CENTO LETTERE SULLA POESIA. Marco Ercolani, Angelo Lumelli, 2.

(2023)

Non è strano: la poesia è senza parole. Le poche che trova, la catturano interamente, senza lasciarle nemmeno una sillaba per farsi sentire. Angelo Lumelli

Restare appena dicibile praticando una scrittura interminabile. Marco Ercolani

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Capitolo 2. Lettere 8-16

Ottava lettera. A.L.

Caro Marco, ora posso non partire, mi dici? – ah non m’inganni, mio delicato, premuroso amico – non partire non significa non fare, ma fare altro, quindi ne approfitto per ribadire quell’idea di “vuoto” che costituisce l’ambiente della poesia, il suo batticuore, l’emozione primordiale.

Mi piace che tu possa non partire, vale a dire che il grande amore per l’occasione venga espiato dal più grande amore per l’attesa, lo stato di verginità prorompente, la nostra derivazione, oltre che dal passato, dal futuro che non ha ancora una lingua, non ancora un diario, nessuna cordicina con i nodi da sentire con le dita.

Il futuro non è ancora detto, ecco la ragione di uno stupore senza fine. Quasi non dire – è questa la poesia? Allora tu sei pronto a perdere l’acconto e a non fare il viaggio? – sbagliato! tu farai un viaggio mancato, un rientro, un ritorno.

L’acconto che hai pagato non ti lascerà libero, il viaggio lo farai comunque – ah non più a Dubrovnik, sognatelo – infatti ti dichiari pronto a ripetere, onde ricavare dalla ripetizione lo stesso stupore che dalla novità – o stupore più grande, incisivo, carnale.

Ripetere! – tentativo grandioso, a imitazione del reale, ostinatissimo.

Non ho mai capito fino in fondo questo finto dilemma: una volta detta, una cosa è da fare? o: una volta detta, una cosa è come fatta? Inutile che ti ricordi Des Esseintes.

Ho visto, ho conosciuto, persone che ingioiellavano la loro miseria più di quanto facesse Des Esseintes inserendo brillanti nel guscio della sua tartaruga. Intendo che la vita splende, straziandosi, là dove è impedita, per cui il misero è colui che, in purezza, innalza il terribile inno nei cieli. Alla fine è questo che ha detto Gesù Cristo, il primo nichilista di buona volontà?

È pur vero: Des Esseintes ha fatto le valigie e non parte – lui dice che la partenza non aggiungerebbe nulla al suo testo interiore, al suo poema – ma sbaglia: aggiungerebbe uno iato, una sospensione della frase, un piccolissimo abisso significativo, il famoso fallimento dell’ultimo minuto.

La frase non se n’accorge? – la frase è capacissima a girare la frittata? È vero, devo riconoscere – essa non sa nulla della durata, il suo congegno dura poche righe, illumina od oscura – poi si dilegua tra le righe, lasciando in panne la notte ospedaliera. Si può dire che la frase accade? che essa prende le sembianze della vita? che come la vita si fa ingenua, perdendo la doppiezza che era la sua soddisfazione, la sua veniale, scolastica impostura?

È verissimo, caro Marco – io l’ho sostenuto e l’ho anche scritto : “la poesia non voleva parlare, voleva soltanto accadere” – erano i tempi di Trattatello incostante, 1980, e mi domando, adesso: perché ho scritto “soltanto”? Soltanto perché? Non c’era sotto l’idea che l’accadere è basic, senza optional senza duplicazioni, senza eco, senza ritorno? Non era, nella sua ingenuità, un’espressione infantile e terroristica, una poetica dello sgomento? Non lasciava intendere che metà della frase era un’usurpazione, una conclusione conveniente, senza esporre, coraggiosamente, l’interruzione che ci rende prudenti invece che fanatici o risaputi?

Chi aveva in mano l’altra metà della frase? Tu mi hai anticipato. Il vivente è colui che interrompe il linguaggio. Per cui: ciò che avanza lo offrono i poeti. Si sentono ancora gli echi di quella rivoluzione.

Stai bene. Angelo

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Nona lettera. M.E.

Hai parlato di batticuore, qualche lettera fa. Io l’ho provato leggendo le Lettere di Rilke a un giovane poeta: «Voi siete così giovane e io vi vorrei pregare per quanto posso, caro signore, di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentare di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo, si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande. Forse vi insinuate così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere in un giorno lontano la risposta». Il poeta è persona infelice e concava, capace di ricevere domande: non è poeta felice e convesso, beato nella visione della sua risposta. Dici di essere sempre impacciato, come se dovessi cadere da un sentiero di montagna. Ma ogni autentico poeta è l’impacciato portatore di una visione del mondo che non coincide con nessun’altra prima. La percezione sovverte le percezioni altrui, passate e future, per riaccoglierle dopo. Ogni poesia presuppone lo stupore del lettore e la confusione dell’autore: è sentirsi inadeguati davanti a qualcosa di eccezionale e di intenso che ci chiama e che vorremmo descrivere dentro o fuori di noi, ma non ci riusciamo, come Alberto Giacometti sentiva di non poter scolpire un volto così come lo voleva, e così, mentre non riusciamo a niente, mentre cerchiamo le parole con cui sicuramente falliremo nel dire ciò che vorremmo dire, in questo sentimento di scacco ma non di rinuncia comincia a nascere la poesia, e quando è nata, possiamo lavorarci, correggerla con orgoglio e disincanto, sicuri che non avremmo fatto ciò che intendevamo ma che ci siamo avvicinati, con una certa approssimazione, al nostro stralunato progetto. Una poesia che aggiunge solo versi al mistero del linguaggio non è dignitosa. Il suo nucleo di origine è l’ostacolo da cui misurare la volontà di superarlo con il trampolino delle parole. L’arte aiuta a estrarci dall’inerzia. Ogni poeta deve proporre non versi nuovi, ma un mondo nuovo. Secondo Robert Musil, il poeta non è né il folle né il veggente né il bambino, ma “l’uomo che bada alle eccezioni”. Alla sua domanda: “se il poeta debba essere un figlio del suo tempo o un procreatore dei tempi”, la risposta è ovvia: il poeta crea il suo tempo e, creandolo, vibra in sintonia con chi lo ha preceduto e con chi lo seguirà, non essendo contemporaneo a nessuno, perché la sua opera si colloca tra una realtà definita e una realtà trascesa. La poesia è sempre “fuori di sé” e costruisce le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza. Non vive la pienezza del canto ma la sua radice, che è l’impossibilità della parola. Stare ai margini dell’afasia, dentro qualcosa di impreciso che ammutolisce il linguaggio comune e consente alla poesia di esistere, è tutto. Essere nell’illimitato fondando limiti che dissolvono limiti. Scrive Novalis «La poesia è il reale veramente assoluto», cioè un reale che comprende la sua stessa inesistenza, perché nella realtà totale tutto può essere reale e irreale. Le parole hanno già parlato prima di arrivare al poeta, sono piene di silenzi e di suoni. Il compito del poeta è riconiarle per il tempo che durerà la sua opera, ma con la certezza che «il senso troppo preciso cancella la vaga letteratura» come sostiene Mallarmé. Ogni poesia progetta la propria luminosa oscurità e diventa forma cosciente di quel grido che interrompe il silenzio: «progetto di veglia/ con sogno e manovra», scrive Lorenzo Pittaluga. La veglia è il progetto reale che comprende le matrici del sogno e le manovre della forma. E ancora Lorenzo: «Un’ombra si inginocchia sul tavolo/ scavando una luce nell’ordine delle cose». Una luce scavata dall’ombra? Nell’ordine delle cose? Perché deve accendersi quella luce? Ma il poeta non si sbaglia. Quella luce va accesa, a costo di rischiare la vita. Bisogna cercare ciò che è nascosto, i buchi tra le parole, non ci si può accontentare di meno.

Il poeta non vuole riappacificarsi né con il mondo né con le parole: se non fosse così, non sentirebbe neppure l’impulso di scrivere, la necessità di colmare una mancanza con il sogno delle parole. Baudelairianamente, mette “il suo cuore a nudo”. Sta coi nervi scoperti. Va alla ricerca di qualcosa che ancora non sa, intorno a cui non riesce a fare chiarezza, pervaso da una febbre. La poesia si confronta con la necessità della febbre. Senza questa sospensione visionaria l’impulso a fare arte che senso ha? La poesia sperimenta emozioni che ingorgano, nodi che soffocano il respiro, e poi il testo fa trovare il respiro. Ogni poesia è dispersione, desiderio di libertà, energia destinata a disintegrarsi, testimoniata solo dalla scia dei testi. «Tutto è solo un continuo fuggire,/ non terra promessa, non sosta,/ forme, difformità/ sconnesse/ di scorcio» (Gottfried Benn). Quando si addentra verso l’universo delle cose e ne tenta una trascrizione, un’evocazione, l’oggetto corteggiato dalla parola, invece di mostrarsi di più, si mostra di meno, e ogni ulteriore descrizione, anche la più dettagliata, lo avvolge in una nebbia che lo dissolve, perché “La poesia sogna di non essere scritta, ma di accadere”. Le parole che avrebbero dovuto arricchire la percezione la disorientano, sono fiamme che aggiungono chiaroscuri alla cosa evocata, ne accrescono l’ombra, ne sbriciolano i contorni: la rendono inattesa. «Suono era e fluiva/ e il brivido dentro il ciottolo/ era vuoto a strapiombo» (Lorenzo Calogero).

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Decima lettera. A. L.

Caro Marco, non c’è niente da fare: gli aspiranti, i novizi, gli apprendisti devono aspettare – aspettino senza rosicchiare inizi e assaggi di qua e di là. Proprio loro, divorati dall’urgenza, dalla frase che vuole erompere, incantati dal linguaggio come un drappo di aurora che svela un giorno agitato, ah bersaglio di tutti i significati, giovane vita! Mi sono fatto prendere la mano, pardon!

Dunque non oso nemmeno pensare che Rilke si sia tolto di torno Franz Xavier Kappus, il giovane poeta, dicendogli che per essere poeta bisogna, praticamente, astenersi dal linguaggio prima di averlo attraversato – e che soltanto allora, giunti ai suoi confini, all’ultima parola, soltanto allora si potrà cominciare – alla fine.

Rilke non prende sottogamba il giovane Kappus né sembra avere intenti dissuasivi o terroristici – lo prende sul serio, come parlasse a se stesso – anzi è proprio questo che fa – lui, che fu alunno nella stessa Militärakademie di Wiener-Neustadt, da dove Kappus gli scrive.

Dunque c’è qualche intrigo, di memoria, di compassione, di complicità, di insofferenza, di prudente fraternità.

Ora io sono con te, senza riserve, nel condividere la tua citazione della lettera del 16 luglio 1903, da Worpswede. “Non cercate ora risposte…Vivete ora le domande.” – come si fa a dire di no?

“…lassen Sie sich das Leben geschehen| lasciatevi accadere la vita” (lettera del 4 novembre 1904) – non ti sembra straordinario citare la vita come rimedio, eventuale, alla scrittura? – a uno che forse, per essere scrittore, non aveva abbastanza dolore?

Tutto ciò non mi ha impedito di notare, nella prima lettera del 17 febbraio 1903, una serie di consigli o prescrizioni, che, messi in fila, mi hanno confermato nell’idea che la poesia può soltanto essere un corpo a corpo, un azzardo solitario, che non deve cercare consenso, bensì offrirlo – un dono cioè, senza esagerare con la caritas.

Le prescrizioni (con leggerissimi modernariati) sono le seguenti:

Non spedite le poesie in giro. Non chiedete giudizi. Non aspettateli. Rientrate in voi stesso. Non scrivete poesie d’amore. Non fate sonetti. Non preoccupatevi della riuscita. Se vi sentite poeta, allora siatelo. Se rinunciate ad essere poeta, allora fatelo. Nel buio della notte domandatevi: se non scrivessi, morirei?

Ora, mi domando – sono io che m’interrogo – perché? – perché ho allestito un prontuario del genere, con intenti che non mi sono chiari, ma che sicuramente ci sono, sinceri, come una critica dell’economia politica, per non farsi infinocchiare – eh basta!

Ecco invece, chi, a ragion veduta, programmaticamente, sapendo quello che fa, ha suggerito, fomentato, sobillato: Michele Zaffarano con “Istruzioni politico-morali all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sull’assimilazione dei concetti nuovi.“ (diaforia, 2021) – con risvolto di Nathalie Quintane.

Ecco alcune istruzioni:

Partecipa alla costruzione del senso. Partecipa a quell’attività che è la costruzione del senso. Anticipa il senso della costruzione del senso che poi troverai costruito. Fai domande sul senso. Per anticipare il senso fai domande sulla costruzione. Devi essere performante con il senso. Quando sei performante con il senso non ti precipiti dentro il senso a testa bassa.

