
NOTE DI LETTURA
Luigi Sasso Dietro lo schermo
Il cinema è un mondo fatto di ombre. Una notte nella quale si muovono figure, corpi disegnati da una luce di cui non si riesce a comprendere l’origine, né la natura. E’ un mondo dalle dimensioni e dai ritmi fuori dall’ordinario: la mano, il volto di una donna occupano tutto lo spazio davanti a noi, i giorni e gli anni hanno la durata di una dissolvenza. E’ un luogo che diviene possibile solo nel buio che ci circonda, che costruisce trame, vite e destini a volte del tutto simili, altre volte nemmeno avvicinabili a quelli che definiamo “reali”. Per queste ragioni le sequenze proiettate sullo schermo sono state frequentemente paragonate al sogno, alle immagini prodotte dall’inconscio, come se là, in fondo alla sala, si mostrassero le pieghe, forse le piaghe di un’anima. Lo si ricorda anche qui, in A schermo nero, è una delle prime avvertenze che ci pone di fronte la scrittura di Ercolani: «Il meccanismo con cui si crea l’immagine, nel cinema, richiama il lavoro dello spirito durante il sonno. Il buio che invade a poco a poco la sala equivale all’azione di chiudere gli occhi. È allora che comincia sullo schermo l’incursione notturna dell’inconscio; le immagini, come nel sogno, appaiono e scompaiono».
A schermo nero si presenta come una appassionata riflessione sul cinema, come un vero e proprio atto d’amore per le storie, i personaggi, gli attori e gli autori del mondo di celluloide. Si tratta di una raccolta di una cinquantina di testi: essi presentano una notevole varietà di forme, assumendo le caratteristiche di una confessione, di un’intervista, di una lettera, di un diario, di una manciata di pensieri, di riflessioni intime, oscillando tra la modalità dei frammenti o di appunti sparsi a quella più strutturata di un commento, o addirittura di un lessico. Pagine che si presentano come occasionali, recuperate tardivamente, casualmente riemerse. Quasi a volersi muovere ai margini delle storie e degli eventi raccontati sullo schermo, in una zona sotterranea, nascosta, ma proprio per questo imprevedibile e rivelatrice.
Di chi sono le voci che raccontano, annotano osservazioni critiche, progettano nuove opere, ricordano una vita ormai alle spalle, come una storia a cui restano pochi metri di pellicola prima della parola fine? Sono quelle di registi, attori e attrici, controfigure, sceneggiatori, produttori, direttori della fotografia. Ciò che però unisce le parole che prendono forma in questi testi è il fatto di non essere mai state pronunciate – anche se non mancano, qua e là, delle eccezioni – dalle persone a cui sono attribuite, di non essere mai state scritte dalla loro mano. Ercolani infatti realizza, con A schermo nero, dopo Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, Discorso contro la morte, dopo i volumi dedicati a Blok e a Bruno Schulz (ma l’elenco è incompleto), un nuovo libro di apocrifi, o meglio di testi che si presentano sotto la forma dell’effetto di apocrifo: sottoscritti da Abbas Kiarostami o da Maurice Kosinski, da William Daniels o da Dulton Trumbo, da Jean Renoir o Fritz Lang, ma di cui risulta poi del tutto chiara l’identità dell’autore. Lo scopo perseguito da Ercolani è quello di trovare, in uno spazio e in un tempo che non esistono, un punto di osservazione inedito che possa gettare luce su una poetica o un destino, sulla genesi o il senso di un’opera.
Quali volti del cinema, quali temi emergono dalle pagine di Ercolani?
E’ un cinema che «mostra ciò che non si può vedere altrove»: la follia, la crudeltà, il delitto, l’apparizione e le parole di un mostro, un cinema che sostituisce alla vita «storie più disperate ed esaltanti della vita», che insegue le tracce di un enigma, che si lascia sedurre dal fascino intramontabile del bianco e nero, dal suo gioco di sfumature e di contrasti, dalla sua grammatica così vicina a quella della scrittura, ma che sa cogliere poi nel colore la palpitante dimensione dell’eros, la sensualità inappagata, la forza di attrazione dell’immagine. Essenzialmente è un cinema che vuole restituire la paura di un essere umano, soprattutto quella provata nell’infanzia, che riesce a scavare dentro un’anima, a vedere l’interno del corpo, «la nostra parte buia». Lo schermo nero cui si riferisce il titolo non è dunque soltanto un fatto tecnico, la momentanea sparizione dell’immagine, nel corso della quale una voce prende corpo e risuona, la pausa che prelude a un cambiamento di scena, che coincide con un’ellissi narrativa creando le coordinate di quella realtà sospesa in cui può nascere e insinuarsi la finzione d’apocrifo, in cui possono essere scritte le pagine che qui vengono legate all’identità di Ioseliani o di Buñuel, per esempio; ma è anche, e soprattutto, la vocazione di un linguaggio che punta a restituire il fondo oscuro di ogni essere umano, la segreta dimensione di un’esistenza. E ciò bene focalizza la doppia natura della scrittura di Ercolani: indagine critica, descrizione del mondo di un autore, riflessione sulla creazione artistica, sulle sue forme e le sue caratteristiche e nel contempo legame con le profondità e le angosce di un io, col suo volto turbato, folle o addirittura mostruoso. Queste caratteristiche emergono con esemplare chiarezza nel brano intitolato Insubordinazione. Sergej Ejzenštejn in una pagina del Diario scritta poco prima di morire (ed Ercolani parte in effetti da una pagina delle Memorie del grande regista), rivela che la frequente rappresentazione di scene violente e di massacri nei suoi film deriva da un desiderio infantile represso, dalla voglia di torturare un oggetto, di rompere e smontare il meccanismo di un giocattolo. Annota infatti: «Quando ero bambino, non aprivo le teste delle bambole, i fondi delle scatole, le casse degli orologi. Non schiacciavo gli scarafaggi e le farfalle, non pungevo le pance dei gatti. Mi tratteneva una sorta di sacro terrore – erano tutte cose vive, anche gli oggetti, e avevano un’anima. Mi trattenni, ma non smisi di desiderarlo».
