarti».
Non ci sono specchi nei miei quadri: io non duplico nulla.
L’albero, al centro del tronco, ha un buco nero.
Quando emerge l’immagine di ciò che desidero veramente dipingere, incomincio a muovere il pennello, inseguendola come il falco la lepre sbucata dal cespuglio.
Non posso lavorare senza il pensiero di un cielo – un cielo interno, che scaturisca dalla pelle e balzi fuori dal viso, colmo di nuvole, percorso dal vento, affannoso; che tenda a diventare sereno senza diventarlo mai. Senza il pensiero di questo cielo è possibile dipingere?
I cieli che dipingo sono vuoti, sconfinati. Ma è bene, col pennello, fare un primo segno. L’abbozzo di un tetto, di un monte. Una curva nera.
A che servono i rossi, i gialli, i blu? A parlare dell’io. Non lo voglio. E’ già molto quel graffio, quel nero nel bianco totale che potrebbe assorbire la mano.
Non il nero dei pozzi, delle macchie, ma il nero sottile con cui la punta del pennello dà inizio a una forma. Vorrei che sul ghiaccio apparissero ombre di nuvole, di uccelli, di uomini.
Faticosissimo tracciare l’ovale di un viso. Non ne ho la spudoratezza. Il volto è carico di emblemi, valori, simboli, virtù, armonie. Lo detesto. Meglio vedere gli uomini da lontano e dall’alto, come Piranesi: piccolissimi, deboli, fragili, sproporzionati alla nera materia che ci assorbe e ci inchioda, da cui non possiamo uscire.
All’inizio volevo dipingere paesaggi o schiene. Avevo sempre raffigurato gli altri sbozzandone le spalle e la nuca, salvaguardando il segreto del volto. Vedere una faccia – così pensavo – era uccidere chi la possiede. Poi tutto cambiò. Capii, col passare dei giorni, che le schiene erano troppo opache, troppo cupe. Non le volevo più. Cominciai a provare un desiderio, sempre più irresistibile: essere guardato dagli esseri che dipingevo. Così nacquero le facce. Nacquero gli storpi, i matti, gli ubriachi. Volevo sentirmi fissato da figure che non avevano la fissità solenne dell’opera finita ma la mobilità sfuggente e stolida degli esseri vivi. Poi bruciai tutti quei quadri, uno per uno.
Il mio destino mi è diventato indifferente, come l’incomprensione dei miei contemporanei. In fondo sono fortunato: posso mostrare le mie opere. Vengono appese nelle gallerie, ammirate o derise. Altri non hanno questa fortuna. Nessuna galleria li accetta. Vivono la morte civile: le tele ammassate nell’atelier. Diventano pazzi sotto il peso delle proprie opere, che non saranno mai viste.
Come vorrei non essere più artista di opere ma essere vivo che emette la sua voce, quel particolare timbro di voce, quel modo di essere – la sua opera effimera, felice, disperata, libera da editori, galleristi, compromessi, errori.
In fondo a tutte le cose, dove immaginiamo verità solide e consolatrici, c’è sempre un soffio casuale. Lo sanno gli esseri che metto a sentinelle delle mie tele. Spettatori, angeli, ombre, viandanti, guardiani. Vegliano il transito verso e dal vuoto. Talvolta vorrei srotolare il mondo come un libro e piegarlo a cuneo verso il centro: diventerebbe pagina da traversare, foglio da percorrere, e non paesaggio immoto da guardare.
Ogni paesaggio è una scala rovesciata, dove scendere è speculare a salire. La scala di Giacobbe non è che una variante sublime della discesa all’Ade.
Il mondo non è una superficie da possedere ma un labirinto dove orientarsi, smarrirsi, o restare sulla soglia a testimoniare.
Poiché i morti non giacciono silenziosi nella tomba, può darsi che io parli ancora nella voce di qualcuno che non vuole lasciarmi all’olio delle tele e ai vermi della terra, e mi invita a rispondere, con altri linguaggi, della mia vocazione ossessiva e ascetica all’arte. Scrivo e dipingo anche per questo mio compagno futuro.
La notte provoca nella materia torsioni che solo il fuoco potrebbe produrre plasmando il metallo. Ma poi arriva il giorno, e tutto torna come prima.
Vorrei parlare non del fuoco che sgretola e incenerisce, ma della fiamma che brilla fra libro e bottiglia, tra mela e teschio, diritta e calma, austera e silenziosa sul tavolo di legno, riflessa nell’ovale dello specchio. De la Tour conosceva tutti i segreti di questa luce, con cui faceva brillare i volti dei vivi come se fossero icone sacre o fantasmi di morti: ricordo i suoi volti di fanciulle che reggono torce nel buio, di donne che schermano candele nella tenebra fitta. Per me è impossibile affrontare la luce con la stessa sacralità. Io devo inventare un chiarore freddo e lontano, di cui non sia visibile la sorgente.