Se mi sono divertito? È forse illecito? Sì, mi sono divertito. Ho desiderato uscire dall’attraversata dell’io, sbucando fuori, anch’io, nella grande kermesse, disastrosa, urrah! Cosa ci farei nel grande esterno? Chi può dire! Ho detto che vorrei andare nel grande esterno? Marco, non guardarmi così! Tu mi hai scritto:

La poesia è sempre “fuori di sé” e costruisce le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza.

Invece di ribadire, approfitto per lanciare alcuni spot, un po’ di slogan rompicapo – tratti dall’ottava elegia di Rilke – è con lui che sono cominciate le nostre ultime lettere.

Il tema è das Offene | l’Aperto.

1.

Mit allen Augen sieht die Kreatur | das Offene. Nur unsre Augen sind |wie umgekehrt… (Con tutti gli occhi la creatura vede | l’Aperto. Solo i nostri occhi sono | rovesciati …)

2.

Denn nah am Tod sieht man den Tod nicht mehr | und starrt hinaus, vielleicht mit großem Tierblick. (Perché quando la morte è vicina non vediamo più la morte | e guardiamo il fuori, forse con ampio sguardo animale.)

3.

Liebende, wäre nicht der andre, der | die Sicht verstellt, sind nah daran und staunen… |Wie aus Versehn ist ihnen aufgetan | hinter dem andern… (Gli amanti, se non ci fosse l’altro |a coprire la vista, ci sono vicini e si meravigliano… |Come per sbaglio, si èaperto | oltre l’altro… )

4.

Dieses heißt Schicksal: gegenüber sein (Questo si chiama destino: essere difronte)

5.

o Glück der Mücke, die noch innen hüpft, | selbst wenn sie Hochzeit hat: denn Schooß ist Alles. (Oh! felicità d’un moscerino,che all’interno saltella, | anche quando va a nozze: perché il grembo è il tutto.)

L’ animale, la morte, l’amore, il destino, il grembo…

E la poesia? Dove si colloca la poesia rispetto a das Offene? – il massimo dentro, il massimo fuori, un andirivieni? Questa mattina, per me, la poesia è messa così: essa sta subendo il ricatto e i premi del linguaggio – invano tenta di tornare respiro – allora balla intorno al fuoco dei maghi antichi, mentre balla prega e mentre prega inventa il suo dio che l’ha abbandonata.

Non dirmi che approfitto della tua convalescenza per dirne di tutti i colori.

Delicatamente. Angelo

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Undicesima lettera. M. E.

Caro Angelo,

la poesia come azzardo solitario: c’è qualcosa da aggiungere? Accade, e non ci sono alternative. Occorre far brillare il suo accadere nella scrittura, ma come? Intrattenendo in un dribbling stretto con le parole, inventando un realismo ubriaco, un andirivieni. Si parte sempre dall’aria i versi che soffocano non mi interessano. Quelli che restano, ma quali?, sono lezioni dell’aria in mezzo alle parole, un groviglio buffo. “Non resta altro che impiccarsi e scrivere!” grida Hrabàl. Possiamo non sentire il suo grido? Che è quello di Alfonso Guida nella sua poesia Craco: “Craco, paese all’insù, / d’ oro fuso, polena / su una colonna d’arpa”. Già, un paese capovolto, una lingua capovolta: e noi ci passiamo in mezzo, reinventando il dio che ha abbandonato la poesia. La creatura vede l’Aperto, esce dalla lingua che coltiva per sradicarla e farne “radice volante”. Mi chiedo solo: perché in tanti scrivano come se mettessero calce fra le parole e non aria. Si accorgono che così la poesia non accade più? Al massimo trionfa nei suoi possedimenti. Con te, Angelo, invece, ho la sensazione che le terre siano forate al centro. Con te parlo dal vuoto abitato, fitto di pensieri nomadici. E questa sensazione mi è cara, mi è chiara. Reduce da un ricovero che ha reso visibile e doloroso il mio corpo, ho capito che voglio insegnargli a tacere, almeno per il tempo delle nostre lettere, almeno finché non parlerà solo lui ma io non ci sarò, a sentirlo. Sai cosa mi viene in mente? Che l’idea di vuoto sia simile all’idea di vento. Non mi seduce l’assonanza “vuoto-vento”, ma proprio l’idea che la poesia, muovendo versi e frasi come vele, ci offra una lezione di vento. “Dolce e chiara è la notte e senza vento”: qui Leopardi, descrivendo l’assenza dell’aria nella notte, ci presenta un verso che, nei secoli, ha sciolto pietre e monumenti, ed è rimasto emblema di uno sguardo fluido, che buca il centro del mondo come la “ballatetta” di Guido Cavalcanti. Non sono forse le sue “penne isbigotite” ad assicurarci, nel mondo, il “luogo d’aria” che osiamo dire nostro?

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Dodicesima lettera. A. L.

Caro amico, dunque sei tornato! – accidenti, potremmo dire, nemmeno i mali hanno cambiato la frase, rimasta tal quale, dall’ultima volta – da smantellare, da ridurre da ultima a penultima, così che abbia scampo, svignandosela, lucertolina che le tenta tutte.

Ci sono cose che non si possono dire? – che, se dette, per entusiasmo, per inavvertenza, diventano sistemiche, impedendo il loro stesso assunto, ciò che più ardentemente volevano? Sai cosa ti dico? – alcune cose è meglio che le dica il linguaggio – dica pure, ma noi abbiamo da dire un’altra cosa, ulteriore. Ecco: dobbiamo essere ulteriori, visto che non possiamo essere contemporanei all’accadere.

Qui volevo arrivare: la libertà, ad esempio, intesa come liberazione, come può continuare a liberare se stessa?

No, non pensare che sono peggio del solito – ho semplicemente paura che una parola, arrivata alla fine di un percorso tormentato, diventi l’inizio di una soluzione. Eh no! – chi fa poesia non ha soluzioni! – quell’idea della poesia in quanto accadere non può diventare una poetica positiva, un’affermazione: noi subiamo quell’accadere, siamo sue creature, siamo nelle sue mani, golosi, riluttanti – noi siamo quelli della nascita, appena nati, ancora una volta, sempre. La nostra festa non è la presentazione al tempio, il giorno della befana! – epifania che tutte le feste porta via!

Siccome, io per primo, in questo nostre corrispondere, ho insistito sul concetto di accadere in poesia, mi accorgo – adesso che tu assumi quella frase come buona, sostenendomi – come quell’accadere fosse nel segno della passività, della creatura inerme che per istante è gloriosa, un evento che ti prende alle spalle, una ritorsione forse, una torsione verso lo spazio precluso, il grande pensiero della nostra nuca.

L’accadere è l’altare del sacrificio, offrire il corpo in cambio della grazia.

Per riassumere: mi onora che tu appartenga a quelli che accadono, ma, per scaramanzia, nel corso di questo rito non incruento, facciamo finta di niente, cerchiamo di lasciarci accadere, mentre il linguaggio pensava che noi volessimo soltanto continuare.

E adesso, caro amico, sono con te senza riserve. I titoli. incantevoli, della tua lettera potrebbero essere “ le lezioni dell’aria”, “il vuoto del vento”, “le terre forate”.

Alla fine la poesia è un atto positivo? – mi sembra di percepirlo, teneramente, dalla chiusa della tua lettera, quel “luogo d’aria” che osiamo dire nostro. Si può dire – sia nostro.

E il corpo? Lo sapevamo che il suo bello era l’incoscienza, con appena il barlume dello star bene, della sua gentile vanità. Adesso, invece, il nostro corpo parla. In questo consiste la malattia.

Come abbiamo desiderato che smettesse – ah non sentirlo più! Invece parla, smentendo la sua virtù di sostituirci, di essere al posto nostro, di farci ancora quell’enorme favore!

Tratteremo ancora questo tema.

Angelo

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Tredicesima lettera. M. E.

Non c’è mai l’inizio di una soluzione. Le soluzioni sono schermi, risposte: a me non piacciono, è come giocare a dama: le mosse facili e veloci non fanno per me. La libertà? Può liberare se stessa? Dannata domanda. Io credo sempre all’imminenza del liberarsi o all’essere appena liberati: lì c’è uno stato di ebbrezza, poi si torna alla palude, si fatica, si annaspa. Ti dirò la verità: non sono uno scrittore in versi, la poesia mi interessa come domanda dell’ulteriore. Scrivere versi mi appare a volte un gioco futile, che rischia di evaporare in se stesso. Amo i versi di Calogero e non le poesie lapidarie e conclusive di Montale o di Caproni, perché sembrano già pronti a non venir più ricordati. Effimeri, extra-ordinari, non hanno l’autorità del monumento e l’icasticità del frammento: sono flashes impressionisti, accorati richiami, melopee che si incrociano e si sovrappongono. Nessuna poesia dovrebbe mai delinearsi con chiarezza, come nessun giorno avere l’ambizione di essere ricordato più di un altro. La vita prosegue nel suo flusso e il poeta è lì, appena vivo, a farsi scuotere dalle parole dettate: «Erano le tenebre slogate. Un punto / fermo erano fuori». Calogero nasce e muore a ogni singola poesia (il poeta voleva intitolare la sua intera opera poetica Città fantastica) e il suo canzoniere potrebbe essere composto da dieci versi, cento poesie, mille sillogi. Non è esauribile e resta impossibile: ripete se stesso all’infinito, la sua luce si affanna a moltiplicarsi in un numero inverosimile di riflessi per potersi vedere. Calogero non impone un repertorio di testi: la sua austera vocazione – il contrario di qualsiasi lussuosa ambizione – è farsi piovere addosso suoni diversi, sviluppati in un flusso di parole, e poi disporli in modo allucinato e incantato, esatto ma astratto, sensuale e disperso. Sopraffatto da una sorta di ipnosi, l’artista dimentica la poesia che sta scrivendo nel momento esatto in cui la scrive: «Un suono bisbigliato era di quiete / e, sbagliata la tua gioia, / rapida fuggì chiusa dentro un’ala / e sola». Restare appena dicibile praticando una scrittura incessante, interminata, ulteriore, è lo scopo segreto di ogni poesia, e del nostro stesso dialogo. Ti confesserò: rileggo raramente i poeti che amo, mi basta sapere che esistono. Non li voglio consumare con eccessive letture ma lasciarli sospesi nelle forme dell’aria, tesori impercettibili che troverò sempre.

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Quattordicesima lettera. A. L.

Carissimo Marco, ci sono pensieri che covano sotto la cenere, hai presente? – basta soffiarci sopra e loro si animano, poi scocca una fiamma, corta, che non è una risposta. Le cose hanno questo modo di essere lampanti. Sanno spegnersi. I concetti invece tendono a durare, ad insinuarsi negli istanti, addirittura ad uscire dall’altra parte, beffardamente, come fossero un traguardo – accidenti a loro!

Volevo tornare – brevemente, lo giuro – su quell’idea di accadere che mi ha turbato. Come si genera un cattivo pensiero? – ah come lo sapevamo, da bambini, con l’imbarazzo di andarsi a confessare! Il puro accadere è dunque un cattivo pensiero? – ne ha tutte le caratteristiche: è estraneo e ci entra nel cuore, con ciò rendendoci estranei a noi stessi – ma c’è di peggio: noi dobbiamo farci trovare, perché l’accadere è una grazia. Tutti i graziati, in qualche modo, si sono fatti trovare – con ciò dichiarando che hanno condotto una vita da spioni – gli altri sono soltanto innocenti.

Ci domandiamo pertanto: prima dell’accadere siamo esseri puri o siamo esseri in peccato? – il peccato non fu definito come mancanza? quindi guai a stare in attesa, dove il tentatore ha buon gioco – o cosa intendevano quei falsari?

D’altra parte: guai a chi dell’accadere si compiace interamente!

Nel frattempo, ieri, ho letto nel tuo blog le seguenti righe di Nanni Cagnone, in merito alla poesia: “…ch’è insuperata scomodità della logica, e congenitamente ostile.” (da: Come colui che teme e chiama). Nello stesso scritto, ch’è intitolato Chiarimento, Nanni afferma che la poesia “è ricever cosa estranea entro gli atti dello scrivere, invece di metter in versi pensieri precedenti…”

Con ciò lo scrivere poesia sembra cominciare da zero, là c’è il buco che il corpo ha lasciato nella lingua, là devi cominciare.

Quell’inizio è un vuoto – figurarsi se il maligno non ne approfitterà.

Se ciò che siamo è in sospeso, altrettanto è ciò che non siamo, per cui con cosa rompere il silenzio? Con un errore qualunque. Il resto del poema è una correzione.