Quei gesti mai compiuti hanno così finito per tradursi nella sintassi della sua scrittura di regista. «All’inizio provavo un senso di colpa; ma poi, col passare del tempo, mi accorsi che potevo cambiare forma al mio desiderio. E, per cambiarlo, avevo a disposizione metri e metri di pellicola, un universo da rappresentare. Non dovevo trattenere più nulla. Zoccoli di cavalli che frantumano teschi di braccianti, folle intere fucilate dai cosacchi, bimbi calpestati sulla scalinata di Odessa e gettati dentro grandi falò, buoi avvelenati, zarine uccise, frecce conficcate negli uomini accasciati davanti alla palizzata, guerrieri con grandi armature annegati dentro blocchi di ghiaccio: ecco il Messico, Ivan il terribile, Sciopero, Potemkin, e via di seguito. Un campionario di massacri che si è venuto via via chiarendo, al mio sguardo, come la fervida fantasia di un bambino che non ha smesso di essere violento».
Questo rapporto con il mondo dell’infanzia e con gli impulsi che essa porta con sé trova espressione anche nella tecnica: dalla dissezione e ricucitura delle scene operate col montaggio, di cui Ejzenštejn è sempre stato considerato un maestro, fino all’utilizzo del bianco e nero, alla sua essenzialità così adatta a far affiorare sullo schermo la tragedia della guerra, della rivoluzione, lo scontro di corpi e di passioni, il contrasto tra il ghiaccio e le armature.
Il caso di Orson Welles è diverso. Qui Ercolani compie un passo in avanti. La volontà di mettere in evidenza il lato segreto della creazione ribalta l’immagine più nota di Welles. Del regista di Quarto potere e dell’Orgoglio degli Amberson conosciamo l’eccezionale e innovativa capacità di narrazione, l’organica, geometrica strutturazione del racconto, tanto che i suoi film hanno fatto spesso pensare a una partitura musicale, a qualcosa di simile a una sinfonia. Ercolani pone invece l’accento sulla frammentarietà dell’io e sulla conseguente, analoga frammentarietà dell’opera. Dalle lettere inedite di Orson Welles affiora una sequenza di mutilazioni, di progetti falliti. «Frammenti disseminati ovunque: ecco il mio cinema, che non posso finire (ma che forse ho finito senza dire niente a nessuno)». Frammenti che dicono come il cinema stesso non sia altro che la costruzione di una menzogna, di una finzione destinata a svelare la fragile struttura su cui poggia. Il tentativo di realizzare un film tratto dal capolavoro di Cervantes lo rivela in maniera clamorosa: «Ogni tanto qualcosa viene alla luce, per caso. Il mio Don Chisciotte, ad esempio. Quella scena dannata, quando Chisciotte entra in un cinema dove proiettano un film in costume, crede di vedere Dulcinea e allora mena fendenti sul telone, crollano le mani della donna, una folla di guerrieri si squarcia, il pezzo di stoffa si apre, è un buco, si vedono le assi di legno, allora si capisce che tutto è inganno, tutto è cinema, tutto è nulla; e nella sala, a pubblico ormai assente, resta sola, davanti al vecchio cavaliere, una bimba bionda, che scrolla la testa…». Anche in Ercolani c’è questa volontà di andare oltre, dietro lo schermo, di lacerare il tessuto di illusioni di cui non solo il cinema in sé e per sé è fatto, ma anche, e specificatamente, l’opera e la vita dei protagonisti delle sue pagine. Diventa chiaro allora come il cinema non sia soltanto un seducente nastro di immagini, ma nasconda una disposizione che ha a che fare con il sadismo, la crudeltà, la tortura. Un altro lato oscuro, quindi. Ce lo ricorda qui Erich von Stroheim: «Il mio film – ogni mio film – è, da subito, tutto questo: è, immediatamente, la possibilità di essere censurato, tagliato, fatto a pezzi, polverizzato in qualche manciata di nitrato d’argento, superbamente fallito, come una piramide rovesciata nella sabbia del deserto», e in modo ancora più esplicito e definitivo lo ribadisce Kenji Mizoguchi: «Che mi accusino di essere regista di film scandalosi o violenti, non è del tutto vero. È l’immagine stessa che, in sé, è scandalo. Basta il volto di una donna, violentata nel buio di una chiesa, e millenni di parole contro la violenza diventano deboli tracce verbali. Vedere quello che succede, con l’involontaria crudeltà di cui è portatrice la macchina da presa. […] La crudeltà non è un tema del cinema, è il cinema stesso».