Un grande alone, rosso e dorato, roseo e grigio, dietro l’albero, nel fondo della tela. L’occhio umano non deve capire che l’albero brucia ma osservarne gli effetti con pudore, da dietro uno specchio o un sepolcro, senza esserne folgorato. Così la mente vedrà, come in sogno, la fonte di cui le pupille osservano il riflesso.
.Dipingere paesaggi non all’altezza della terra
Se fossi un uccello che volai miglia e miglia sopra il livello del mare, dove l’aria è tanto rarefatta da essere irrespirabile, dove neppure gli uccelli osano spingersi.
Le nuvole non sono solo i vapori che vediamo dal basso. Sono veri e propri pianeti, dove il piede umano non potrà mai posarsi. Forme di isole e boschi, immagini di altopiani e caverne, si alternano senza un ordine stabilito, edificando regni senza nome, vivi solo per l’assenza di vento. Si vedono montagne dalle pareti azzurre o dorate, che non posano su nessun blocco di pietra, compatte, granitiche, innevate. Cascate bianchissime, immobilizzate nel disegno della cascata. Crepacci dove l’alto non si distingue dal basso. Altopiani dove non vola nulla. Sterminate pianure che assomigliano a isole, lastroni ghiacciati, picchi nevosi. Laghi, fatti della sostanza dell’aria. Crateri, strapiombi, pianori disseccati, distese di sabbia, lastre di vetro, pozze di rame. A volte sono una massa grigia, un antro nero, un pozzo sinistro, eruzioni rocciose simili a mostruose stalattiti. E, molto spesso, quasi ogni giorno, il banale cielo azzurro fa giustizia delle loro forme, le dilegua, compie un triste sterminio.
L’aria non è semplice come pensiamo. È qualcosa di complesso, che si divide in strati. Sopra, ad esempio, un bianco senza tempo; sotto un azzurro acceso, una banda blu che simula l’orizzonte del mare; sotto, ancora del bianco, fatto di cirri, cumuli, nembi che modellano isole deserte o altopiani polari; sotto ancora, nubi più leggere, come di cotone; e sotto ancora il mare, forse la terra. Ma terra e mare, visti dall’aria, sotto le nuvole, appaiono come paesaggi sottomarini, regni fantastici colti attraverso nebbie, specchi, vapori. Legati alla terra siano povere figure, mai all’altezza della realtà.
Guarda al centro del sole. Se osservi con attenzione, vedrai un punto più scuro, una macchia buia. Osserva a lungo. Proverai freddo e silenzio. Gli alberi diventano ombre, il cielo scolora, il bosco si rabbuia. Ma fissa bene quel punto nero. E allora troverai di nuovo l’origine, la prima luce, l’attimo in cui il raggio solare nasce – ma meno caldo, più intenso. Guarda al centro del raggio. E, se sarai attento, ritornerai a sentire la notte – ma meno fredda, più serena. E sempre e ancora così, finché la saggezza ti consentirà di sentire la luce e le tenebre come una sola cosa.
Ho infilato l’inferno nell’astratta prospettiva della solitudine e non nella materia della carne, come Tiziano, come Velàzquez. Se si vedono i miei miseri autoritratti, la prova è lampante. Qual è quello autentico? Quello in cui sembro un idiota, con la matita in mano? o l’altro in cui si mostra, di profilo e di fronte, con una barba riccioluta, palesemente falsa? o l’altro ancora, in cui faccio la parodia del poeta pensoso, immerso nelle sue rêveries? Il più reale mi raffigura con un cappello calato sull’occhio destro. Sembro malato alla vista, punito per la sua passione dell’esattezza, per la mia eccessiva imitazione della natura visibile. Non mi dispiacerebbe ritrarre ancora me stesso. Due autoritratti dell’adolescenza, uno immerso nella luce piena dell’estate, l’altro sprofondato nella fissità attonita dell’inverno. Entrambi mi ritraggono allucinato e silenzioso, come se non potessi più svegliarsi dal sonno che mi ha colto.