Tu mi domanderai perché così esclusivamente io ami Hölderlin e Trakl, praticamente gli unici poeti ai quali penso, indegnamente, come grandi fratelli maggiori? Essi correggono con mille versi il primo verso di ogni poesia – si mettono dalla parte dell’errore, come la parte debole e senza pace che persegue la verità, mai arrivando alla sua pronuncia, come l’indiano a cavallo che segue l’uomo bianco dalla cima della collina, in uno strano film, senza avvicinarsi, senza perderlo di vista. Può succedere, a poeti di quel tipo, di ridurre il loro vocabolario, significativamente, perché le loro poesie sono grandi veglie funebri, nelle quali basta la voce a tenere compagnia.

Una straziante immagine della poesia è la foto di Lorenzo Calogero in piazza Duomo a Milano, con il cappotto, il cappello, la borsa da impiegato povero, un giorno d’inverno, ostaggio delle parole, le quali salvano soltanto chi prima si fa distruggere.

Un caro saluto. Angelo

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Quindicesima lettera. M. E.

Caro Angelo,

le parole salvano solo chi prima si fa distruggere: l’esatta realtà. Ciò che so da sempre. Camminando nelle teste altrui per quasi quarant’anni, non ho visto grandi avventure nella parola se non quella di Lorenzo. E allora qui lo cito (se lo merita sempre): «Il tuo smarrimento – il tuo esserci / nella visione con i trucchi delle falene / che attorniano il tempo scordandolo / nei luoghi della calamita e dei perduti bisbigli». Ma perché mi torna così spesso alla mente la sua voce, squillante e stridula, da ragazzo che non sarebbe invecchiato? So che era matto, non so se fosse un grande poeta. So che, giorno dopo giorno, notte dopo notte, scriveva, proprio come se esistesse solo la scrittura che accade e ti prende la mano e ti detta ciò che tu hai il dovere di dire. Questo a me basta. Poi posso guardare le singole prove, sentire se qualcosa funziona oppure no, ma cosa importa? Il suo gesto è dato una volta per sempre, ed è racchiuso in lui. In me, che fui testimone di lui pagina per pagina. Ecco il mio piccolo autoritratto: essere sentinella di un bizzarro ragazzo che mordicchia la penna e scrive incessantemente su un foglio protocollo. Perché avrebbe dovuto fermarsi? Aveva già scelto la morte, quindi il suo limite se lo era già imposto. Il resto della vita doveva bruciarlo da poeta. Niente ha più senso di questo: né amicizia né sesso né vita, solo la poesia. Le grand jeu. Rallentando l’attimo finale e comune della dispersione, attraverso le molteplici finzioni e le estenuanti navigazioni, la scrittura diventa oggetto esatto e tangibile, attimo fulmineo in cui accade il libro sognato; ma, appena un attimo dopo, il testo non è più boa, àncora, approdo, ma ancora una volta onda di un gorgo. Come un pianista che suoni nel buio con le dita, semicurvo sulla tastiera, il poeta non si addormenta ma continua a muovere braccia, dita, spalle, con spossante fatica, tenendo fermo il filo della melodia, cercando di essere reale all’interno della surrealtà ininterrotta che è l’esperienza del suo vivere umano e poetico. Per ogni scrittore è indispensabile raggiungere il proprio naufragio, e trattenerlo. Ogni poeta fa naufragio, ma in modo diverso: per lui è indispensabile trovare le coordinate del proprio, definirne latitudine e longitudine, in modo da avvicinarsi con prudenza e audacia, da osservatore-testimone, al maellströmamato e temuto senza rimanerne totalmente travolto. L’arte non è pulsione magmatica, immediatezza espressiva. Louis-Ferdinand Céline, con il suo argot scritto, simulava una falsa “spontaneità” del linguaggio: ma quel “parlato” è una sofisticata architettura sintattica che vuole darci l’illusione del parlato. L’artista è ‘fingitore’ di illusioni persuasive come teoremi. Ogni scrittura poetica è un trattato di ingegneria dove parole e ritmi, pur derivando da stati di confusione o di estasi, sono calibrati fino allo spasimo della consapevolezza. C’è, sempre, la meraviglia per quanto non è dicibile, l’esperienza dell’impensato, la stregoneria del non-detto, non come acrobazia decorativa ma come le tracce di un sogno. La poesia, Angelo, è porosa, lacunosa, esitante, e attraverso cortocircuiti di parole impacciate e ferite raggiunge la sua intima natura – il silenzio come resistenza al linguaggio, il silenzio come imminenza di parola.

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Sedicesima lettera. A. L.

Marco, io non voglio fare il poeta. Io lo devo fare – se non lo faccio, morirei? – come già scritto da Rilke al giovane poeta?

Io ho un amore fraterno per Lorenzo Calogero. Ma io non posso chiudere la frase, tanto meno con me stesso, perché la seconda parte non mi appartiene. Io voglio tornare nel mio corpo, nell’opacità splendente dell’essere luogo. Voglio conservare quello spazio, foss’anche un recinto, per l’ospitalità – io che mi ospito, che ospito gli altri, te.

Noi siamo il buio della poesia. Dobbiamo assolutamente preservare quel buio, il tempo del sonno, fiduciosi, lasciandoci attivamente dormire. Noi, infine, siamo giocatori. La partita non finisce, ma s’interrompe – le sue regole non ci devono perseguitare.

La poesia appartiene alla ferita del linguaggio, al male con il quale ci ha infettato, per cui tutto è recupero della salute, anticorpo. Ecco, come negli ospedali, il male è trattato ordinatamente, con protocolli che corrispondono ai riti degli sciamani – le infermiere siano maghe, fate, sorelle. Ah il grande sonetto!

Per i poeti infortunati c’è sempre a disposizione l’ospedale della filosofia – lo dice Hölderlin. Poi la morte allarga la sua macchia nera e la nostra insurrezione si placa. A quel punto la poesia mostra il suo vero volto, la salma che era stata turbata dagli istanti.

Un abbraccio vivente. Angelo

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NOTTARIO–TRANSITO. Silvia Patrizio

Lettera a Marco Ercolani intorno a Nottario

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?». Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? Friedrich Nietzsche, La gaia scienza

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Per Nietzsche questo suggello è il peso più grande…

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Ritrovo come sfondo delle tue riflessioni, in Nottario, lo stesso pesare del tempo che ora si declina nella sospensione notturna, nell’istantanea di un tempo immobile dove ‘l’aria sembra celeste’, ma se ‘ne percepisce il buio’; ora si abbandona al ‘flusso inarrestabile’ che ‘leviga’ gli attimi ‘secondo dopo secondo’.

Se è vero che ‘la fine è l’inizio: di questa letale identità la psicosi è maestra’, è anche vero che c’è consolazione nella rassicurante ripetizione dell’identico, nel gesto delicatamente consueto di ‘dormire in treno, svegliarsi alla nuova stazione, scendere, e poi riprendere tutto daccapo, con gli stessi amici, nello stesso luogo, con la stessa mèta’.

La notte, dunque, non ha necessariamente il senso della quotidiana scansione temporale – la cronologia di un momento preciso e inevitabile di ogni giornata – ma ha un valore soprattutto evocativo: si fa metafora di un guado.

La notte è possibilità di raccordo, racchiude in sé il senso del trascorrere e del transitare, segna una soglia labile e insieme l’assottigliarsi dei confini, lo svaporare del limite, anche temporale. Così, occorre leggere nel buio ‘per una più esatta percezione delle cose’, ma è proprio questa puntualità, la pragmatica esattezza di Leonardo, che si sgretola al tocco di un solo respiro, tiene a una sola fragile condizione: ‘a meno che quel respiro non trasformi l’intero paesaggio’.

È la notte, il suo denso trascolorare, a far crollare i confini, a scoprire che ‘non ha senso, la porta. Ha sensi’. Allo stesso modo la parola, che vorrebbe analizzare, isolare, definire, dividere ‘il buio in piccole tenebre’, rispondere all’esigenza di ritrovare ‘gli interminabili appunti che differenziano il silenzio’, ma non riesce, è costantemente costretta a tradirsi: ‘Il bianco non è mai solo bianco’.

Lo stesso confinare il dentro e il fuori, l’intimo e l’esteriore, fallisce, diviene un ‘fare a meno del mondo, per amarne gli echi’, come costruire ‘grotte di parole ‘proprio per ciò che non è dicibile’. Lo stesso privato costruirsi attraverso un ‘diario intimo non è parlare di sé ma del cielo che immaginiamo oltre le pareti della nostra casa’.

Ecco perché ‘non è la porta, il segreto: neppure l’acqua che scivola oltre’. Il segreto è ‘sentire che sarebbe assurdo gridare’. Se ‘il sentiero da trovare è sempre una via sommersa’, il coraggio è quello dei ‘pensieri che nascono dalla pelle’, è la forza che persiste carsica, crepuscolare, di ‘non esitare. Essere già nel nero che corrode il bianco’.

Dunque, ‘non salvarsi ma annotare’, preservare quella ‘lontananza costitutiva’ in cui consiste ‘la più profonda esperienza della poesia’.

‘Certe scritture conservano una traccia nascosta che solo la distanza mette in luce’: la scrittura, come la notte, come ogni ‘rigorosa dilapidazione’ di cui consiste ‘il lavoro poetico’, vive di accenni, indicazioni diagonali, impronte, smottamenti che aprono feritoie da cui si può solo intravedere, ma non inquadrare. ‘Il senso della scrittura’ sta tutto in ‘questo affiorare’.

L’illusione di poter ‘dare architettura al soprassalto’ rivela soltanto più chiaramente l’inafferrabilità del dato: ‘il fulmine, forse. Lo sospettiamo dal lungo taglio nel vetro’.

Dunque il poeta, come un inedito Sherlock Holmes, ‘si accanisce, contro ogni prova di realtà, a inventare orme’ ‘nonostante il delitto’, gioca con ‘le cose’ che ‘sono fulmini, poi tornano cose’, ma soltanto per confermare l’evidenza di una realtà ineluttabilmente sottratta alla presa. La notte ribadisce, nel suo ritmo muto che è una ‘voce a cui non sei ancora preparato’, la più insostenibile verità: ‘ogni parola ha il diritto di de-creare il mondo’.

Eppure, le tracce restano… Le tracce sono la tenacia della realtà che, pur non essendo forte, resiste con la stessa sorprendente flessibilità dei corpi: ‘gli ultimi corpi sono stati portati via, ma la corteccia dei tronchi è sempre crivellata dagli spari’.

La notte, quel ‘nulla non puro ma tramato di maschere’, viene a significare, allora, rifugio e protezione, incarna il luogo dove ‘l’invisibilità è una forma di potere che è necessario custodire, quando gli altri incombono’. Gli altri e le cose, che ‘quando le amiamo, sono ferite aperte’. Non si può che entrare ‘in questo regno a mani nude. Non si tracciano segni. Non si conservano parole. Qui bisogna essere come si è. Umani ma irriconoscibili, svincolati dalla vita con il disincanto necessario’.

La notte è parola e il suo contraltare: ‘il foglio sa tacere le parole che contiene’. Se la voce è il proprio personale ‘demone accanto’, occorre ‘scrivendo, rimanere senza parole’, ‘sospendere ogni autorità nella libera estasi della frase’, ‘percorrere ciò che tace con parole pronte a svanire’.

Come conciliare tutto questo? Come orientarsi nella labilità di questi cedimenti? Esiste una cura? Se è vero che ‘l’arte salva l’artista e lo rende folle. È una linea chiara nel caos’, l’uomo conserva la possibilità di ‘usare la sua ferita come radice di fantasie’? ‘Si potrà imparare a essere positivamente folli?’.

‘Ogni follia è un privato schema di verità a cui non si possono opporre alternative’: nemmeno la ricerca di una ‘forma plastica’, ‘un ordine esatto, una misura, una diagnosi’. ‘Nel momento della patologia o domina un rituale ossessivo che irrigidisce o un’idea delirante che ne frantuma i confini’.

Dunque non rimane che rovesciarsi a terra digrignando i denti e maledicendo il demone?

‘Un tempo volevo, con lo strumento della lingua, sperimentare le macerie del mondo. Poi capii che non aveva senso aggiungere violenza a violenza, che smembrare il tessuto fonetico per definire lo scempio di un corpo non era scandalo ma illustrazione’.

Lo spiraglio, l’anello che non tiene, la sospensione che verifica l’impermanenza nella stabilità dell’accettazione, è scoprire che le lacrime hanno il potere di rendere ‘vero il volto’. E che guarire ‘è trasformare le anonime cicatrici dell’assenza in tracce dolenti di una mancanza’

Ecco che dunque, ‘nell’imminenza della morte’, è possibile ‘riflettere a quale disegno abbiamo tracciato negli anni passati, tra noi e noi stessi, fra noi e gli altri, vivendo’. Scrivere diventa ‘la nostra forma di congedo, niente di più. Un modo per essere sospesi tra morte e vita, in modo che né l’una né l’altra esistano’.