Il cinema, si è detto, richiama l’azione del sogno. Ma oltre alle analogie con la dimensione onirica, è opportuno sottolineare anche le differenze. E’ un’opera collettiva, che coinvolge persone che vanno dal regista al tecnico del montaggio, e non esclude il pubblico, come ricorda un apocrifo Jean Renoir; è il frutto, come ogni altra attività artistica, di scelte coscienti e razionali, di un lavoro scrupoloso, addirittura di una fredda, impassibile determinazione, grazie alla quale cogliere, per esempio – lo aveva già annotato Bergman nella sua autobiografia, Lanterna magica – un dolore disegnato improvvisamente su un volto.
Ma distingue il cinema dal sogno anche la possibilità di riavvolgere la pellicola, di replicare all’infinito, del tutto identica, la vicenda narrata. Gesti, abbracci, parole, esistenze, quasi obbedendo a una severa liturgia, si presentano ogni volta immutati, esibendo figure insensibili al trascorrere del tempo proprio perché consegnate – come nel racconto di Bioy Casares, L’invenzione di Morel – all’esangue natura di fantasmi. Persino l’autore, il regista, diviene un’ombra e il direttore di fotografia – leggiamo in A schermo nero – solo «l’ombra di un’ombra». Ma soprattutto la specifica natura del linguaggio cinematografico sembra contagiare gli attori, fino al punto da render meno definiti, o addirittura di rovesciare, i contorni di realtà e finzione. Ce ne danno testimonianza i casi di Greta Garbo e Ida Lupino. Il volto di Greta Garbo ci viene infatti presentato come un foglio di carta, una forma che non ha una vita reale e che quindi, paradossalmente, soltanto in un film può finalmente smascherarsi, diventare vero: «Sono nata per essere un volto dentro uno schermo», confessa. E dello schermo, con angoscia, sogna di essere prigioniera. Altrettanto lucida l’analisi che della propria esistenza, e del proprio destino di attrice, compie Ida Lupino. Le parole che Ercolani le fa pronunciare: «la vita vera non è questa nella quale sopravviviamo aggrappati al respiro come vecchi ragni alla bava della tela, una cosa è vivere, un’altra è sopravvivere: io, su questa sedia, sopravvivo, e là, nello schermo, dove sono baciata, ballo un valzer, splendo di giovinezza, vivo», ci ricordano che forse soltanto l’arte, soltanto le ombre del cinema sono qualcosa di autentico.
«Hai divorato migliaia di film; te li sei stritolati, bevuti e mangiati, notte dopo giorno, giorno dopo notte, western, melò, noir, cappa e spada, senza che fuori dal film succedesse qualcosa di diverso dalla storia del film, l’eroe, la nebbia, la morte, Primula rossa, Sparviero del mare, Capitan Blood, migliaia di scene ti hanno vissuto e trovato e tu, dentro di loro, masticato dalle storie, divorato dalle immagini, fisso a guardare ciò che dovevi guardare, adulto e bambino, bambino e adulto, tutti i racconti possibili nella mente, il corpo reale fisso nella sedia, condannato alle immagini, strangolato alle storie, come James Cagney nel braccio della morte, come Susan Hayward nella camera a gas, centinaia di migliaia di film a dirti che esisti, che quelle storie prendono possesso di te».
Il lettore potrà scoprire da solo a quale nome sono attribuite queste parole. Ma adesso piace pensarle, strappando il velo della finzione, o forse semplicemente tessendone un altro, come una confessione dello stesso Ercolani. La scrittura apocrifa, anche nella sua forma di calcolato effetto, conferma a ogni riga quello che è il suo principale assunto: che solo ciò che si traduce in finzione acquista la dignità del vero. Da qui un corollario: che con le storie e i personaggi creati da una pellicola – come del resto con quelli balzati fuori da una pagina o da una tela – è possibile aprire un proprio percorso, disegnare una linea immaginaria e tuttavia del tutto intima, personale, tracciare i confini di quell’universo che chiamiamo identità. Metri e metri di pellicola scivolano via: Lon Chaney e Boris Karloff con il volto di un mostro, scene mute, come quelle amate da Murnau, o attraversate da rumori e voci, scorci di paesaggio, storie che narrano un delitto o la ricerca del proprio padre. Il cinema non smette di affascinarci, di ipnotizzarci. In quelle immagini riconosciamo – lo ha detto nelle sue Note sul cinematografo Robert Bresson, lo ripete in questo libro – «un viaggio di esplorazione su un pianeta sconosciuto»: la fisionomia, sbandata, inconclusa, del nostro io.
(Postfazione di A schermo nero, QuiEdit, 2010).
