(2023)

Non è strano: la poesia è senza parole. Le poche che trova, la catturano interamente, senza lasciarle nemmeno una sillaba per farsi sentire. Angelo Lumelli
Restare appena dicibile praticando una scrittura interminabile. Marco Ercolani
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Capitolo 2. Lettere 8-16
Ottava lettera. A.L.
Caro Marco, ora posso non partire, mi dici? – ah non m’inganni, mio delicato, premuroso amico – non partire non significa non fare, ma fare altro, quindi ne approfitto per ribadire quell’idea di “vuoto” che costituisce l’ambiente della poesia, il suo batticuore, l’emozione primordiale.
Mi piace che tu possa non partire, vale a dire che il grande amore per l’occasione venga espiato dal più grande amore per l’attesa, lo stato di verginità prorompente, la nostra derivazione, oltre che dal passato, dal futuro che non ha ancora una lingua, non ancora un diario, nessuna cordicina con i nodi da sentire con le dita.
Il futuro non è ancora detto, ecco la ragione di uno stupore senza fine. Quasi non dire – è questa la poesia? Allora tu sei pronto a perdere l’acconto e a non fare il viaggio? – sbagliato! tu farai un viaggio mancato, un rientro, un ritorno.
L’acconto che hai pagato non ti lascerà libero, il viaggio lo farai comunque – ah non più a Dubrovnik, sognatelo – infatti ti dichiari pronto a ripetere, onde ricavare dalla ripetizione lo stesso stupore che dalla novità – o stupore più grande, incisivo, carnale.
Ripetere! – tentativo grandioso, a imitazione del reale, ostinatissimo.
Non ho mai capito fino in fondo questo finto dilemma: una volta detta, una cosa è da fare? o: una volta detta, una cosa è come fatta? Inutile che ti ricordi Des Esseintes.
Ho visto, ho conosciuto, persone che ingioiellavano la loro miseria più di quanto facesse Des Esseintes inserendo brillanti nel guscio della sua tartaruga. Intendo che la vita splende, straziandosi, là dove è impedita, per cui il misero è colui che, in purezza, innalza il terribile inno nei cieli. Alla fine è questo che ha detto Gesù Cristo, il primo nichilista di buona volontà?
È pur vero: Des Esseintes ha fatto le valigie e non parte – lui dice che la partenza non aggiungerebbe nulla al suo testo interiore, al suo poema – ma sbaglia: aggiungerebbe uno iato, una sospensione della frase, un piccolissimo abisso significativo, il famoso fallimento dell’ultimo minuto.
La frase non se n’accorge? – la frase è capacissima a girare la frittata? È vero, devo riconoscere – essa non sa nulla della durata, il suo congegno dura poche righe, illumina od oscura – poi si dilegua tra le righe, lasciando in panne la notte ospedaliera. Si può dire che la frase accade? che essa prende le sembianze della vita? che come la vita si fa ingenua, perdendo la doppiezza che era la sua soddisfazione, la sua veniale, scolastica impostura?
È verissimo, caro Marco – io l’ho sostenuto e l’ho anche scritto : “la poesia non voleva parlare, voleva soltanto accadere” – erano i tempi di Trattatello incostante, 1980, e mi domando, adesso: perché ho scritto “soltanto”? Soltanto perché? Non c’era sotto l’idea che l’accadere è basic, senza optional senza duplicazioni, senza eco, senza ritorno? Non era, nella sua ingenuità, un’espressione infantile e terroristica, una poetica dello sgomento? Non lasciava intendere che metà della frase era un’usurpazione, una conclusione conveniente, senza esporre, coraggiosamente, l’interruzione che ci rende prudenti invece che fanatici o risaputi?
Chi aveva in mano l’altra metà della frase? Tu mi hai anticipato. Il vivente è colui che interrompe il linguaggio. Per cui: ciò che avanza lo offrono i poeti. Si sentono ancora gli echi di quella rivoluzione.
Stai bene. Angelo
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Nona lettera. M.E.