‘Se ci invade la possibilità di essere noi stessi, restiamo comunque prudenti’, spiando il mondo nell’atteggiamento folle di chi resta fermo ‘sull’orlo dell’abisso a contare matite’.

Con affetto,

Silvia

EPSON MFP image

Silvia Patrizio

LO SPLENDORE DEL NERO. Ettore Frani

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Rivolta, (2019), olio su tavola laccata

L’ombra e la grazia (trittico, 2017-2020), olio sui tavola laccata

Il dono, (2019), olio su tavola laccata

Attrazione celeste (2017-2021), olio su tavola laccata

Nella notte, terra nera (dittico, 2020), olio su tavola laccata

Lo splendore del nero, (2020), olio su tavola laccata

I desideranti, (2020), olio su tavola laccatai

I desideranti (2022), olio su tavola laccata

Luminosa (2021), olio su tavola laccata

Verso la gioia (polittico, 2013-2021), olio su tavola laccata

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La pittura come preghiera. Una testimonianza

Prima di essere una cosa mentale, un modo di organizzare la forma, di con-figurarla, la pittura è stata per me un percorso di trasformazione, di presa di coscienza, che ha posto e pone al suo centro la questione della responsabilità e, prima ancora, il sentimento che si prova dinanzi al mistero insondabile della vita.

È un pensiero poetico, del cuore soprattutto, quello della pittura, che permea di sé tutta la vita: il rapporto che si ha con il mondo e con gli altri, con la morte e con il senso ultimo delle cose.

La pittura è da sempre legata al mistero dell’esistenza, allo stupore ontologico e, come l’arte in generale, diventa concreta testimonianza dell’essere al mondo: un modo di interpretarlo e tradurlo.

Essa si accosta al segreto delle cose – così come a quello dell’esistenza in quanto tale – e il pittore, a mio avviso, è chiamato ad abitare e custodire questo mistero, non solo per sé ma anche per gli altri.

La mia pratica pittorica, intima e mai del tutto rappacificata, non vuole essere mera rappresentazione o frutto di un saper fare tecnico, ma si alimenta e cresce accanto a quella che è la sorgente originaria che nutre tutto il mio percorso umano, ovvero il sentimento religioso che sento per la vita, nel suo manifestarsi, anche attraverso l’opera pittorica.

Insomma non siamo di fronte ad un oggetto puramente estetico, bensì ad una cosa che quando diviene vera arte giunge, come magistralmente ci dice Andrej Tarkovskij, ad agire sull’anima dell’uomo, formando la sua struttura spirituale, a risuonare con la parte più intima di noi stessi essendo tutt’uno con il mistero della nostra profonda identità.

Posso dunque, in sintesi e senza esitazione alcuna, nominare e avvicinare questo mio esercizio, questa disciplina, ad una forma particolare di preghiera. Laica, certo, silenziosa e corporea, che si accosta all’immanente, alle cose del quotidiano, con atteggiamento apofatico e contemplativo, senza mai essere fuga dalla realtà o formale gioco estetico e disimpegnato.

Un atteggiamento, quello del pittore, che si approssima attraverso il suo particolare sguardo al volto mistico del mondo, divenuto così, nella sua interezza, ierofania.

Ebbene, la pittura, tramite il visibile, è allora in grado di accostarsi all’infigurabile e far emergere l’indecifrabile, per invitarci ad un’ulteriore sguardo. Perché è porta socchiusa sul mistero, da sempre aperta e nella possibilità di fare emergere quella ferita, che è appunto apertura verso l’alterità irriducibile del trascendente, verso quella spiritualità da sempre compenetrata e coalescente alla nostra materialità.

Come posso allora suggerire questa mescolanza nel visibile, di materiale e spirituale? Quale entità rende il sensibile trasparente e apre e illumina questa ferita, questo essere sempre aperto all’oltre? Nella mia esperienza pittorica questa modalità rivelatrice è affidata certamente alla luce.

È tramite la rappresentazione della luce che sulla tavola dipinta tento di evocare la presenza di un interregno, una soglia di confine socchiusa tra immanente e trascendente, dove è proprio la materia-colore stessa ad essere mediatrice tra queste.

La luce consacra così il reale, spiritualizza la materia e al contempo offre la possibilità di materializzare lo spirituale, trasfigurando pertanto la realtà visibile. (E.F.)

(estratto da Quale arte sacra oggi? Àncora editrice, 2023, Milano)

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Note sulla mia tecnica pittorica implicata alla poetica

Per parlare dell’organicità tra forma e contenuto, a cui aspira l’opera, devo fornire alcune informazioni sulla tecnica che, da venticinque anni, salvo eccezioni, utilizzo nella mia ricerca pittorica. Io dipingo su una superficie melaminica, bianca e impermeabile, con un solo colore ad olio: il nero d’avorio.

Attraverso velature, parziale sottrazione o asportazione del nero, ottengo tutta la gamma dei toni intermedi. E solo con l’assenza totale del pigmento posso ottenere il bianco più intenso.

La luce presente nelle opere, è pertanto, il fondo della tavola che riemerge, e che permea – da dentro – tutte le cose; volti, paesaggi, oggetti, in una minore o maggiore prevalenza di luce/fondo o materia/nero. Il colore sulla tavola si presenta senza grumi e spessori risultando quasi pulviscolare, per la sua impalpabile consistenza si mostra a volte come smaterializzato.

La costruzione del dipinto non conosce propriamente un disegno ma è più una giustapposizione di toni chiari e scuri che conferiscono il senso di un contorno.
Il nero è steso a volte per velature, altre per tamponature, quasi a divenire polvere sedimentata sulla tavola. Il risultato finale, è una velatura ridotta ad uno spessore sottilissimo che, in alcuni dipinti, raggiunge quasi l’inesistenza.

La superficie dell’opera si attesta pertanto come qualcosa al limite della consistenza, eppure con una forte presenza data dall’illusione della rappresentazione.

Mi sembra che questa condizione di illusione e fragile presenza, sia la metafora stessa della nostra esistenza, del nostro approssimarci alla morte. L’immagine, ontologicamente, si oppone a questo apparire-mostrarsi-svanire e, con la pittura, da sempre tenta di affermarsi come una presenza contro assenza.

Un desiderio del tutto umano di afferrare e fissare ciò che non è possibile trattenere. È la pittura che celebra l’enigma stesso della visibilità.

All’interno di questa visione, con la pittura, tento di cogliere la stessa drammaticità della vita, composta di luce, tenebra e infinite sfumature intermedie, dove l’una trapassa nell’altra senza soluzione di continuità, mostrando quanto tutto sia parte di una danza di luce e ombra.

Il fondo bianco della tavola – che io provo a modellare quasi fosse una sostanza plasmabile – diviene allora luminoso solo grazie alla pittura e all’inscindibile materia del nero.

Io non miro a simulare la luce: la trovo all’interno della tavola stessa.

Di plotiniana memoria è la suggestione che proveniamo dalla luce e ad essa ritorniamo.

Questi dipinti ci suggeriscono, pertanto, che noi siamo luce, la materia stessa è luce. Tutto è luce.

Ma senza l’ombra, il nero, la notte, non sarebbe assolutamente possibile, per noi, farne esperienza. (E.F.)

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La pittura di Ettore Frani si compie attraverso pazienti e diafane stratificazioni di pigmento ed olio, che velano e rivelano una dimensione altra. Attraverso tele simulate, sudari saturi di umori, membrane velate che sottraggono alla vista, figure anadiomene e paesaggi desolati -quali luoghi interiori strappati alla pelle stessa della pittura-, l’artista tenta, sotto la cifra della perdita e della mancanza, di trascendere il visibile per tentare l’inesprimibile, di cogliere con un gesto l’indicibile di ogni rappresentazione. Nella sua opera l’assenza diviene presenza, e viceversa, quale icona dell’irriproducibile. Nell’ossessivo girare intorno al vuoto, un ‘quieto altare del nulla’, la pittura tenta e ‘fallisce’ ripetutamente. Non resta allora che la poesia di questo infinito intrattenersi sulla soglia, in attesa… Come l’artista stesso rivela, la sua pittura è ‘necessità di deserto entro il quale sia ancora possibile domandare con voce di silenzio’. [2010, Paola Feraiorni]

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Ettore Frani (1978, Termoli, CB). Vive e lavora a Lido di Ostia Roma. Nel suo percorso artistico ha esposto in numerosi spazi istituzionali e gallerie private tra cui Galleria San Fedele a Milano, Galleria d’Arte Moderna “Raccolta Lercaro” a Bologna, PAN di Napoli, Palazzo della Permanente a Milano (16° Premio Cairo), Casa Natale di Raffaello ad Urbino, MAR di Ravenna. Ha inoltre partecipato alla 54° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia ed ha vinto il Premio Artivisive San Fedele “Il segreto dello sguardo” (2009-2010). Le sue opere figurano in importanti collezioni pubbliche e private tra le quali Museo San Fedele, MAR di Ravenna, Museo Michetti, Patrimonio d’Arte Unipol, Fondazione Cassa Risparmio di Jesi, Musei Civici e Collezioni Diocesane di Camerino, Fondazione Giacomo Lercaro/Raccolta Lercaro, Fondazione Casa della Divina Bellezza e Collezione AMC Coppola.

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Ettore Frani

CENTO LETTERE SULLA POESIA. Marco Ercolani, Angelo Lumelli, 1.

(2023)

Non è strano: la poesia è senza parole. Le poche che trova, la catturano interamente, senza lasciarle nemmeno una sillaba per farsi sentire. (Angelo Lumelli)

Restare appena dicibile praticando una scrittura interminabile. (Marco Ercolani)

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CAPITOLO PRIMO. Lettere 1-7

Prima lettera. M.E.

Caro Angelo,

lo sai? Leggendo il tuo Verso Hölderlin e Trakl, quando non ti conoscevo ancora, mi colpì immediatamente questa tua definizione della poesia, inserita mentre dicevi del tacere e del parlare: «La poesia, osiamo sperare, è là, in quel posto, nelle carceri oscure d’ogni anima e – per chi ha ancora un po’ di fiato – è il jolly da giocare quando il linguaggio è sul punto di perdere la partita».

Il libro mi divenne ancora più prezioso, per quella frase, e nel maggio del 2021 volli ricambiare la gioia di quella lettura con il mio Pallaksch. Ho esagerato? Direi di no: eri il solo a poterlo leggere senza travisare nessuna parola. Pubblicai il libro (si chiamava Discorso contro la morte) nel 2008 (era composto di dodici racconti), ma ottenni solo lodi generiche o silenzi sconcertati. Da te seppi che avevo centrato il bersaglio. Pallaksch era reale, come può esserlo un sogno vero. “Dio ha stabilito il sonno, disgustato dall’orrore della veglia”. “Mentire è una nota leggera, un accento acuto nel mio presente, che non sopporta i gravi e tragici accenti del passato, che non tollera i circonflessi e instabili accenti del futuro”. Vedi? Siamo da capo. Un burattino per tutti, il mio Holder. Un bel facitore di paesaggi lirici. La sua natura è schematica. Batte il ritmo tutto il giorno. I suoi inni, le impervie vette da cui è caduto, non esistono più. Non ha retto, l’educatore. Chi poteva educare? Se stesso ad amare di meno, a vedere di meno? Può farlo, un poeta, “nelle carceri oscure dell’anima”? Però, vedi, leggendo il tuo Verso Hölderlin e Trakl, respiravo una gaiezza felice e sibillina, quella gaiezza che sola permette di aprire la finestra sul tragico. Come dicevi? «Con tutto ciò avevo inteso sostenere l’anticipazione novecentesca di Hölderlin, premonitore di una poesia che molto riflette su di sé che si purifica fino a una trasparenza di gemma, poeta che spinge la poesia del proprio tempo verso confini che ci sfiorano e che, potentemente, sono nel territorio del nostro dire». E io cosa scrivevo? «Si deve sentire, fra i mortali, il sublime. Ma come?». Su questo “come” sei entrato tu.

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Seconda lettera. A.L.

Caro Marco,

Lo sospettavo: Hölderlin ricomincia da capo. Intendo che ci fa ricominciare, come se la conclusione fosse una porta che si apre, non quella che si chiude. Ah il tuo Pallaksch! Tutto sembra confinato, almeno in frasi ragionevoli, profonde ma non sprofondate, invece no!

Te ne dico una (che gli fai dire tu, a Hölderlin): “I limiti della lingua sono l’ombra dell’illimitato”. (pag.19) Cosa vuoi farci! – hai provato e sei arrivato non alla fine, ma alla svolta (die Wende).

A ciò servono gli apocrifi, non alle spalle dell’autentico, ma del canonico, come fai osservare nelle “Note di lettura” al “ Discorso contro la morte”.

Tutte le entrare originali sono entrate sul retro, come nei ristoranti, dove s’impilano le case dell’acqua minerale.