Giuseppe Zuccarino Voci dal silenzio
Marco Ercolani si è sempre interessato al tema della follia, sia nelle vesti di psicoterapeuta che in quelle di scrittore. Lo ha fatto raccontando episodi, direttamente vissuti, di incontri e dialoghi con i suoi pazienti, in libri come Anime strane, Sento le voci (entrambi scritti in collaborazione con Lucetta Frisa) e Turno di guardia. Ma lo ha fatto anche riflettendo, a livello teorico, sul rapporto fra arte e disagio psichico, dapprima in L’opera non perfetta, poi in Galassie parallele (Edizioni Il Canneto, 2019), che del volume precedente si può considerare una parziale riscrittura e, più ancora, un ideale prolungamento. Il nuovo libro, corredato da un succinto ma efficace apparato iconografico, fa dunque il punto sulle riflessioni dell’autore riguardo a un tema spinoso: nel corso dei secoli, infatti, si è spesso oscillato fra due posizioni estreme: quella che individuava tra arte e follia solo un rapporto oppositivo, e quella che invece le associava strettamente fra loro.
Ercolani, da parte sua, ritiene corretta una posizione intermedia, che rifiuti l’integralismo della ragione senza però lasciarsi catturare troppo dalla follia, perché sia nell’uno che nell’altro caso l’accesso all’attività creativa rischia di essere impedito. «Una “buona salute dominante” rende impossibile qualsiasi forma di arte perché uno stato di benessere è inerzia – da iners, non-arte. L’inquietudine è necessaria, come motore dell’ars, ma un eccesso di inquietudine, una “cattiva salute dominante”, procura un dolore psichico che rende la vita invivibile e porta a fallimento qualsiasi espressione artistica». Per chi intende fare arte, si tratta dunque di accettare un momentaneo esodo dal mondo rigidamente controllato dalla razionalità, senza però perdersi in maniera durevole nella dimensione dell’irrazionale. E proprio a questo allude il titolo del libro: «Una fuga dalla ragione, senza la speranza di una fine, genera i molteplici pianeti della psicopatologia, ma una fuga temporanea dalle logiche del mondo inventa le galassie parallele di un’arte originale, eccentrica, perturbante».
L’attenzione alla produzione artistica fuori norma spiega una caratteristica significativa, e se si vuole provocatoria, dell’indagine ercolaniana, ossia il fatto che essa verte non soltanto su artisti notoriamente caratterizzati da disturbi mentali (che spesso li hanno condotti a subire internamenti psichiatrici di lunga durata), ma anche su altri che, pur essendo esenti da simili problemi, si sono però dedicati a una ricerca ossessiva, con esiti di grande originalità. Dunque, almeno in prima istanza, per Ercolani si tratta di rinunciare ad opporre drasticamente sanità mentale e pazzia, anche perché quest’ultima resta sempre presente, in quanto eventualità, per l’essere umano. Come osserva Wittgenstein, «se nella vita siamo circondati dalla morte, così anche nella salute dell’intelletto siamo circondati dalla follia»3. Neppure la sua buona conoscenza dei testi psichiatrici induce Ercolani ad assumere un punto di vista esterno rispetto agli artisti che prende in esame, quasi si trattasse di ridurli a semplici casi clinici. Egli è ben consapevole che, di fronte ai fenomeni artistici, un’indagine che si voglia scientifica è sempre destinata a rivelarsi, almeno in parte, spiazzata e inconcludente. Infatti quando la follia, «con lampi e urli, riappare come in Nerval o Artaud, in Nietzsche o Roussel, è la psicologia che tace, resta senza parole di fronte a quel linguaggio».
La rassegna offerta nel libro è a tutto campo, poiché non concerne solo l’ambito letterario, ma anche le arti visive (pittura, scultura, architettura) e la musica. È da notare, inoltre, la scarsa propensione dell’autore a stabilire gerarchie di valore: egli mescola con disinvoltura artisti assai noti e semisconosciuti, evidentemente perché gli uni e gli altri sono, a suo avviso, accomunati da una condizione simile, ossia la difficoltà di accettare la realtà circostante adattandosi ad essa, e al tempo stesso la capacità di costruire un mondo alternativo, che si manifesta tramite invenzioni verbali, visive o sonore.
Vediamo almeno qualche esempio, partendo proprio da uno dei casi più emblematici, quello di Adolf Wölfli. Nato in una famiglia povera (suo padre è un tagliapietre incline all’alcolismo, sua madre una lavandaia), non sempre può frequentare con regolarità la scuola elementare perché fin da piccolo deve lavorare come aiuto-contadino, subendo spesso maltrattamenti dagli adulti. Resosi a sua volta colpevole di piccoli furti e di maldestri tentativi di molestare sessualmente delle bambine, Wölfli finisce prima in carcere, poi (essendo giudicato instabile di mente e pericoloso) nel manicomio di Waldau, in Svizzera, dove rimane per trentacinque anni, dal 1895 fino al termine della propria esistenza. Nulla sembra predisporre un individuo del genere, incolto e violento, all’attività artistica, eppure dopo qualche anno di reclusione manicomiale egli inizia a disegnare in maniera costante usando matite nere o colorate, e più tardi a scrivere un’autobiografia (mitologica, non realistica) che arriverà a contare 25.000 pagine. Del resto, le due pratiche si intersecano fra loro, perché spesso parole e immagini coesistono sul medesimo foglio. Se conosciamo le sue opere visive è per merito dello psichiatra Walter Morgenthaler, che lavorando a Waldau ha potuto incoraggiare la creatività del suo paziente e, in un libro di rilievo, ne ha studiato con accuratezza gli scritti e i disegni1. Le immagini realizzate da Wölfli, di grande ricchezza e complessità, presentano elementi di vario tipo, in parte riconoscibili ancorché stilizzati (edifici, figure umane intere o ridotte a semplici faccine, uccelli, lumache, serpenti, ecc.), in parte puramente decorativi, eseguiti però con una minuzia e un’eleganza sorprendenti. Talvolta compaiono anche inserti di scrittura, partiture musicali, illustrazioni tratte da periodici e incollate sul foglio2. Il fatto che questo venga utilizzato per intero, in ogni millimetro, è una caratteristica tipica dei lavori pittorici dei malati di mente, come pure la serialità delle opere, ma la qualità artistica di quelle realizzate da Wölfli resta indubbia e fa sì che egli sia stato apprezzato già nell’ultimo periodo della sua esistenza.