Hai parlato di batticuore, qualche lettera fa. Io l’ho provato leggendo le Lettere di Rilke a un giovane poeta: «Voi siete così giovane e io vi vorrei pregare per quanto posso, caro signore, di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentare di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo, si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande. Forse vi insinuate così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere in un giorno lontano la risposta». Il poeta è persona infelice e concava, capace di ricevere domande: non è poeta felice e convesso, beato nella visione della sua risposta. Dici di essere sempre impacciato, come se dovessi cadere da un sentiero di montagna. Ma ogni autentico poeta è l’impacciato portatore di una visione del mondo che non coincide con nessun’altra prima. La percezione sovverte le percezioni altrui, passate e future, per riaccoglierle dopo. Ogni poesia presuppone lo stupore del lettore e la confusione dell’autore: è sentirsi inadeguati davanti a qualcosa di eccezionale e di intenso che ci chiama e che vorremmo descrivere dentro o fuori di noi, ma non ci riusciamo, come Alberto Giacometti sentiva di non poter scolpire un volto così come lo voleva, e così, mentre non riusciamo a niente, mentre cerchiamo le parole con cui sicuramente falliremo nel dire ciò che vorremmo dire, in questo sentimento di scacco ma non di rinuncia comincia a nascere la poesia, e quando è nata, possiamo lavorarci, correggerla con orgoglio e disincanto, sicuri che non avremmo fatto ciò che intendevamo ma che ci siamo avvicinati, con una certa approssimazione, al nostro stralunato progetto. Una poesia che aggiunge solo versi al mistero del linguaggio non è dignitosa. Il suo nucleo di origine è l’ostacolo da cui misurare la volontà di superarlo con il trampolino delle parole. L’arte aiuta a estrarci dall’inerzia. Ogni poeta deve proporre non versi nuovi, ma un mondo nuovo. Secondo Robert Musil, il poeta non è né il folle né il veggente né il bambino, ma “l’uomo che bada alle eccezioni”. Alla sua domanda: “se il poeta debba essere un figlio del suo tempo o un procreatore dei tempi”, la risposta è ovvia: il poeta crea il suo tempo e, creandolo, vibra in sintonia con chi lo ha preceduto e con chi lo seguirà, non essendo contemporaneo a nessuno, perché la sua opera si colloca tra una realtà definita e una realtà trascesa. La poesia è sempre “fuori di sé” e costruisce le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza. Non vive la pienezza del canto ma la sua radice, che è l’impossibilità della parola. Stare ai margini dell’afasia, dentro qualcosa di impreciso che ammutolisce il linguaggio comune e consente alla poesia di esistere, è tutto. Essere nell’illimitato fondando limiti che dissolvono limiti. Scrive Novalis «La poesia è il reale veramente assoluto», cioè un reale che comprende la sua stessa inesistenza, perché nella realtà totale tutto può essere reale e irreale. Le parole hanno già parlato prima di arrivare al poeta, sono piene di silenzi e di suoni. Il compito del poeta è riconiarle per il tempo che durerà la sua opera, ma con la certezza che «il senso troppo preciso cancella la vaga letteratura» come sostiene Mallarmé. Ogni poesia progetta la propria luminosa oscurità e diventa forma cosciente di quel grido che interrompe il silenzio: «progetto di veglia/ con sogno e manovra», scrive Lorenzo Pittaluga. La veglia è il progetto reale che comprende le matrici del sogno e le manovre della forma. E ancora Lorenzo: «Un’ombra si inginocchia sul tavolo/ scavando una luce nell’ordine delle cose». Una luce scavata dall’ombra? Nell’ordine delle cose? Perché deve accendersi quella luce? Ma il poeta non si sbaglia. Quella luce va accesa, a costo di rischiare la vita. Bisogna cercare ciò che è nascosto, i buchi tra le parole, non ci si può accontentare di meno.