Il cielo: una fascia rosa-scuro, con nuvole gonfie e precise, dagli orli neri; in alto, all’orizzonte, un azzurro sfavillante, preludio alla notte futura. In cieli come questi, mostrati e velati da foglie agitate dal vento, sole e luna risplendono insieme; il primo cupo, la seconda pallida. C’è una singolare e diabolica saggezza nella presenza simultanea dei due astri. Gli antichi aruspici traevano le loro profezie dalla visione di questi cieli, che non appartengono né al giorno né alla notte, ma ad entrambi, felicemente illogici. Come vorrei dipingere non il frassino ma il suono del frassino, non il lampo ma il fragore della folgore sul ramo. O certi rami di betulle, bianchi come avorio, flessuosi, dove la corteccia si distacca lentamente, con strisce sottili, come di carta – e la carta inventa piroghe, sandali, tetti, ponti, libri. Trovare il sentiero giusto, all’ora giusta, il sole dorato fra i rami, e percorrerlo bene, sopra la valle parallela al mare, prima che scenda il buio e la valle sia tutta grigia e la notte cominci, pesante, a salire. In quel sentiero, dove la luce è prossima a sparire, i vermi guizzano veloci nel sottobosco e le capre mandano lamenti sibillini, a cui è necessario obbedire.
Vedere la terra dalla prospettiva del cielo. Del capogiro. Non fossi un pittore e fossi un uccello! Poter volare miglia e miglia sopra il livello del mare, dove l’aria è tanto rarefatta da essere irrespirabile per l’uomo, dove il silenzio che immaginiamo è già un rumore violento! Le nuvole non sono solo i vapori che vediamo dal basso. Sono veri e propri pianeti, dove il piede umano non potrà mai posarsi. Forme di isole e boschi, immagini di altopiani e caverne, si alternano senza un ordine stabilito, edificando regni senza nome, vivi solo per l’assenza di vento. Montagne dalle pareti azzurre o dorate, che non posano su nessun blocco di pietra, sembrano compatte, granitiche, coperte di neve. Cascate bianchissime, immobilizzate nel disegno della cascata. Crepacci dove l’alto non si distingue dal basso. Altopiani dove sono rari anche gli uccelli. Isole che sono sterminate pianure, lastroni ghiacciati, superfici bianchissime, colline ondulate, picchi nevosi. E laghi, fatti della sostanza dell’aria. E crateri, cascate, strapiombi. O pianori disseccati, distese di sabbia, lastre di vetro. A volte sono una massa grigia, una tromba nera, un inferno. Ma, molto più spesso, il banale cielo azzurro fa giustizia delle loro forme, le dilegua, compie un triste sterminio. L’aria non è semplice come si pensa. E’ qualcosa di complesso, che si divide in strati. Sopra, ad esempio, un bianco senza tempo; sotto, un azzurro acceso, una banda blu, che simula l’orizzonte del mare; sotto, ancora del bianco, fatto di cirri, cumuli, nembi, che modellano isole deserte o altipiani polari; sotto ancora, nubi più leggere, come di cotone; e sotto ancora il mare, forse la terra. Ma mare e terra, visti dall’aria, sotto le nuvole, appaiono come paesaggi sottomarini, regni fantastici intravisti attraverso nebbie, specchi, membrane.
Mi chiamo Caspar. Caspar David Friedrich. In uno dei miei autoritratti ho l’occhio bendato. Ma, con un solo occhio, io posso, devo, so vedere più a fondo.
Come ti scrivevo, dopo la traduzione di Giorgio Mobili ho cominciato a pensare che tradurre Terezin in altre lingue, ma anche in altri linguaggi (fotografia pittura musica…) potesse essere un modo per donare vita a Margit, per far fiorire tutta la vita che c’è nel nome e nel disegno di Margit. Ho chiesto allora a Kvetuse se voleva tradurre Terezin in ceco, Kvetuse non conosce l’italiano e per questo le ho mandato la traduzione di Giorgio. E lei mi ha risposto concentrandosi sul nome di Margit, ha scritto “Il significato del nome Margit è Perla”. Io l’ho trovata una traduzione bellissima, un nome prezioso per una bambina preziosa. Del resto il senso non è tradurre Terezin, sì, è anche questo, ma è soprattutto donare vita a Margit e Kvetuse lo ha fatto.
(Da una lettera di Silvia Comoglio a Marco Ercolani)
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Terezín
Margit Koretzovà
Plzeň 08.04.1933
Terezín 1942 – Osvĕtim 1944
Stolperstein: Plzeň 08.09.2022
kreslila v Terezínĕ
Rozkvetlà louka s motyly
Význam jména Margit je „Perla“
Trad. Květuše Sokolová
PhDr. Květuše Sokolová -Vedoucí Odboru Kultury – Plzeň (Direttore del Dipartimento della Cultura di Pilsen)