Ci sono però anche casi di artisti che si sono chiusi nel proprio mondo interiore al punto da tenerlo nascosto agli occhi degli altri. Pensiamo all’americano Henry Darger. Rimasto, durante la prima infanzia, orfano di entrambi i genitori, frequenta una scuola cattolica, ma il suo comportamento poco rispettoso delle regole fa sì che nel 1904, quando ha solo dodici anni, venga recluso nell’Illinois Asylum for Feeble-Minded Children, famoso per il severo trattamento che infligge ai ragazzi. Qualche anno dopo, Darger riesce a fuggire e a tornare nella propria città natale, Chicago. Lì trova impiego come inserviente o lavapiatti presso vari ospedali, lavoro che svolgerà fino al pensionamento. Nel tempo libero, raccoglie ogni tipo di oggetti di scarto, ma in particolare riviste e fumetti. È solo quando, nel 1972 (un anno prima della morte), viene trasferito in un ospizio, che i proprietari del modesto appartamento in cui abita da decenni scoprono, con sorpresa, il frutto del lavoro da lui effettuato in segreto. Si tratta di vari lunghissimi scritti, tra cui spicca un’opera narrativa, The Story of the Vivian Girls in the Realms of the Unreal, che supera le 15.000 pagine ed è accompagnata da più di trecento illustrazioni, spesso di grande formato. La vicenda narrata nell’opera è quella delle Vivian Girls, le sette giovanissime principesse del regno di Abbieannia, che si ergono a difesa delle bambine, battendosi assieme a loro contro un esercito invasore che le ha schiavizzate. Nelle immagini, che sono perlopiù disegni colorati ad acquerello, scene idilliache si alternano ad altre assai cruente, nelle quali le piccole ribelli vengono sventrate, strozzate o impiccate dai feroci militari. In certi casi, le bambine sono raffigurate nude, e spesso dotate di un piccolo membro maschile, sicché l’insieme oscilla tra naïveté e ambiguità sessuale. Per realizzare le illustrazioni, che costituiscono la parte più significativa della sua opera, Darger utilizza anche una tecnica insolita, ossia ricalca figure da giornali o fumetti e le riporta sui fogli, colorandole. Nel loro insieme, i dipinti su carta, ricchi di personaggi e affascinanti per la loro potenza visionaria, hanno suscitato interesse e ammirazione nei cultori di quella che, a seconda dei paesi, viene definita art brut oppure outsider art.
Come abbiamo visto, può accadere che la creatività delle persone affette da disagio mentale si manifesti, oltre che con opere visive, anche con la scrittura, che fra l’altro presenta il vantaggio di richiedere un minimo di risorse materiali: basta disporre di una matita e di un quaderno. Ciò vale anche nel caso di qualcuno che è già conosciuto per le sue opere letterarie e che, per effetto di un brusco accentuarsi dei problemi psichici, si trova di colpo rinchiuso in manicomio, dove dovrà restare in maniera continuativa per nove anni. Stiamo alludendo al ben noto caso di Antonin Artaud, importante figura di scrittore, attore, regista e teorico del teatro. Egli viene internato nel 1937 e il primo periodo di degenza, in vari ospedali psichiatrici, è per lui durissimo. La situazione migliora a partire dal 1943, quando viene trasferito al manicomio di Rodez e affidato alle cure del dottor Ferdière. Quest’ultimo, che conosce le opere di Artaud ed è un fautore dell’arte-terapia, gli assicura più accettabili condizioni di vita e lo stimola a riprendere la scrittura; tuttavia, nel contempo, ritiene necessario curare il delirio del proprio paziente col metodo dell’elettroshock, procurandogli ingenti sofferenze. A partire dal febbraio 1945, Artaud inizia a scrivere in maniera copiosa su quadernetti da scolaro, attività che continuerà anche quando, nel 1946, verrà dimesso da Rodez e potrà disporre di una maggiore libertà, fino alla morte (avvenuta del resto poco dopo, nel marzo 1948). Ne risulteranno 406 quaderni, per un totale di migliaia di pagine. Sia su alcune di tali pagine che su fogli di maggiori dimensioni, Artaud realizza anche dei disegni, a grafite o a colori, di genere diverso (si va dai ritratti alle figurazioni simboliche), in qualche caso singolari e suggestivi. Gli appunti scritti nei quaderni offrono non tanto dei testi compiuti quanto piuttosto una sorta di magma verbale inarrestabile, con frasi irrispettose della sintassi e una disposizione irregolare delle parole sulla pagina. A livello del contenuto, alcuni temi ricompaiono in maniera costante: si va dalla credenza in azioni magiche attuate o subite, alla lotta contro presunti persecutori (e alla speranza di esserne liberato grazie all’intervento di «figlie» immaginarie), fino all’affermazione della necessità di reinventare la stessa anatomia umana. Si tratta di un flusso di parole che, alla lunga, risulta quasi insostenibile per il lettore, ma che al tempo stesso fa esplodere la forma tradizionale dell’opera, dando vita a una scrittura provocatoria, inaudita e sorprendente.