Il poeta non vuole riappacificarsi né con il mondo né con le parole: se non fosse così, non sentirebbe neppure l’impulso di scrivere, la necessità di colmare una mancanza con il sogno delle parole. Baudelairianamente, mette “il suo cuore a nudo”. Sta coi nervi scoperti. Va alla ricerca di qualcosa che ancora non sa, intorno a cui non riesce a fare chiarezza, pervaso da una febbre. La poesia si confronta con la necessità della febbre. Senza questa sospensione visionaria l’impulso a fare arte che senso ha? La poesia sperimenta emozioni che ingorgano, nodi che soffocano il respiro, e poi il testo fa trovare il respiro. Ogni poesia è dispersione, desiderio di libertà, energia destinata a disintegrarsi, testimoniata solo dalla scia dei testi. «Tutto è solo un continuo fuggire,/ non terra promessa, non sosta,/ forme, difformità/ sconnesse/ di scorcio» (Gottfried Benn). Quando si addentra verso l’universo delle cose e ne tenta una trascrizione, un’evocazione, l’oggetto corteggiato dalla parola, invece di mostrarsi di più, si mostra di meno, e ogni ulteriore descrizione, anche la più dettagliata, lo avvolge in una nebbia che lo dissolve, perché “La poesia sogna di non essere scritta, ma di accadere”. Le parole che avrebbero dovuto arricchire la percezione la disorientano, sono fiamme che aggiungono chiaroscuri alla cosa evocata, ne accrescono l’ombra, ne sbriciolano i contorni: la rendono inattesa. «Suono era e fluiva/ e il brivido dentro il ciottolo/ era vuoto a strapiombo» (Lorenzo Calogero).
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Decima lettera. A. L.
Caro Marco, non c’è niente da fare: gli aspiranti, i novizi, gli apprendisti devono aspettare – aspettino senza rosicchiare inizi e assaggi di qua e di là. Proprio loro, divorati dall’urgenza, dalla frase che vuole erompere, incantati dal linguaggio come un drappo di aurora che svela un giorno agitato, ah bersaglio di tutti i significati, giovane vita! Mi sono fatto prendere la mano, pardon!
Dunque non oso nemmeno pensare che Rilke si sia tolto di torno Franz Xavier Kappus, il giovane poeta, dicendogli che per essere poeta bisogna, praticamente, astenersi dal linguaggio prima di averlo attraversato – e che soltanto allora, giunti ai suoi confini, all’ultima parola, soltanto allora si potrà cominciare – alla fine.
Rilke non prende sottogamba il giovane Kappus né sembra avere intenti dissuasivi o terroristici – lo prende sul serio, come parlasse a se stesso – anzi è proprio questo che fa – lui, che fu alunno nella stessa Militärakademie di Wiener-Neustadt, da dove Kappus gli scrive.
Dunque c’è qualche intrigo, di memoria, di compassione, di complicità, di insofferenza, di prudente fraternità.
Ora io sono con te, senza riserve, nel condividere la tua citazione della lettera del 16 luglio 1903, da Worpswede. “Non cercate ora risposte…Vivete ora le domande.” – come si fa a dire di no?
“…lassen Sie sich das Leben geschehen| lasciatevi accadere la vita” (lettera del 4 novembre 1904) – non ti sembra straordinario citare la vita come rimedio, eventuale, alla scrittura? – a uno che forse, per essere scrittore, non aveva abbastanza dolore?
Tutto ciò non mi ha impedito di notare, nella prima lettera del 17 febbraio 1903, una serie di consigli o prescrizioni, che, messi in fila, mi hanno confermato nell’idea che la poesia può soltanto essere un corpo a corpo, un azzardo solitario, che non deve cercare consenso, bensì offrirlo – un dono cioè, senza esagerare con la caritas.
Le prescrizioni (con leggerissimi modernariati) sono le seguenti:
Non spedite le poesie in giro. Non chiedete giudizi. Non aspettateli. Rientrate in voi stesso. Non scrivete poesie d’amore. Non fate sonetti. Non preoccupatevi della riuscita. Se vi sentite poeta, allora siatelo. Se rinunciate ad essere poeta, allora fatelo. Nel buio della notte domandatevi: se non scrivessi, morirei?