Vuoi una lode aggiuntiva? Ciò che fai dire ad Hölderlin, lo fai dire, con una variante d’ingegno, anche a Caspar David Friedrich, il pittore: ”L’arte è la forma di ciò che la esclude…” (pag. 48)

Scusa se le mie lodi sono magre, ma esse si riconoscono da come si mettono al lavoro, come si rimboccano le maniche. Tu hai sparso lungo le pagine di questi taccuini segreti di Hölderlin alcuni titoli di esercizi, ossessivi, che adesso non posso più evitare.

Testardamente, eccoli:

1: Custodisco il vaso.

2: (Poros) colui che dorme nel sonno.

3: La distrazione è tutto.

4: Come sempre, quando non si vuole soffrire, si diventa kantiani.

5: C’è un mezzo per liberarsi dal proprio stile?

Tutti questi titoli sono coinvolti, a mio modo di vedere, nella comprensione del primo verso della poesia Die Aussicht che tu, bellissima mossa, riporti integralmente. Ah quella non è apocrifa! Soprattutto essa mette a tacere ogni teoria attraverso l’atto del tornare, del tornare sul posto intendo, come il figliol prodigo, un presente che, invece di spiegare, contiene le domande (ah come le conosce la mia nuca!).

“Custodisco il vaso” avrà anche questo senso?

Noi ci siamo visti a Genova nel mese di Maggio del 2021. Era la seconda volta che c’incontravamo – la prima era lontana decenni. Non avevamo mai parlato di Hölderlin. Io cercavo un complice. Non so spiegarmi perchè io abbia questo ritorni tardive di adolescenza. Quando ti ho sottoposto la mia traduzione di quella poesia (Die Aussicht), ricordo che non volevo dichiarare – come faccio di solito, per quieto vivere, pur a quei pochi – che non si trattava di una traduzione, quanto di una confidenza, di una presunzione d’intimità, timorosa, seppur festiva.

Sono talmente convinto che Hölderlin sia un poeta del Novecento, d’avere, consapevolmente, corso i pericoli d’incappare nell’inquisizione germanistica – timore rivelatosi vano, perchè nessuno ci ha fatto caso. Hai presente taluni corpi celesti, invisibili a causa della distanza o di altri motivi, che manifestano la loro esistenza attraverso gli effetti, gravitazionali o altri ancora, molto specialistici, sui corpi visibili del firmamento?

Noi medesimi siamo parte di questi casi – ma ancor più il fenomeno è riscontrabile in poesia, allorché il linguaggio ha un sussulto, un brivido strano, senza nessuno che dica io. Non ti è mai capitato di partecipare a una veglia funebre? – quelle fatte in casa, nei paesi? – ebbene c’era un parlottare continuo, un brusio, un raccontare d’altro, per cui, silenziosamente, la salma diventava, piano piano, nel corso della sera, della notte – in quelmodo taciuta – un inno alla mancanza, un monumento.

Ora, ciò che fai dire ad Hölderlin nel tuo Pallaksch – perdona l’azzardo – mi sembra risponda a quanto è “incorporato” (oh corporis mysterium) nel primo verso di quella poesia così regolare, misurata e sconvolgente.

I cinque temi che ho messo in evidenza – siano essi il nostro compito in classe – appartengono a quella categoria di enigmi che scatenano qualsiasi altra soluzione, ma non la loro. Succede anche a te che un’incognita si risolva senza soluzioni, sospendendosi, arretrata nel remoto firmamento, mentre in primo piano fanno festa uguaglianze e somiglianze? Succede, ma fai ballare l’occhio – dicono da queste parti.

Basta con le divagazioni – vorrei tornare a Pallaksch e a Die Aussicht.

Due sono, in quel verso, le parole chiave: in die Ferne e wohnend Leben. Di queste due parole chiave, una (wohnend) è, per così dire, la chiave del caveau, dove è nascosto ciò che è decisivo.

Cosa è decisivo in wohnend? Io direi: essere qui |da-sein – stare, il quale comporta: restare/rimanere, parole di portata immensa.

Una questione si pone: o wohnend non lo traduci (per es. Luigi Reitani) o lo traduci, forse legittimamente, con (vita)usata nel senso di abituale, solita ecc… (come Enzo Mandruzzato, che tu utilizzi).

Mi sembra di poter dire che wohnen, in Hölderlin, si contrapponga non soltanto al divenire (che strappa dai luoghi), ma all’onnipresenza (senza luogo, al di sopra del luogo) dei Celesti.

Il luogo è tentato sia dall’eresia che dall’amore. Il vivente è luogo – non un millimetro più in là.

Il “tuo” Hölderlin mi sembra perfettamente in linea con l’immensa “malizia” di quel primo verso, che sottolinea, in modo fulmineo, la “localizzazione” del vivere e la sua “lontananza intrinseca”.

Ancora un’osservazione: wohnen è una parola che Hölderlin usa per indicare la vita nel limite, una vita all’oscuro, un rifugio dalla luce, un interno. In questo senso wohnen (abitare) chiama bleiben (rimanere).

Der Vater aber decket mit heiliger Nacht, | Damit wir bleiben mögen, die Augen zu. (Dichterberuf)

Ma il Padre con la sacra notte | copra i nostri occhi, affinché ci sia dato rimanere. (Vocazione del poeta)

Rimanere è anche “disdire” il compito impossibile, la dismisura e il disumano.

Hoch auf strebte mein Geist, aber Liebe zog |Schön ihn nieder, das Leid beugt ihn gewaltiger; | So durchlauf ich des Lebens | Bogen und kehre, woher ich kam (Lebenslauf, 1798)

Spiccò il salto il mio spirito, ma il bell’amore | Lo chiamò, poi lo piegò l’onnipotente dolore;| Così salgo e scendo sull’arco della vita | per tornare da dove son partito. (Corso della vita)

Ecco finalmente il verso che tanto mi attira e mi angustia:

Wenn in die Ferne geht der Menschen wohnend Leben, | Wo in die Ferne sich erglänzt die Zeit der Reben, …

Abita degli uomini la vita ed è lontana | lontano splende tempo di vendemmia, …

Non è una traduzione, è una malattia.

Ma non è anche il vaso custodito, del quale parli tu? – un vaso che non esplica, ma conserva? – parole che non vengono risolte perché il loro compito era di chiamare, insistentemente? Questa poesia ha imparato ad abitare (wohnen)? Ha imparato il proprio sonno? Ha imparato a dire una cosa per volta come la più grande distrazione? Ha dunque imparato a liberarsi dal proprio stile usandolo spudoratamente? Non ha nemmeno più bisogno di essere kantiana?

Perdona se, puntigliosamente, sembro farti rispondere da Lui, Hölderlin, attraverso una poesia disarmata, diligente, umile e caritatevole – ma a ciò può arrivare la poesia, alla più astuta infanzia, all’innocenza che esige, già da pargoli, quell’incomprensibile batticuore, il di più di noi, che sta sempre per arrivare.

Angelo

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Terza lettera. M.E.

Caro Angelo,

esiste un’esperienza spirituale di cui la schizofrenia si impadronisce: il crollo estatico della mente. Quando, ormai, tutto è detto, prorompe il non dicibile, e tutto tace. Che dire ancora? Hölderlin si ferma qui. Crolla sotto il peso dei suoi inni e la lingua torna classica quartina, idillio non beffardo. Ci si rassegna. Ad avere valore era l’imminenza precedente, ma portarne il peso è terribile. Tessono e disfano, i poeti, rapsodi inebriati dal pensiero laterale. L’esistenza demonica e irrefrenabile, il varcare se stessi, sopraffatti dal terrore e o inebriati nell’estasi, non è psicosi. Ma ci corre vicino, come sull’orlo della fiamma. Accade come se il demonico, represso o sedato, nelle malattie riuscisse a scaturire, a trovarsi un luogo d’elezione, un varco. Ma qui torno al mio pensiero dominante. Non di malattia parlo, di quella che impoverisce l’io nei sintomi, ma di una giungla informe e disordinata, dove l’anima, abbandonata a un brivido metafisico, mostra la propria profondità disordinata, la tenta il crollo, il cadere svuotata, l’informe del caos. Ma resiste. Come se, in un’altra storia, Hölderlin non fosse impazzito ma avesse continuato a scrivere inni, sull’orlo del precipizio, sempre più folli, loro, non lui, che magari si barcamenava fra un discepolo da istruire e una lezione di metafisica ma sano. La scrittura è specchio e luce, sempre, anche se tutto ruota, mai notte informe. Il silenzio, nel disordine della mente, è l’atroce pericolo. Ma, perdona se mi azzardo, la poesia cambia… cosa cambia?

Marco

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Quarta lettera. A.L.

Caro Marco, magari non intendevi farmi un regalo, invece eccolo – a confortare la mia diffidenza verso la poesia, a raffinare ancor più il mio amore distillato, goccia a goccia – dunque tu dici che negli inni si vede la follia evitata per un pelo? la fronte che sanguina? – e che questo è il grande messaggio – uomini, fratelli! – ecco che il giro di boa (die Wende) è vicino, che la frase si volta verso di noi, ci investe – e noi accoglieremo questa morte fittizia, rilanceremo strofa su strofa, ghirlande di fiori, nella nostra sacra, perversa congiura?

Invece bastava lasciare che il linguaggio rotolasse come biglie di vetro dei bambini, che la poesia fosse la grande dormiente, voce del mormorare, a bocca chiusa – finalmente poesia accettata senza fiatare, eseguita, con trucchi da vecchio mago.

Dunque del vestito si possono amare le fodere? la loro setosa lucentezza, il loro scivolare impalpabile? – cosa avviene nel retro delle palpebre? Ciò per dire che la poesia, con la promessa di farci diventare pura voce, separa noi dalla nostra voce carnale, impigliata nelle corde vocali, renitente, voce da vecchi fumatori, nel caso – lasciati a terra, a vivere? Di ciò si tratta – dell’indifferenza del vivere che solca, impudente, il gran mare dei pensieri, che forse non li tollera, non li ha mai tollerati.

Da qui nasce forse il mio amore per il verbo essere, la paura che m’incute, lo sgomento – da cui il fascino stregato di quell Seyn, del quale Hölderlin ha parlato, del quale io ho voglia di parlarti.

Hai presente il dogma dell’eucaristia? É un caso sconcertante dei poteri del verbo essere, manutengolo di un potere occulto, Hai presente cosa fa il verbo essere quando è applicato tra due termini che nemmeno se lo sognavano? – quando questi termini vengono indotti a una identità che li lascia interdetti – non solo attoniti come vorrebbe il significato popolare, sbalorditi, esterrefatti, rintronati – ma giuridicamente impediti ad essere se stessi, interdetti per divieto esplicito, dovendo essere ben altro, per dogma? Perché – penso mi dirai tra poco – tiro in ballo l’eucaristia mentre stiamo parlando di poesia?

Adesso ci arrivo. Tiro in ballo l’eucaristia perché la poesia tenta di assomigliarle – per alcune pretese, alcuni colpi di mano, primo fra tutti quel suo tentare vari tipi di estasi, o di eclissi – come sottraendosi al linguaggio, al suo impero, alla sua diplomazia o indolenza, al suo rimediare – quello che l’aveva portata in spalla – come una bambina timida, quello che l’ha trasferita sull’altra riva, come San Cristoforo.

Il linguaggio che diventa essere? L’essere che diventa gioia o soddisfazione, tema in classe, oltre che dovere, compito e così via? – eh diamine! Sulla follia del verbo essere si sono cimentati in molti.

Alla fine, i più ragionevoli, costretti a fare i salti mortali, hanno attribuito, per esempio, a est il valore di significat, come il buon Huldreich Zwingli nel XV secolo, ma anche Sant’Ambrogio, con saggezza, tanti secoli prima, per cui: hoc est corpus meum avrebbe il valore di hoc significat corpus meum – vale a dire: non scalmanatevi, miei fedeli, non fatemi dire una cosa per un’altra – non fatemi fare di queste figure!

Non oserei parlare del verbo essere e delle sue tremende meraviglie se non fosse che Hölderlin l’ha messo in una sceneggiatura, invece di farne un trattato. Mi riferisco a quella paginetta intitolata Urtheil und Seyn|Giudizio ed essere, nella quale entra in scena il giudizio (Urtheil) che trasforma, dividendolo, il soggetto ICH in oggetto – tu perdona se mi viene in mente JHS, segno dell’ostia, della vittima (Hostia) – perdonami se uso i concetti come un lecca lecca.

Adesso, però, entra in scena Seyn|essere. il quale non sopporta nessuna divisione (Trennung), nè poca nè tanta – fungendo, da una parte, e all’apparenza, come conciliatore, mentre dall’altra non intende immischiarsi con il pensiero, i suoi sotterfugi, esercitando una funzione dittatoriale ed indifferente.