Quelli fin qui citati sono solo tre fra i moltissimi esempi di artisti irregolari presi in esame da Ercolani nel suo libro. Come già detto, la rassegna è vasta: si va da chi scrive o dipinge sui muri a chi realizza sculture con materiali di recupero, da chi costruisce, con anni di ostinato lavoro, edifici di aspetto bizzarro, a chi, pur riuscendo a divenire famoso nel suo campo artistico, resta segnato dalla propensione a realizzare opere visionarie o a condurre ricerche maniacali, il che lo rende non troppo dissimile da alcuni malati. Certo, è sempre bene non confondere chi mantiene un sostanziale controllo su quel che produce e chi invece si limita a subire una coazione unilaterale ad esprimersi dovuta a problemi mentali. Tuttavia, secondo l’autore di Galassie parallele, la vera discriminante non è quella che separa l’artista lucido dall’artista disturbato, perché una certa uscita dal reale ordinario resta una necessità per entrambi. L’importante è non perdere la via del ritorno, e con essa la possibilità di comunicare agli altri i propri pensieri e le proprie percezioni. Come osserva Pascal Quignard, «subire l’assalto della visione, fare il viaggio non è l’essenziale dell’arte: occorre quel piccolo coraggio supplementare di tornare indietro e di trascrivere».
Se si adotta una prospettiva del genere, allora poco importa quale sia il linguaggio (verbale, visivo, sonoro) adottato da chi riesce a manifestarsi mediante le proprie opere, così come diventa illegittimo opporre gli artisti famosi a quelli marginali o insani di mente. Questi ultimi hanno pieno diritto non soltanto di esistere e produrre, ma anche di essere ricordati. Ognuno di loro, infatti, ha saputo attuare, in piccolo o in grande, una reinvenzione di se stesso e del mondo esteriore. Il loro merito viene evidenziato da Ercolani in questi termini: «L’artista folle […] tenta sempre e comunque (da scrittore, musicista, pittore), nella sua “guarigione infinita”, di non sottrarsi né alla necessità del sogno né al peso della sua rappresentazione. Percorre la via tragica della non-ragione, perché è la sola a schiudere nuove conoscenze». Per lo scrittore e psicoterapeuta genovese, riuscire a valorizzare anche coloro che non sono né saranno mai «classici da antologia, licheni da museo, argomenti per tesi di laurea», costituisce un’esigenza etica, e al tempo stesso un modo di praticare quella che egli definisce, riprendendo un’espressione foucaultiana, un’«archeologia del silenzio». Essa consiste appunto nell’obliare le gerarchie convenzionali, nello «scavare i diversi strati del tacere finché, fortunosamente, per un attimo almeno, alcune delle voci sotterrate riemergano, e le voci dominanti, per quell’attimo, ammutoliscano».
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Luigi Sasso Né qui né altrove
Ogni autentico scrittore interroga il linguaggio, ne esplora le potenzialità e i confini, lo trasforma, ce ne offre un’immagine nuova, che insieme ci sorprende e ci inquieta.
Si ha la sensazione, leggendo Il mese dopo l’ultimo, che per Ercolani le parole non possano esaurire tutta la realtà, tutta la sua stratificata e proteiforme configurazione. Resta sempre qualcosa di non detto, una cornice di silenzio percorre le frasi ogni volta che le parole si dispongono sulla pagina. C’è un’insufficienza che non deriva da una scarsa abilità del narratore, ma dalla natura del mezzo impiegato. Probabilmente uno dei modi di definire la letteratura è proprio quello di un linguaggio che non nasconde, ma al contrario rivela i suoi limiti «La lotta fra silenzio e parola fa emergere l’opera come lampo sulle rovine – come luce nera su macerie bianche. E così moltiplica il segreto».
Questa consapevolezza, che cioè non tutto quello che vorremmo dire sia realmente dicibile, che il testo non sia un ritratto definitivo ed esauriente di quello che siamo, potrebbe indurre alla rinuncia, alla rassegnazione. Non è così per Ercolani, che al contrario interpreta questo scacco come un necessario invito alla scrittura. Anzi, sta proprio nella citata consapevolezza il tema fondamentale del libro Il mese dopo l’ultimo, dedicato alla figura di Bruno Schulz. Esso ruota intorno al progetto del celebre scrittore polacco di comporre un libro, il Messia, rimasto poi incompiuto, o meglio mai andato oltre allo stadio di qualche improbabile e ambiguo frammento. Il Messia è, per Schulz, il Libro con la elle maiuscola, qualcosa che a prima vista potrebbe far pensare a un testo sacro, alla Bibbia. Ma il Libro per Schulz non è un’opera già scritta, che appartiene al passato, né possiede la forma ieratica e monumentale di un antico testo sapienziale. Il Libro è il Messia, è il Libro di là da venire e ancora da scrivere e che Schulz, anche a causa delle tragiche circostanze in cui ebbe a consumarsi la sua esistenza, non potrà che immaginare.