Ora, mi domando – sono io che m’interrogo – perché? – perché ho allestito un prontuario del genere, con intenti che non mi sono chiari, ma che sicuramente ci sono, sinceri, come una critica dell’economia politica, per non farsi infinocchiare – eh basta!
Ecco invece, chi, a ragion veduta, programmaticamente, sapendo quello che fa, ha suggerito, fomentato, sobillato: Michele Zaffarano con “Istruzioni politico-morali all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sull’assimilazione dei concetti nuovi.“ (diaforia, 2021) – con risvolto di Nathalie Quintane.
Ecco alcune istruzioni:
Partecipa alla costruzione del senso. Partecipa a quell’attività che è la costruzione del senso. Anticipa il senso della costruzione del senso che poi troverai costruito. Fai domande sul senso. Per anticipare il senso fai domande sulla costruzione. Devi essere performante con il senso. Quando sei performante con il senso non ti precipiti dentro il senso a testa bassa.
Se mi sono divertito? È forse illecito? Sì, mi sono divertito. Ho desiderato uscire dall’attraversata dell’io, sbucando fuori, anch’io, nella grande kermesse, disastrosa, urrah! Cosa ci farei nel grande esterno? Chi può dire! Ho detto che vorrei andare nel grande esterno? Marco, non guardarmi così! Tu mi hai scritto:
La poesia è sempre “fuori di sé” e costruisce le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza.
Invece di ribadire, approfitto per lanciare alcuni spot, un po’ di slogan rompicapo – tratti dall’ottava elegia di Rilke – è con lui che sono cominciate le nostre ultime lettere.
Il tema è das Offene | l’Aperto.
1.
Mit allen Augen sieht die Kreatur | das Offene. Nur unsre Augen sind |wie umgekehrt… (Con tutti gli occhi la creatura vede | l’Aperto. Solo i nostri occhi sono | rovesciati …)
2.
Denn nah am Tod sieht man den Tod nicht mehr | und starrt hinaus, vielleicht mit großem Tierblick. (Perché quando la morte è vicina non vediamo più la morte | e guardiamo il fuori, forse con ampio sguardo animale.)
3.
Liebende, wäre nicht der andre, der | die Sicht verstellt, sind nah daran und staunen… |Wie aus Versehn ist ihnen aufgetan | hinter dem andern… (Gli amanti, se non ci fosse l’altro |a coprire la vista, ci sono vicini e si meravigliano… |Come per sbaglio, si èaperto | oltre l’altro… )
4.
Dieses heißt Schicksal: gegenüber sein (Questo si chiama destino: essere difronte)
5.
o Glück der Mücke, die noch innen hüpft, | selbst wenn sie Hochzeit hat: denn Schooß ist Alles. (Oh! felicità d’un moscerino,che all’interno saltella, | anche quando va a nozze: perché il grembo è il tutto.)
L’ animale, la morte, l’amore, il destino, il grembo…
E la poesia? Dove si colloca la poesia rispetto a das Offene? – il massimo dentro, il massimo fuori, un andirivieni? Questa mattina, per me, la poesia è messa così: essa sta subendo il ricatto e i premi del linguaggio – invano tenta di tornare respiro – allora balla intorno al fuoco dei maghi antichi, mentre balla prega e mentre prega inventa il suo dio che l’ha abbandonata.
Non dirmi che approfitto della tua convalescenza per dirne di tutti i colori.
Delicatamente. Angelo
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Undicesima lettera. M. E.