Seyn, in realtà, è colui che porta alla morte, la quale è interamente. La poesia, in combutta con Urtheil|giudizio, creatore di nascondigli, guarda a Seyn come al più temibile amore, quello che, se si voltasse, la ridurrebbe in cenere. La poesia è dunque una proroga, oltre il giudizio, dell’incontro con Seyn? Si nasconde, essa, dallo sguardo che distrugge le ombre? Si refugia nell’ombra per nascosto amore di quello sguardo, cercando il coraggio di farsi incenerire?

Per dirla tra di noi, per farla corta, Seyn è il vivente, l’irrimediabile – per cui c’è poco da gongolare, ben poco da fregarsi le mani – mica tanto da frohlocken, pietisticamente – a fronte della dittatura dell’esistere, della sua inclemenza.

Era il lontano 1795, ma è appena ieri, oggi.

Se la poesia ha fatto progressi? – si nasconde ancora da Seyn, il suo amore? La piena affermazione avviene una volta sola ed è l’ultima – guai essere presi in parola. É ancora così? La poesia, infine, può essere soltanto mediocre? Intendo, forse, che la poesia è l’attesa del linguaggio?

Quando il linguaggio arriva, potremmo dire che l’attesa è rovinata? – che un sopruso è stato consumato? – che il fedele è diventato un praticante? – all ’erta, all’erta!

Cosa fa il fedele che riceve l’eucaristia? Oltre ad allungare, pudicamente, la lingua – egli, ella, loro, i fedeli – evitano di pensare, se ne guardano, ma chiudono, generalmente, gli occhi, si abbuiano la mente, in modo da predisporsi, a quel colpo d’essere, al suo assalto, dolcissimo, che lascia uno svenimento interiore, come fosse questa la prova del nove – sofistica o cosa vogliamo pretendere?

Dunque la poesia è mormorare, a bocca chiusa?

Mi accadde, talvolta, di pensare a mia madre, una contadina, che mi dice: perchè non mi vuoi leggere le poesie? Nel più grande imbarazzo, le leggo una parola per volta, distanziate, come se fossero le ostie della comunione, mascherando l’insieme. Evito le metafore del genitivo, scelgo solo parole primarie, pulite.

Tu puoi intenderla come una dichiarazione di poetica? – ti prego! Come se la poesia fosse la femmina del pensiero – proprio femmina, carnale! – come se Seyn fosse disponibile a parlarle, tenendole una mano sulla testa.

C’è sempre da imparare dal trucco delle vere signore! – quante mosse tremende, magnifiche.

Comunque: chi manda avanti il linguaggio come uno scudo è uno stronzo! Se si tratta di togliere lo scudo? Non si tratta di fare gli spacconi in battaglia: in poesia ci sono soltanto scudi finti, figuriamoci.

Tutto lo sforzo per dire niente.

Per mantenere il linguaggio in posizione.

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Quinta lettera. M.E.

Il linguaggio in posizione? Dentro la luce violenta? Sotto quale ombra? Ricordi le parole di Nanni? «Quale sarà, allora, la condizione di un poeta che non onori il criterio della verosimiglianza, ma agisca in una grave penombra della mente? C’è un fenomeno adatto a descriverla: l’esperienza chiaroscurale di quelle figure che si vedono nel dormiveglia, nel caleidoscopio notturno proiettato sullo schermo interno delle palpebre…Questo sono, quelle figure: sogni incompleti. Sogni di chi sa di sognare. Sogni della presenza, dell’intensità della presenza. Somigliano alla poesia: anche il poeta in qualche modo giace, e la sua condizione è la stessa dello spettatore – una condizione concava. E un giovane poeta dovrà innanzitutto imparare a divenire accogliente, capace di lasciarsi prendere da figure e di prenderle poi dentro di sé, udirne la possibile voce. Capace di aspettare che il suono possibile si faccia fatale…Il poeta confida d’incontrare parole che possano riprendere in sé il segreto, l’impronunciabile mistero di quello che appare».

No, Angelo, non ho domande precise. Siamo arrivati qui a tastoni, e a tastoni parliamo. Riflettevo su come un amico definisce la poesia: “Enigma con ritmo”. (Anche tu dipani l’enigma ritmico ma lo usi come divagazione del pensiero, che oscilla esistendo, timore e tremore…). È finzione, certo, ma gli scudi finti non diminuiscono l’intensità della battaglia. Lo so bene da quando indago la psiche, cioè da sempre: nessuno muore, così sembra, ma la battaglia non è meno aspra. E le finzioni sono ventagli da cui volteggiare. Scrive Paul Valery: «Succedeva che Mallarmé, il meno primitivo dei poeti, tramite l’accostamento quasi ipnotico delle parole, lo splendore musicale dei versi e la loro singolare pienezza, richiamasse alla mente quello che doveva essere l’elemento più potente della poesia delle origini: la formula magica». Ci sono formule magiche per la poesia? Verrebbe da rispondere di no, ma forse, invece, la risposta è sì. Chi scrive poesia si mette fuori dal mondo riconosciuto: abita un altro regno, quello del proprio (magico?) stupore. La magia di cercare la parola poetica come lingua altra, nido contro il current langage, scudo magico per proteggersi da minacce estranee ma anche casa calda in cui accogliere chi è diverso da te. Nel suo essere nido e scudo abita la possibilità di un “altrove della parola” che sospende i codici esistenti fino ad ora. Il fatto di costruire insieme un dialogo non ha nulla di architettonico, in sé: è il piacere di scoprire rifrazioni e differenze, non solo nell’oggetto poetico ma nel terreno accadere delle cose….

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Sesta lettera. A.L.

Caro Marco, c’è un disappunto nella tua lettera? – non ti va l’idea di mantenere la poesia in posizione? Effettivamente, se dovessi spiegare ciò che intendo, potrei trovarmi in difficoltà – ma ci sono bassezze peggiori, devo dire. Forse, principalmente, intendevo che mantenersi in posizione significa fare l’indiano, come nei film, quando uno appoggia l’orecchio e ascolta la terra, per sentire se arrivano i bisonti, il treno.

A questo proposito ho scoperto, pur non essendo professionalmente un mistico nè un entusiasta, che abbracciando un albero si sente il vento, anche leggero, che amplifica il proprio suono, che da aria fluente diventa risonanza, nello stretto delle fibre – ma bisogna stare abbracciati per sentire queste corde sonore – se sciogli l’abbraccio, se allontani l’orecchio, ogni incantesimo è finito. Ma noi non possiamo stare abbracciati al nostro albero. La poesia, forse, si misura sulla quantità di dolore o di entusiasmo che ci vuole per sciogliersi da quell’abbraccio – a molte complicazioni andiamo incontro sia a causa di quell’abbandono sia per il ritardo con cui è avvenuto.

Alla fine la poesia torna sul posto – come si dice, nei romanza gialli, dell’assassino.

L’esaltazione del linguaggio è riconoscibile, in poesia, non tanto nell’andamento trionfante, quanto nel perenne ridursi a zero, per cui i viventi appaiono come continui esseri di ritorno. Infine, per posizione di poesia intendevo questa attitudine ad abitare il luogo, seppur parola, a stare nel suo incavo, per diventare un contenuto, la nostra offerta, l’unica.

La poesia come luogo, abitabile, a lungo – patria, rifugio, capanna del grande gioco, non tanto nel senso di Heidegger quanto nel senso del bambino, a meno che non intendano la stessa cosa, mi ha sempre reso felice e colpevole.

Ecco, abitare|wohnen è la grande parola della quale abbiamo già parlato, con Hölderlin – soltanto che è proibito, che non ci concesso quell rifugio se non come disubbidienza o illegalità.

Dopo i ritrovati della negazione, dopo l’incredulità di fronte al male, non c’è luogo se non di corsa, spazio invece di casa.

A questo punto, stare in posizione significa stare vuoti ad aspettare, significa aprire il cuore. La poesia è dunque la posizione che occupa, la direzione verso la quale guarda – preservando un’aspirazione, perché essa è sempre futura. La posizione vuota (come “la mente che per scaldarsi saltella” – giuro che non citerò mai più un mio verso) significa anche l’attesa del sacro accadere, disturbato o distrutto dalla banda di ottoni dei valori. Essere dentro al linguaggio, tanto da non vederlo più – non era questo il compito della modernità? – entrare nel suo buio, dimenticando l’uscita – esercizio quasi santo, suprema indifferenza, fino a vederne la gioia, solida, senza eccitazione, come l’amore immobile nella sua perfezione stregata.

Deve esserci un patto tra poesia e linguaggio: si sono accordati per una morte d’amore, per la grande eutanasia?

Tu, Marco, hai citato Nanni Cagnone – Nanni dice sempre ciò che io penso e ciò genera il mio stupore, la mia ammirazione – lo dice anche con l’immagine dello “schermo interno delle palpebre…” Pensare che l’interno della palpebra era il telo da cinema su cui il bambino Matteo (personaggio dell’omonimo romanzo senza fine – e lì dai!) proiettava, ogni sera, prima di dormire, il mondo conosciuto.

Ma la poesia, sonno impuro, deve aprire le palpebre, deve sbiancare, nella piena luce, il proprio schermo – le sue figure saranno, allora, “sogni incompleti”, il cui valore è dato, vorrei aggiungere, proprio dalla parte che manca, quella sbiancata dal risveglio – l’allarme che ci fa riconoscere come esseri ancora da compiere, quindi con qualche speranza – ah il wabi-sabi giapponese, che tanto vorrei praticare nel giardino e in poesia.

La poesia è difesa dalla cintura del “non dire”? – attraversare quella cintura significa perdere il linguaggio, fare finta d’averlo perso, per poter passare? Là tace, coperto da parole, il lamento del non detto, ma sappiamo che quella copertura consente la sopravvivenza del nostro agente segreto, l’angelica spia, il suggeritore. Il suggeritore è sempre alle nostre spalle, ci passa il compito in classe, ma non ci lascia voltare indietro – come se il passato fosse ancora da fare, davanti a noi, senza voltarci, compito impossibile.

Ricordi che ho parlato degli scudi? “Chi manda avanti il linguaggio come uno scudo, è uno stronzo” – l’ ho scritto io, vero? Era meglio se stavo zitto. “Dello scudo si fa bello uno dei Sai” – buona occasione per parlare della poesia come di una ritirata! E chi si fa scudo di se stesso? – irridendo l’artigianato della salvezza?

Scusa, mi sto affannando, si sente dal respiro, dalla frase – gatta ci cova!

Angelo

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Settima lettera. M.E.

Nessun disappunto. Forse un nuovo appunto, ai margini. L’angelica spia? Chissà. Io odoro le cose normali e vedo cosa c’è, fiuto in giro. “E, con questa combinazione Velabus, lei passerà sette giorni magnifici a Rovigno, Zagabria, Dubrovnik, Laghi di Pltvice, le perle dei Balcani, dal 15 al 22 settembre. Imperdibile, cosa dice? Soltanto 890 euro a testa”. Seguo le parole del tour operator. Garantisco l’anticipo. Ora posso non partire, conoscendo a memoria tutto l’itinerario. Se penso alla fatica degli spostamenti, al sudore dei futuri compagni di bus, agli odori esagerati delle ascelle, alle chiacchiere insignificanti delle bocche, mi eviterei volentieri tutto con un magnifico sorriso di sollievo. Ma per ora firmo il modulo, prometto, sorrido. Sarebbe stupefacente se, all’ultimo momento, aderissi al viaggio e tutto accadesse come è previsto che accada. La meraviglia della prevedibilità è in agguato. Come se improvvisamente leggessi Finnegan’s Wake e ogni pagina fosse leggibile come una partitura di Bach. Tutto è straordinario e può accadere. Anche Beckett potrebbe diventare uno strepitoso fumetto, con Stanlio e Ollio a fare Clov e Hamm in Finale di partita. E Keaton restare solo nella parte del tragico guitto in Film. So che non ci capiva nulla di quel testoed era confuso, spaventato. Ma un grande professionista non si tira indietro. Obbedisce. Mostra il suo assurdo coraggio nel seguire vie assurde.

La mia voce? Un rovo nell’orecchio, una spina. Se dovessi rappresentarla musicalmente, mi sarebbe impossibile trascriverla sul pentagramma. Ieri sono tornato a casa. Sul mio tavolo, dove punto i gomiti, guardo il foglio del quaderno. Sopra vidi scritti dei versi:

«Quando tutti i terrestri vagano sotto il cielo, lo

guardano. Leggendo però, quasi come

in una scrittura.

Felice chi trovò in vita

un ben assegnato destino.