Sulle ceneri di questo progetto incompiuto, quasi a voler correggere un errore, o meglio un’ingiustizia della storia, si muove la scrittura di Ercolani. Questa la sfida, la scommessa de Il mese dopo l’ultimo e di tutta la sua narrativa.
Il sogno di un libro, del Libro, trova la sua spiegazione, quindi, nella ricerca di una parola che possa esprimere fino in fondo le cose, che riesca a dire, e a realizzare, quello che tutte le altre parole non possono fare, trova la sua spiegazione nel desiderio di un linguaggio che bruci e raggeli, che ferisca e risani.
Ma una parola, un linguaggio così non stanno, per dirla con un’espressione rubata al Libro del deserto di Ingeborg Bachmann, né qui né altrove, né oggi né domani. Questo Libro non abita nello spazio e nel tempo. È un’utopia, un fantasma sbucato dalle pieghe del cosmo. Come il Messia, esso verrà quando non ci sarà più nessuno ad attenderlo, e finché continueremo a scrivere e a sognarlo, esso ci apparirà irrealizzabile. Il Libro che Schulz ed Ercolani vogliono scrivere è, per parafrasare quello che concretamente sta davanti ai nostri occhi, «il libro dopo l’ultimo». Soltanto quel libro potrebbe contenerci per intero. E allora scrivere non sarà altro che la ricerca di quella meta, l’attesa di quell’evento: «Un libro che viva esclusivamente per la forza intrinseca dello stile, come la terra si regge in aria senza bisogno di impalcature; un libro quasi senza soggetto, il cui tema sia, se possibile, quasi inesistente. Un libro bellissimo, con poche frasi da leggere, liberato dalla materia».
Questa idea si fa ancora più precisa poche righe più avanti: «Fiume interminabile, con emissari e immissari, senza inizio né fine, sempre attingibile ma mai concluso, il Libro matura come una goccia d’acqua nel moto imprevedibile delle correnti».
Queste metafore d’acqua erano state precedute da altre, di segno opposto, che lasciavano presagire il divampare di un incendio: «I libri veri non sono forse – come conviene alle voci dei saggi che possono ardere solo nel silenzio attento dei cuori – brace che cova sotto la cenere delle parole».
C’è sempre dunque un’attesa che dalla figura del Messia si trasferisce, contagiandolo, al Libro. Questa attesa fa apparire la scrittura come qualcosa che sta oltre gli abituali confini, come una presenza a venire: «Il libro è oltre lui. Oggetto lontano e inspiegabile, si affida a sguardi sconosciuti».
L’apocrifo è una delle poche forme in cui si rende possibile scrivere il Libro. Per Ercolani, l’unica. Quale altra forma potrebbe configurarsi almeno come indizio di quel Libro, richiamarlo ironicamente, anticiparlo per allusivo, metonimico legame? Solo l’apocrifo, infatti, può vantare utopiche qualità, è scrittura segreta, eretica, e in un certo senso impossibile, attuando, nella finzione, ciò che la storia ha eluso o cancellato, aprendo un varco nello spazio e nel tempo, ponendo le premesse del compiersi di un’attesa. Si legge: «Ogni testo apocrifo è scritto nel mese dopo l’ultimo».
Il continuo, ossessivo ricorso all’apocrifo chiama in causa anche un altro, recente libro di Ercolani, Carte false (Milano, Hestia, 1999), per non parlare di buona parte della sua precedente produzione. Le parole, lo si è visto, non possono dire tutto. Sono solo ombre, presenze smarrite e spaventate, figure inquiete, fuggitive. Questa prospettiva crea l’attesa, l’attesa del Libro. Ma si ha la sensazione che l’opposta eventualità sia, per Ercolani, non meno temibile. Se le parole possono dire tutto di noi, tracciare fino in fondo il nostro profilo, un ritratto, che come quello di Dorian Gray, assorbe la nostra anima, allora esse hanno il potere di pietrificarci, di consegnare un’immagine completa e incancellabile di noi, e lo scrittore non è nient’altro che la sua stessa opera, una pila di carta. Le parole stesse appaiono prigioniere di questa sorte, corpi sonori inchiodati al loro significato: «Anche i pensieri, le parole, le lettere sacre, sono prigioniere. Dovrei prima liberarle e poi metterle in ordine», si legge ne Il mese dopo l’ultimo.
Di qui, ancora una volta, e questa volta in Carte false, la necessità dell’apocrifo. E insieme la scoperta che il rapporto dello scrittore con le parole non è molto diverso da quello di un pittore con i pennelli e le vernici, di un musicista con le cadenze e i controsoggetti. Un’immaginaria conversazione di Bacon, un taccuino di Charlotte Salomon, una lettera fantomatica di Nicolas De Staël, l’appunto mai scritto di Théodore Géricault, tutte le vite dettate, le pagine contraffatte di Ercolani non fanno che ribadire l’esigenza di ridare sangue e respiro a tutti quegli artisti, a quegli scrittori, di impedire che l’opera che ci hanno lasciato sia davvero finita. Quell’opera non poteva dire tutto, un’appendice apocrifa ora è qui a confermarlo, a ripeterci che nessuna parola ci esaurisce, che altre pagine a quelle pagine seguiranno. L’utopia di Ercolani è qui rivolta al passato più che all’attesa, il sogno è questa volta quello di liberare quei volti e quei destini dalla Kolyma di cui sono prigionieri.