Caro Angelo,
la poesia come azzardo solitario: c’è qualcosa da aggiungere? Accade, e non ci sono alternative. Occorre far brillare il suo accadere nella scrittura, ma come? Intrattenendo in un dribbling stretto con le parole, inventando un realismo ubriaco, un andirivieni. Si parte sempre dall’aria i versi che soffocano non mi interessano. Quelli che restano, ma quali?, sono lezioni dell’aria in mezzo alle parole, un groviglio buffo. “Non resta altro che impiccarsi e scrivere!” grida Hrabàl. Possiamo non sentire il suo grido? Che è quello di Alfonso Guida nella sua poesia Craco: “Craco, paese all’insù, / d’ oro fuso, polena / su una colonna d’arpa”. Già, un paese capovolto, una lingua capovolta: e noi ci passiamo in mezzo, reinventando il dio che ha abbandonato la poesia. La creatura vede l’Aperto, esce dalla lingua che coltiva per sradicarla e farne “radice volante”. Mi chiedo solo: perché in tanti scrivano come se mettessero calce fra le parole e non aria. Si accorgono che così la poesia non accade più? Al massimo trionfa nei suoi possedimenti. Con te, Angelo, invece, ho la sensazione che le terre siano forate al centro. Con te parlo dal vuoto abitato, fitto di pensieri nomadici. E questa sensazione mi è cara, mi è chiara. Reduce da un ricovero che ha reso visibile e doloroso il mio corpo, ho capito che voglio insegnargli a tacere, almeno per il tempo delle nostre lettere, almeno finché non parlerà solo lui ma io non ci sarò, a sentirlo. Sai cosa mi viene in mente? Che l’idea di vuoto sia simile all’idea di vento. Non mi seduce l’assonanza “vuoto-vento”, ma proprio l’idea che la poesia, muovendo versi e frasi come vele, ci offra una lezione di vento. “Dolce e chiara è la notte e senza vento”: qui Leopardi, descrivendo l’assenza dell’aria nella notte, ci presenta un verso che, nei secoli, ha sciolto pietre e monumenti, ed è rimasto emblema di uno sguardo fluido, che buca il centro del mondo come la “ballatetta” di Guido Cavalcanti. Non sono forse le sue “penne isbigotite” ad assicurarci, nel mondo, il “luogo d’aria” che osiamo dire nostro?
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Dodicesima lettera. A. L.
Caro amico, dunque sei tornato! – accidenti, potremmo dire, nemmeno i mali hanno cambiato la frase, rimasta tal quale, dall’ultima volta – da smantellare, da ridurre da ultima a penultima, così che abbia scampo, svignandosela, lucertolina che le tenta tutte.
Ci sono cose che non si possono dire? – che, se dette, per entusiasmo, per inavvertenza, diventano sistemiche, impedendo il loro stesso assunto, ciò che più ardentemente volevano? Sai cosa ti dico? – alcune cose è meglio che le dica il linguaggio – dica pure, ma noi abbiamo da dire un’altra cosa, ulteriore. Ecco: dobbiamo essere ulteriori, visto che non possiamo essere contemporanei all’accadere.
Qui volevo arrivare: la libertà, ad esempio, intesa come liberazione, come può continuare a liberare se stessa?
No, non pensare che sono peggio del solito – ho semplicemente paura che una parola, arrivata alla fine di un percorso tormentato, diventi l’inizio di una soluzione. Eh no! – chi fa poesia non ha soluzioni! – quell’idea della poesia in quanto accadere non può diventare una poetica positiva, un’affermazione: noi subiamo quell’accadere, siamo sue creature, siamo nelle sue mani, golosi, riluttanti – noi siamo quelli della nascita, appena nati, ancora una volta, sempre. La nostra festa non è la presentazione al tempio, il giorno della befana! – epifania che tutte le feste porta via!
Siccome, io per primo, in questo nostre corrispondere, ho insistito sul concetto di accadere in poesia, mi accorgo – adesso che tu assumi quella frase come buona, sostenendomi – come quell’accadere fosse nel segno della passività, della creatura inerme che per istante è gloriosa, un evento che ti prende alle spalle, una ritorsione forse, una torsione verso lo spazio precluso, il grande pensiero della nostra nuca.
L’accadere è l’altare del sacrificio, offrire il corpo in cambio della grazia.
Per riassumere: mi onora che tu appartenga a quelli che accadono, ma, per scaramanzia, nel corso di questo rito non incruento, facciamo finta di niente, cerchiamo di lasciarci accadere, mentre il linguaggio pensava che noi volessimo soltanto continuare.