Ma se la luce giunge molteplice,

allora è la più innocente»

Vedo la mia stessa calligrafia. Non ricordavo di aver trascritto i versi di Hölderlin sul foglio al centro del tavolo. C’è un grande ordine musicale, nella sua poesia, proprio negli inni dell’ultima fase, prima che svanisse la ragione: una ferma solennità, una veggenza sonnambula, preludio dell’imminente apocalisse. «Chi avrebbe previsto che sarebbe impazzito?» penso fra me e me. Non tento neppure di commentare quei versi: sarebbe superfluo. L’inspiegabile non si spiega: lo si accoglie. Il mondo è informe, interminabile. Se almeno ricordassi bene se io sono io, se il mio nome abbia un senso. Rifletto alla tua nuova versione di una poesia di Friedrich: «Ciò che resta (che avanza) lo fondano (lo offrono) i poeti». In sintesi «Ciò che avanza lo offrono i poeti». Un dono umile, inafferrabile.

Psichiatra, scrittore, critico, amico. Ma, da ogni casella dove sosto, scatto via rapido, con una mossa silenziosa. Chissà perché! E poi, chi insegna a chi? Nessuno si accorge che non sono più dov’ero: è il momento in cui posso scegliere una taverna nel centro storico, mangiarmi un piatto di ravioli di pesce e, dopo, fumarmi un cigarillo in santa pace davanti al grande globo di vetro del Porto antico. Genova come uno specchio opaco, dove molte vite mi aspettano, e non la mia. Odio le biografie da quando ho capito che ricordare se stessi è come decorare un cadavere. Si vive per vedersi rifratti dalle parole. Come scrivi tu: «Quale sarà la vera forma di Pane e vino? La bella copia prima delle varianti? Il fatto che Hölderlin non abbia ricopiato Pane e vino un’altra, ultima o penultima volta, depone a favore d’una poesia atomistica, una poesia delle componenti, delle schegge, dell’inconcluso?».

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Angelo Lumelli

Marco Ercolani

UNO SCOIATTOLO. Robert Walser

Il testo è tratto da: Robert Walser, Il mio monte. Piccola prosa di montagna, a cura di Maura Formica e Michael Jakob, Edizioni Tararà, Gravellona Toce, 2000.

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Dalla pianura salivano uno scampanellìio e lo sferragliare del treno. Mi credevo così lontano da tutto. Non osservavo nulla, lasciavo che mi si osservasse. Perlomeno, uno scoiattolo lo fece a lungo. Mi guardava all’alto sconcertato e impaurito. Lo lasciai fare. Dei topiragno saltellavano tra i sassi, il sole tramontava, e il prato brillava nella nera trasparenza dell’ombra. Oh, che struggimento provavo! Se solo sapessi ancora per cosa.

OGNI CHIODO UNA SILLABA. Angelo Lumelli

Ettore Guatelli

Ogni chiodo una sillaba. Lettera ad Ettore Guatelli.

Ettore, ti scrivo perché questa finzione mi aiuta, con il passato ancora caldo, come la cuccia dell’animale che se n’e appena andato. Potrei cominciare dalla teoria che ti riguarda, per esempio di come un senso, per esistere, abbia bisogno di qualcuno che lo veda.

Per cogliere il senso in movimento bisogna essere svelti – in realtà lo vedi con la coda dell’occhio, mentre passa. Forse più in là è già cambiato, sotto altri occhi. Da una parte il movimento lo fa crescere – almeno sembra – dall’altra gli dà i minuti contati. Da fermo il senso non finisce più, tanto che non è più lui – come te, quando sei morto – incredibile. Ogni senso si prepara per essere visto? – ha bisogno di una scena? Ah i piccoli pettini nel taschino della giacca, fino agli anni cinquanta! – la scena dei bei capelli, dei preparativi…

Come fare un museo? – sei nella “camera della zia”, al secondo piano del podere Bella Foglia? Procurati barattoli grandi da caramelle, riempili: in uno metti gomitoli da lana colorata, in un altro bottoni grossi con quattro fori, poi rocchetti di filo di refe, pennelli da barba, vecchie chiavi, biglie di vetro, rotelle per agnolotti, tappi di gassose, matite da muratore. Hai riempito un barattolo da caramelle con i piccoli pettini da taschino? – fallo! Quando ne hai riempiti cento, prendi assi da muratore, fai scaffali rudimentali e la “camera della zia” è pronta per i visitatori.

La roba di un museo la fanno gli altri, gli innocenti. Te l’ho detto, una volta: appena guardi, succede. Il senso passa da qui a lì, di lì ad altrove – in alcuni casi si dilegua. Ti ho anche detto: il senso ha bisogno di stress. Il meglio lo dà quando è stralunato, quando abbaia alla luna.

Vuoi saperlo? – nel 2001, quando tutto era finito, sono partito senza dire niente a nessuno e sono venuto al museo. Sono entrato nel cortile, ho guardato verso la porta dalla quale t’ho sempre visto uscire, ma non sei comparso – allora ho girato la macchina e sono andato via. In realtà tutte le cose vogliono parlare. Ti ricordi mia madre Santina? – hai schiacciato il tasto del registratore e l’hai fatta raccontare per due ore, tanto che io sono uscito, insieme a Giorgio Cusatelli, per lasciarvi soli. Sai che il professor Cusatelli l’ho messo nel romanzo La sposa vestita?

Gli ho fatto dire che i coppi del tetto sono un ottimo territorio desertico. – questo a uno che voleva andare nei deserti del Perù a studiare le piante grasse.

Sei andato via dalla casa dei miei con cose da poveri: due denti di un vecchio erpice, una martellina per le falci da fieno, una verga per battere i ceci, i racconti misteriosi di mia madre. Dimenticavo: la marmellata di mele renette. Ormai siamo in pochi a saperlo sulla faccia della terra – le generazioni esistono, una, due, nel Novecento – noi la terza, nel momento della svolta… Noi siamo gli ultimi antichi – ossessionati dalla memoria – perfino dalle lucerne che facevano chiaro sui quaderni di scuola – o perché hai messo nel museo i nidi di rondine?

Il tempo ha fatto un salto? – andava a piedi, accompagnando gli uomini, poi è subito dappertutto, da nessuna parte…

Siamo noi gli stralunati? – la generazione ambigua, per eccesso di senso?

Tutti i paesi hanno un museo patetico…le pro loco raccolgono le foto in bianco e nero…

Tu non sei stato patetico, tu sei stato feroce. Chi, se non un amore feroce, può cercare tutte le cose smarrite e radunarle in un posto solo?

Cosa fanno cento zappe? cento marapicche? cento pestarole – per umiliarle, per spingerle alla disperazione, alla rivolta? Spingere le cose verso il senso non significa spingerle fuori di sé? Estranee a se stesse, vaneggiano? – non limitate dall’uso, impazzite dal troppo essere? Mi sembra d’avertelo detto: le tue schede degli oggetti sono storie meravigliose e introvabili, ma quei racconti sono sul punto di trasformarsi, lanceranno un grido…

Ogni poema è un grido, rallentato.

Ti ho detto che la festa, in gran segreto, è la morte fatta felice?

Ah la preparazione del viso, rasato, le camicie bianche, le vestizioni… la cipria per le donne… gatta ci cova…

Quella volta sono arrivato da te in un momento cruciale… Stavi “perpetrando” qualcosa, come si dice di un crimine, di un gesto senza ritorno… Piantavi chiodi sulla parete in fondo al granaio, quell’enorme magazzino di m.13 x 12, al primo piano, seguendo la traccia di un cerchio, di un ovale… Era cominciato il poema… le cose si stavano sollevando da terra, dalle cataste arrugginite, abbandonavano il loro stato e volavano su quella parete a fare festa, a morire al culmine di un senso misterioso…

Ho visto morire e gioire anche te, anch’io, in quel volo di martelli, di sgorbie, di falcetti… Con loro, con noi, volavano, redente, le creature che avevano usato tutto ciò, che avevano mietuto il grano e ora sollevavano la schiena – si vedevano gli occhi, tutti ci guardavamo…

Il miracolo era fatto.

maggio 2023, Angelo Lumelli

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IL MUSEO DEL QUOTIDIANO

Ai contadini, come ai ragazzi, fa caso ogni cosa. Abituati da sempre a farsi tutto da soli, san ricavare attrezzi fantasiosi da cose e da frammenti che “possono sempre venire buoni”. Ed io, venuto tardivamente a scuola in città verso il ’37, sui 16 anni ho cominciato a scoprire gli straccivendoli e i rottamai, e a frugarli da contadino, cercando gli oggetti buttati, anche guasti e “che non venivano niente”: dalle pinze mai avute e sempre sognate, perché viste tanto “furbe” in mano al meccanico, ai simulacri di tenaglie, pur sempre migliori di quelle di casa, fino a un martello senza bava, sbeccato, ma non bombato come il nostro piccolo con cui non si riuscivano a piantare i chiodi, anche se più maneggevole di quello buono, ma grosso, che lo zio ex geniere aveva portato a casa da militare. Tutte quelle cose che il contadino, per mentalità, per timore del costo più che per il prezzo, non azzardava a comprare nuove. (E. G.)

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Notizia


ll Museo Guatelli si trova nel podere Bella Foglia, a Ozzano Taro, sulle colline parmensi, ed è il frutto di una storia che con la poesia ha molto a che fare. Nato a Collecchio nel 1921, Ettore deve fare i conti fin da piccolo con una malattia che lo tiene lontano dai lavori di campagna. Negli anni Quaranta, mentre è in ospedale, conosce il poeta Attilio Bertolucci e i due fanno un patto: Guatelli scrive a macchina i testi di Bertolucci, che in cambio lo aiuta a superare l’esame per diventare maestro elementare.
Qualche tempo dopo, ascoltando le storie di vita dei suoi piccoli alunni e i racconti di lavoro di contadini e artigiani incontrati in sanatorio, nel giovane insegnante nasce l’idea di raccogliere gli oggetti che documentano “le condizioni e l’ingegno della gente di Appennino” (parole sue). Così, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando in campagna si butta via tutto ciò che sa di antiquato per stare al passo della modernità, Guatelli diventa famoso tra i robivecchi come “il tizio che prende su tutto” (dove “prendere su” sta per “raccogliere”).
“Tutti sono capaci di fare un museo con le cose belle, più difficile è crearne uno bello con le cose umili come le mie”: dirà così, il maestro-raccoglitore, quando la sua casa diventa un piccolo “Louvre contadino” che attira visionari e conoscitori come Werner Herzog e Federico Zeri.

Il museo è qui” avverte ancora oggi un cartello sulla vecchia porta di legno e, una volta entrati, la vertigine del tempo ti cattura, dallo scalone tappezzato di contenitori in legno alla grande sala affrescata di pinze, martelli, chiavi e altri utensili, fino alle singole stanze dedicate alla magia povera delle scatole in latta, delle scarpe, dei vetri, degli orologi, dei giocattoli… Non ci sono teche, in questo museo, ogni cosa è a portata di mano e chiede di essere presa, toccata, soppesata, messa alla prova. Compreso l’ingegnoso trattorino “Frankenstein” che, dopo la gioia dei piccoli per cui fu costruito, ha fatto la felicità di chi l’ha raccolto e salvato dalla discarica. Perché negli occhi dei bambini intenti al gioco si può specchiare il sogno del collezionista, e persino quello del poeta: liberare le cose, insieme alle parole, dalla schiavitù di essere utili.

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Ettore Guatelli (Collecchio, 1921 – Ozzano Taro, 2000) maestro elementare, dagli anni ’50 iniziò a raccogliere e salvare attrezzi e mobili che provenivano dalle case contadine e dalle botteghe artigiane. Allargando le sue collezioni giungerà a più di 60.000 pezzi, cui affiancava schede di osservazione. Allestì il suo «museo del quotidiano» fra la propria casa e il granaio, dedicando una decina di ambienti agli attrezzi, alle scatole di latta, agli orologi, ai giochi, alle scarpe, agli strumenti musicali, etc. Gli oggetti furono disposti scenograficamente, con diversi riallestimenti, dando vita a una grande installazione artistica e museografica. In vari spazi intorno al museo sono accumulati altri pezzi raccolti o donati al museo in mezzo secolo.

Fra i diversi scritti di Guatelli si possono ricordare: Museo e discarica, «Ossimori», 5, 1994; Il Museo come opera mai finita, in Franca Di Valerio (a cura di), Contesto e identità: gli oggetti fuori e dentro i musei, Clueb 1999 e La coda della gatta. Scritti di Ettore Guatelli: il suo museo, i suoi racconti (1948-2004), a cura di Vittorio Ferorelli e Flavio Niccoli, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione Emilia-Romagna 2005.
La ricerca di Guatelli ha attirato molti studiosi e artisti, la bibliografia è particolarmente ricca: puntuali riferimenti si trovano nella  bibliografia del sito del Museo. Si rimanda fra gli altri ai differenti interventi di Pietro Clemente e Mario Turci (attuale direttore del museo), specie su «La ricerca folklorica» e «AM – Antropologia Museale», oltre che a numerosi cataloghi illustrati, come Pietro Clementi e Ettore Guatelli (a cura di), Il bosco delle cose, Guanda 1996; Catia Magni e Mario Turci (a cura di), Il Museo è qui. La natura umana delle cose. Il Museo Guatelli di Ozzano Taro, Skira 2005, Cristina Calicelli e Gabriele Mina, La raccolta dello stupore: il Museo Guatelli. Conversazione con Mario Turci, in Gabriele Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in Italia, elèuthera 2011. Le mostre ideate negli anni dal museo (ad esempio sul «Design spontaneo») sono testimoniate in cataloghi e documenti multimediali. Pietro Medioli ha realizzato il documentario Il mondo che abbiamo perduto – Ettore Guatelli e il suo Museo (Komedì, 2000, 52’).