E adesso, caro amico, sono con te senza riserve. I titoli. incantevoli, della tua lettera potrebbero essere “ le lezioni dell’aria”, “il vuoto del vento”, “le terre forate”.
Alla fine la poesia è un atto positivo? – mi sembra di percepirlo, teneramente, dalla chiusa della tua lettera, quel “luogo d’aria” che osiamo dire nostro. Si può dire – sia nostro.
E il corpo? Lo sapevamo che il suo bello era l’incoscienza, con appena il barlume dello star bene, della sua gentile vanità. Adesso, invece, il nostro corpo parla. In questo consiste la malattia.
Come abbiamo desiderato che smettesse – ah non sentirlo più! Invece parla, smentendo la sua virtù di sostituirci, di essere al posto nostro, di farci ancora quell’enorme favore!
Tratteremo ancora questo tema.
Angelo
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Tredicesima lettera. M. E.
Non c’è mai l’inizio di una soluzione. Le soluzioni sono schermi, risposte: a me non piacciono, è come giocare a dama: le mosse facili e veloci non fanno per me. La libertà? Può liberare se stessa? Dannata domanda. Io credo sempre all’imminenza del liberarsi o all’essere appena liberati: lì c’è uno stato di ebbrezza, poi si torna alla palude, si fatica, si annaspa. Ti dirò la verità: non sono uno scrittore in versi, la poesia mi interessa come domanda dell’ulteriore. Scrivere versi mi appare a volte un gioco futile, che rischia di evaporare in se stesso. Amo i versi di Calogero e non le poesie lapidarie e conclusive di Montale o di Caproni, perché sembrano già pronti a non venir più ricordati. Effimeri, extra-ordinari, non hanno l’autorità del monumento e l’icasticità del frammento: sono flashes impressionisti, accorati richiami, melopee che si incrociano e si sovrappongono. Nessuna poesia dovrebbe mai delinearsi con chiarezza, come nessun giorno avere l’ambizione di essere ricordato più di un altro. La vita prosegue nel suo flusso e il poeta è lì, appena vivo, a farsi scuotere dalle parole dettate: «Erano le tenebre slogate. Un punto / fermo erano fuori». Calogero nasce e muore a ogni singola poesia (il poeta voleva intitolare la sua intera opera poetica Città fantastica) e il suo canzoniere potrebbe essere composto da dieci versi, cento poesie, mille sillogi. Non è esauribile e resta impossibile: ripete se stesso all’infinito, la sua luce si affanna a moltiplicarsi in un numero inverosimile di riflessi per potersi vedere. Calogero non impone un repertorio di testi: la sua austera vocazione – il contrario di qualsiasi lussuosa ambizione – è farsi piovere addosso suoni diversi, sviluppati in un flusso di parole, e poi disporli in modo allucinato e incantato, esatto ma astratto, sensuale e disperso. Sopraffatto da una sorta di ipnosi, l’artista dimentica la poesia che sta scrivendo nel momento esatto in cui la scrive: «Un suono bisbigliato era di quiete / e, sbagliata la tua gioia, / rapida fuggì chiusa dentro un’ala / e sola». Restare appena dicibile praticando una scrittura incessante, interminata, ulteriore, è lo scopo segreto di ogni poesia, e del nostro stesso dialogo. Ti confesserò: rileggo raramente i poeti che amo, mi basta sapere che esistono. Non li voglio consumare con eccessive letture ma lasciarli sospesi nelle forme dell’aria, tesori impercettibili che troverò sempre.
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Quattordicesima lettera. A. L.
Carissimo Marco, ci sono pensieri che covano sotto la cenere, hai presente? – basta soffiarci sopra e loro si animano, poi scocca una fiamma, corta, che non è una risposta. Le cose hanno questo modo di essere lampanti. Sanno spegnersi. I concetti invece tendono a durare, ad insinuarsi negli istanti, addirittura ad uscire dall’altra parte, beffardamente, come fossero un traguardo – accidenti a loro!
Volevo tornare – brevemente, lo giuro – su quell’idea di accadere che mi ha turbato. Come si genera un cattivo pensiero? – ah come lo sapevamo, da bambini, con l’imbarazzo di andarsi a confessare! Il puro accadere è dunque un cattivo pensiero? – ne ha tutte le caratteristiche: è estraneo e ci entra nel cuore, con ciò rendendoci estranei a noi stessi – ma c’è di peggio: noi dobbiamo farci trovare, perché l’accadere è una grazia. Tutti i graziati, in qualche modo, si sono fatti trovare – con ciò dichiarando che hanno condotto una vita da spioni – gli altri sono soltanto innocenti.
Ci domandiamo pertanto: prima dell’accadere siamo esseri puri o siamo esseri in peccato? – il peccato non fu definito come mancanza? quindi guai a stare in attesa, dove il tentatore ha buon gioco – o cosa intendevano quei falsari?
D’altra parte: guai a chi dell’accadere si compiace interamente!
Nel frattempo, ieri, ho letto nel tuo blog le seguenti righe di Nanni Cagnone, in merito alla poesia: “…ch’è insuperata scomodità della logica, e congenitamente ostile.” (da: Come colui che teme e chiama). Nello stesso scritto, ch’è intitolato Chiarimento, Nanni afferma che la poesia “è ricever cosa estranea entro gli atti dello scrivere, invece di metter in versi pensieri precedenti…”
Con ciò lo scrivere poesia sembra cominciare da zero, là c’è il buco che il corpo ha lasciato nella lingua, là devi cominciare.
Quell’inizio è un vuoto – figurarsi se il maligno non ne approfitterà.
Se ciò che siamo è in sospeso, altrettanto è ciò che non siamo, per cui con cosa rompere il silenzio? Con un errore qualunque. Il resto del poema è una correzione.
Tu mi domanderai perché così esclusivamente io ami Hölderlin e Trakl, praticamente gli unici poeti ai quali penso, indegnamente, come grandi fratelli maggiori? Essi correggono con mille versi il primo verso di ogni poesia – si mettono dalla parte dell’errore, come la parte debole e senza pace che persegue la verità, mai arrivando alla sua pronuncia, come l’indiano a cavallo che segue l’uomo bianco dalla cima della collina, in uno strano film, senza avvicinarsi, senza perderlo di vista. Può succedere, a poeti di quel tipo, di ridurre il loro vocabolario, significativamente, perché le loro poesie sono grandi veglie funebri, nelle quali basta la voce a tenere compagnia.
Una straziante immagine della poesia è la foto di Lorenzo Calogero in piazza Duomo a Milano, con il cappotto, il cappello, la borsa da impiegato povero, un giorno d’inverno, ostaggio delle parole, le quali salvano soltanto chi prima si fa distruggere.
Un caro saluto. Angelo
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Quindicesima lettera. M. E.