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I MISFATTI DELLA FINZIONE. Angelo Lumelli

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Marco, ti credo sulla parola! – per quanto finga, una finzione denuncia i propri misfatti, le meraviglie – ma il mondo è qui, pesantemente… giorno e notte. Hai presente le notizie? – cosa succede tra una notizia e l’altra? – e tu fidati!

I miei amici di ieri si sentono, intimamente, con riguardo, anche amici tuoi. Sono contento di ciò – potremmo anche fare un piccolo raduno, una volta, magari al tempo delle ciliegie…

Ma è delle poesie di Lucetta che vorrei parlarti – quelle pubblicate sul tuo blog. Mi sono fermato soprattutto su Clitemnestra, Agamennone (da: La lezione degli dei) Non ci vedo un’interpretazione del mito, ma una poetica – del fuoco e dell’acqua ferma – della lingua che produce un atto (= l’ardente colpo d’essere) e quella che produce una perenne ritrattazione (= la ritrosia molle dell’esistere).

La poesia s’avvia con lo splendore, temibile, di un’azione: C’è chi sa incenerire un amore / per un delitto senza rimorsi – è con questi versi che comincia la poetica del fuoco. Il fuoco è definito “puro” in quanto non tollera mediazioni: la sua natura è di “appiccarsi” a qualcosa, un contatto irrimediabile, fintanto che non rimanga cenere.

Muore di fuoco chi è onesto lotta e perde | diventa quell’aria fine che gli dei respirano – con questi versi Lucetta Frisa ci dice che il fuoco non prevede vincitori: con la morte della propria vittima, anch’esso muore – rifiutando la figura dell’esecutore. Soltanto gli uomini perversi – aggiungo io – l’hanno usato nei roghi, come a Campo dei Fiori, dove oggi si bevono aperitivi, con tanto ghiaccio.

Dunque il fuoco – pur temibile, per noi, creature dell’umidità, dell’ombra e dell’opaco – è una manifestazione che unisce agente ed agito, un simbolo di ciò che noi abbiamo evitato con ogni cura ed astuzia: accadere subito! Poi ci sono le immagini dell’acqua: Ma l’acqua calma sta nel ventre della madre | deve morirci dentro chi non riesce a nascere | ad avere un nome, morirci chi è sleale e con dolcezza | tradisce chi lo ha amato, guardandolo negli occhi.

Parole durissime sono riservate a costui, sleale, il finto nato, che mai s’immolerà con il proprio antagonista, diventando cenere e soffio, una definitiva comunione: …illuso | di essere tornato nel grembo | inerme pulito sazio prediletto e torpido | nei giochi oziosi e orizzontali come al principio della vita.

Vorrei sottolineare un’immagine sintomatica: giochi oziosi e orizzontali – nella quale immagine il termine orizzontale sembra significare, sottilmente, la scelta estensiva del vivere, la contiguità impropria e, forse, qualunque, evitando la salita che esige sempre un abbandono, gradino dopo gradino, la pratica di un esercizio di rinuncia, per incontrare, ogni volta, l’essere innocente. Questa predilezione per la creatura onesta ed intemerata, tragica e senza margini, che muore di fuoco, contagia i versi “ardenti” di Lucetta Frisa, i quali sembrano consumare il loro senso mentre lo dicono (bruciandolo) – tragicamente solidali, lasciando cenere e un’ultima vibrazione nell’aria, cara agli dei.

Quindi si tratta di una poetica: aspirando a una poesia con pochi residui, frontale, che non si ritrae dal rischio, sbiancando, come nei compiti in classe dei bambini, gli aloni che denunciano vecchie malizie, tenute di riserva. A riprova di ciò, di come la poesia sia un atto, simile all’atto del vivere – e vorrei dire: che cambia la vita – possiamo leggere Nausicaa, Ulisse: Ascoltavo come non avevo mai ascoltato prima | … | Al termine del racconto più nulla e nessuno esisteva. | Nausicaa figlia di Alcinoo, principessa di un’isola felice | non c’era più…| …| Sarebbe stata una donna che si feriva le mani.

Questo colpo di scena, magnifico, che esalta i sortilegi della parola, non è, tuttavia, la proclamazione, ingenua, dei poteri positivi della poesia: la conversione di Nausicaa è, semplicemente, un caso riuscito di stregoneria, intorno alla quale non si pronuncia giudizio.

Un giudizio, invece, sui poteri, sulla necessità, sull’umanità e sul “malinteso” del linguaggio, lo troviamo nella poesia Se un animale soffre (dalla raccolta Se fossimo immortali): la parola – scusatemi, tu e Lucetta, se lo dico così brutalmente, ingenuamente – deve chiedere perdono per non poter uguagliare il silenzio (estremo custode della vita). Ecco i versi da ricordare: Il dolore del bambino è il primo strappo | lui deve crescere | verso il dicibile e il suo malinteso | bussare ai muri | truccati da cielo.

Io aderisco. Angelo.

*I versi citati sono tratti da: La lezione degli dèi, New Press Edizioni, collana il cappellaio matto diretta da Vincenzo Guarracino, Como, 2023.

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Angelo Lumelli

PER “POEMA RUPE”. Caterina Galizia

I testi citati dal commento sono tratti da: Angela Passarello, Poema Rupe, New Press, 2022.

Se escludiamo i pochi versi introduttivi e un paio di eccezioni, abbiamo davanti coppie di quartine, una coppia per ogni pagina, e ogni quartina reca la propria immagine chiusa in sé, tessera di un mosaico che abbraccia tutto il poema. Talvolta l’immagine è semplicemente esposta, ti si para davanti; talvolta ti trascina verso una microstoria narrata da poche preziose espressioni folgoranti. E tutto ruota attorno a “Rupe”, parola iniziale di ogni strofa che, pagina dopo pagina, aumenta di concretezza tanto che ne vedi il profilo con il suo intorno di

pipistrelli

Indiavolate creature dei sogni

con zip zip modulanti nell’aria

gli echi di ritorno.”

e con il suo riflettersi in

antri di roccia

regno della vespa scavatufi

guerriera pungicarne

dei vespai di frontiera.”

Ti si impone in un

quotidiano scorrisguardo d’orizzonte”

baricentro di un mondo dove

fossili e archeologie

custodiscono mutamenti”.

La Rupe è dotata di un gigantesco occhio che osserva un mondo la cui ricchezza vive nella sovrapposizione di umano-animale-minerale, di mormorio di futuro nel passato, un mondo il cui persistere nel ricordo di chi scrive ne consente la sopravvivenza proprio perché, giorno dopo giorno nel tempo, ne ha strutturato l’identità. La Rupe è una roccia-creatura, frutto della magia di un pensiero bambino che si lascia catturare da ogni figura osservata – “figure” come dice da par suo Angelo Lumelli autore della prefazione, “che si avvalgono dell’esistenza come dell’unico movente, ancor più quando fossero resistenti al senso. Renitenti”. La suggestione che avvolge chi legge, infatti, è proprio questa: non sempre il flash che ci regala ogni singola quartina è benedetto da un senso. In molti casi è sospeso sulle ali della meraviglia di uno sguardo infantile che lo osserva prima ancora di poterlo comprendere.

Rupe dell’urinante con le gambe aperte

dal sollevato lembo del vestito nero

statuaria come una matrona greca

lu cuntava nella sua intrepida lingua”

Il piccolo conosce solo quello che gli portano i sensi e quindi regala alla sua dea profumi:

Rupe odorante di malve e di roseti

aggrovigliati su muretti di frontiera”

suoni:

Rupe gridata dal gabbiano sulla costa”

Rupe dal sentore orecchiabile

con il cri cri di grilli e di cicale”

rupe dimora della civetta ohu ohu”

colori:

Rupe della volta celeste segnata

da vettori unidirezionali”

sapori:

Rupe del siero ricottaro profuma-aria”

Poi la bambina cresce ma la magia della Rupe rimane in quella terra di mezzo che si apre per ogni gesto creativo e, in particolare, per ogni produzione poetica. Il poeta mantiene le potenzialità di ogni passaggio, bambino accanto al ragazzo, all’adulto e al vecchio, mai regressivo ma evolutivo (solo se salvi i chicchi del melograno puoi avere la pianta). È il misterioso fenomeno dell’immaginazione creativa che affianca all’intuito della mente le funzioni inconsapevoli di comprensione emotiva che il cuore ha maturato negli anni. Ora la Rupe ha pensieri “da grande”. Può provare pietas:

Rupe accarezza silenzio dei morti

nel fruscio la cima del pino

come un angelo chino

sul marmo del riposo perpetuo”

Rupe dei poveri rognosi dormicane

dall’occhio querulo.”

può persino giudicare:

Rupe dei nulla facenti guardiacoste

riluttanti a imprese salvavita

di barconi rovesciati

con i morti trascinati dalle maree”.

Rupe martoriata da costrutti

afferravita

di organi e di apparati

di viventi ignari delle alterazioni.”

Rupe della maldicenza provinciale

In ammiccamenti sparlagente

fra uscio e uscio

voci sussurrate da malalingua.”

Una sola cosa la Rupe non può fare: decidere se essere pietra o poema. È proprio il paradosso della sua doppia natura che può farne quello che è per Angela, quello che è per noi: un frutto di hic et nunc e di storia, di natura e cultura: un mito con una faccia verso le pale eoliche ormai assimilate nel paesaggio e una faccia verso lo

scacciamalocchio degli orti

nel rituale della semina annuale

mormorando preghiere alla luna.”

ROVINE DI ARCOSOLIO. Alfonso Guida

*Il testo è tratto dalla raccolta inedita Semina e rovine.

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Or non ti resta più cosa nessuna

che aiutarla a morire a poco a poco

Amalia Guglielminettii

I

Ora un dolore trabocca di gesti,

tace indifferente, si nasconde tra la povertà

dei fiori e dei vestiti. I chiodi arroventati nel macramé.

Vino caldo, vetri di nebbia. Una chiarìa di recinti si avvolge,

tra le rocce. Non è un inverno morbido.

Con i libri, che portiamo a passeggio, e con lo stupore

di una perdita ultimata, anche l’ora, che distrugge e ricrea,

si annuncia in un ritorno più affollato. E lo schiavo

vuole entrare dalla porta d’ingresso mentre il comizio

sulla libertà ragiona in una via laterale, dove le agonie

si privano del soffio. Tu sai, in un rantolo,

soffocare gli animali che si stanano, quando il rabdomante

decide l’ordine e la specie di ogni arcobaleno.

Con chiarezza, in una pura dispersione musicale,

l’ira del paradiso

ci assale. La notizia, lo sai, è morta in un giornale macchiato.

Il paese franato si calmò un mattino d’agosto, con un bastone

di pioppo e la focaccia di farro.

II

Dove sono stato è un giro di falsi.

L’acqua gioca a sottrarsi e non è Via Ridola,

non è un viale di provincia questa luminosa veggenza

che ruota. Una fedeltà marmorea

come la notte e un dedalo che congiunge il peso al mondo,

così, negando il flusso, staccando il disordine

dai suoi rivoli di ruggine. Il canto si è gelato in una morte

senza simboli. E non è un contrassegno

neppure la stagione che assegnò un posto assoluto

al suo stesso bisogno di tornare, con un meccanismo compiuto:

la scodella di alluminio, il cestino di cuoio. E poi suor Rubina.

La vena verde del suo viso era un ponte in un paese di cera.

E un deserto bianchissimo appariva sospeso sul soffitto,

nel refettorio. Un ombrello grande ci accoglieva tutti.

Non era odio la natura del fratello non salvo. Io, per metà sommerso,

fissavo ogni cosa come un dono ricevuto.

Le zollette di zucchero, giunte dal Sussex,

restavano per anni intoccate come le amarene sottospirito.

Ora, lo vedo, le ombre del pomeriggio

accorrono in un angolo freddo e, per un istante,

migliaia di anni vengono fin qui come eserciti

per farsi tramandare.

Il bambino, con un gesto di sete, si copre,

incontrastato e indiscernibile.

**

Giovanni Castiglia, Senza titolo