Caro Angelo,
le parole salvano solo chi prima si fa distruggere: l’esatta realtà. Ciò che so da sempre. Camminando nelle teste altrui per quasi quarant’anni, non ho visto grandi avventure nella parola se non quella di Lorenzo. E allora qui lo cito (se lo merita sempre): «Il tuo smarrimento – il tuo esserci / nella visione con i trucchi delle falene / che attorniano il tempo scordandolo / nei luoghi della calamita e dei perduti bisbigli». Ma perché mi torna così spesso alla mente la sua voce, squillante e stridula, da ragazzo che non sarebbe invecchiato? So che era matto, non so se fosse un grande poeta. So che, giorno dopo giorno, notte dopo notte, scriveva, proprio come se esistesse solo la scrittura che accade e ti prende la mano e ti detta ciò che tu hai il dovere di dire. Questo a me basta. Poi posso guardare le singole prove, sentire se qualcosa funziona oppure no, ma cosa importa? Il suo gesto è dato una volta per sempre, ed è racchiuso in lui. In me, che fui testimone di lui pagina per pagina. Ecco il mio piccolo autoritratto: essere sentinella di un bizzarro ragazzo che mordicchia la penna e scrive incessantemente su un foglio protocollo. Perché avrebbe dovuto fermarsi? Aveva già scelto la morte, quindi il suo limite se lo era già imposto. Il resto della vita doveva bruciarlo da poeta. Niente ha più senso di questo: né amicizia né sesso né vita, solo la poesia. Le grand jeu. Rallentando l’attimo finale e comune della dispersione, attraverso le molteplici finzioni e le estenuanti navigazioni, la scrittura diventa oggetto esatto e tangibile, attimo fulmineo in cui accade il libro sognato; ma, appena un attimo dopo, il testo non è più boa, àncora, approdo, ma ancora una volta onda di un gorgo. Come un pianista che suoni nel buio con le dita, semicurvo sulla tastiera, il poeta non si addormenta ma continua a muovere braccia, dita, spalle, con spossante fatica, tenendo fermo il filo della melodia, cercando di essere reale all’interno della surrealtà ininterrotta che è l’esperienza del suo vivere umano e poetico. Per ogni scrittore è indispensabile raggiungere il proprio naufragio, e trattenerlo. Ogni poeta fa naufragio, ma in modo diverso: per lui è indispensabile trovare le coordinate del proprio, definirne latitudine e longitudine, in modo da avvicinarsi con prudenza e audacia, da osservatore-testimone, al maellströmamato e temuto senza rimanerne totalmente travolto. L’arte non è pulsione magmatica, immediatezza espressiva. Louis-Ferdinand Céline, con il suo argot scritto, simulava una falsa “spontaneità” del linguaggio: ma quel “parlato” è una sofisticata architettura sintattica che vuole darci l’illusione del parlato. L’artista è ‘fingitore’ di illusioni persuasive come teoremi. Ogni scrittura poetica è un trattato di ingegneria dove parole e ritmi, pur derivando da stati di confusione o di estasi, sono calibrati fino allo spasimo della consapevolezza. C’è, sempre, la meraviglia per quanto non è dicibile, l’esperienza dell’impensato, la stregoneria del non-detto, non come acrobazia decorativa ma come le tracce di un sogno. La poesia, Angelo, è porosa, lacunosa, esitante, e attraverso cortocircuiti di parole impacciate e ferite raggiunge la sua intima natura – il silenzio come resistenza al linguaggio, il silenzio come imminenza di parola.
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Sedicesima lettera. A. L.
Marco, io non voglio fare il poeta. Io lo devo fare – se non lo faccio, morirei? – come già scritto da Rilke al giovane poeta?
Io ho un amore fraterno per Lorenzo Calogero. Ma io non posso chiudere la frase, tanto meno con me stesso, perché la seconda parte non mi appartiene. Io voglio tornare nel mio corpo, nell’opacità splendente dell’essere luogo. Voglio conservare quello spazio, foss’anche un recinto, per l’ospitalità – io che mi ospito, che ospito gli altri, te.
Noi siamo il buio della poesia. Dobbiamo assolutamente preservare quel buio, il tempo del sonno, fiduciosi, lasciandoci attivamente dormire. Noi, infine, siamo giocatori. La partita non finisce, ma s’interrompe – le sue regole non ci devono perseguitare.
La poesia appartiene alla ferita del linguaggio, al male con il quale ci ha infettato, per cui tutto è recupero della salute, anticorpo. Ecco, come negli ospedali, il male è trattato ordinatamente, con protocolli che corrispondono ai riti degli sciamani – le infermiere siano maghe, fate, sorelle. Ah il grande sonetto!
Per i poeti infortunati c’è sempre a disposizione l’ospedale della filosofia – lo dice Hölderlin. Poi la morte allarga la sua macchia nera e la nostra insurrezione si placa. A quel punto la poesia mostra il suo vero volto, la salma che era stata turbata dagli istanti.
Un abbraccio vivente. Angelo
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