Diceva Borges che il paradosso dell’esistenza sta in questo: da un lato la vita ci sembra assurda perché siamo condannati a morire, e questo limite trasforma gli anni in un soffio, il nostro destino nell’inganno di una parentesi; dall’altro, se anche, per qualche sortilegio, ci venisse concessa l’immortalità, la vita non cesserebbe di essere un incubo, e ogni azione, ogni nostra vicenda, perderebbe, diluita in un tempo infinito, significato. Ciò nonostante gli uomini vivono, amano, si riproducono.
Il mese dopo l’ultimo e Carte false svelano, alla luce di quanto detto, la loro natura complementare. Le parole non ci contengono, e ciò ci spinge a cercare un altro libro, a scrivere un Messia, un Libro apocrifo; ma se anche potessero farlo, e dire tutto il dicibile, questo renderebbe ancor più drammaticamente necessaria la falsificazione delle carte, l’invenzione di un destino diverso, una scrittura eterodossa e clandestina, fittizia e quindi scandalosamente vera. Forse il merito dei libri di Ercolani è quello di ricordarci quale senso può ancora avere, oggi, la letteratura.
Il Libro è, nella costellazione romantica, un altro nome di Utopia. Se ne può parlare proprio in quanto irrealizzabile, è il luogo dell’Assoluto proprio perché non può essere scritto. È il più bello, il più profondo, il più grande proprio perché, come l’isola non trovata, nessuno potrà mai leggerlo. Il Libro è il libro dopo l’ultimo. Che senso ha parlarne, scriverne? Quale segreto nasconde, se nasconde un segreto?
È una specie di orizzonte: intangibile, inavvicinabile, quella linea che scorre tra il deserto e il cielo dice il limite del nostro sguardo, misura il raggio di apertura del visibile. Il Libro tuttavia non ci comunica soltanto un’impossibilità (toccare l’orizzonte), ma anche, ancora più importante, la possibilità di un’opera totale e salvifica, alla quale è affidato il riscatto di ogni precedente scrittura, il luogo dove la letteratura, come la nostra vita del resto, può trovare un senso. Quello che il Libro ci dice è un’idea di letteratura come impegno assoluto, totalizzante, come esperienza in cui le possibilità e potenzialità umane giungono a compimento. Il Libro, come il Messia, promette il totale rovesciamento della nostra condizione, la metamorfosi dei nostri destini, la meta del nostro peregrinare.
Il Libro non deve far pensare a qualcosa di gigantesco o di interminabile. Esso preferisce dimensioni più piccole, quasi impercettibili. Si nasconde in un francobollo, sopra una busta spiegazzata; è fatto di un solo foglio, di un frammento, di un pezzo strappato di pagina. Ha la forma di un nome, di una sillaba, di un segno di interpunzione. È un dettaglio che a prima vista ti sfugge, la luce opaca di uno spicchio di luna quando il giorno è già fatto.
La letteratura non va confusa con la vita, il piano dell’arte non coincide con quello dell’esistenza. Eppure il Libro nasce dall’impossibilità, davanti a un volto, di non pensare ai caratteri grafici sul foglio, e al cospetto di una pagina di non ricordare, di non immaginare l’intensità di uno sguardo, il delicato ventaglio delle ciglia, la lucida superficie di una fronte.
A questa dimensione fa quasi da contrappunto, ne Il mese dopo l’ultimo, il velo di una poetica: comporre per sottrazione, scrivere imponendo silenzio alla voce dell’io. L’utopia del Libro ne richiama un’altra, a essa complementare: quella di una scrittura anonima, che non porti incisi i segni dell’identità di un autore: «Il sogno di una scrittura anonima. il passaggio del vento, che feconda e va lontano». E nella pagina seguente questo sogno si rinnova: «Scrivere un’opera che resti anonima e mitica è una gioia che, in questo secolo, non ci è più consentito provare».
Sogno folle, nichilistica vocazione, desiderio di una dissolvenza, ultima e definitiva, del soggetto. Eppure il sogno di un’opera incommensurabile come quella del Libro non può, inevitabilmente, che accompagnarsi al progetto di cancellazione, di negazione di sé. Tra questi due fenomeni si stabilisce un legame profondo. È quanto aveva già compreso Simone Weil, quando asseriva che la vera, grande creazione, esattamente come la creazione del mondo, è un ritrarsi, un rimpicciolirsi, è un divenire senza volto e senza nome. Forse solo quando tale risultato potrà dirsi conseguito sarà possibile sfogliare le pagine incorruttibili del Libro.
Sorge il sospetto che la forma del Libro non sia quella di un poema né di un romanzo, non sia il frammento né il racconto, non sia la profezia, il trattato, la visione, ma il dialogo. Le notti del Messia sono occupate dal dialogo di Hermann e Kris. Ma si tratta di un’osservazione troppo superficiale. In realtà tutta la scrittura di Ercolani è una scrittura del dialogo. Anche la più muta delle solitudini è per lui una forma di colloquio, l’intersecarsi di voci e di sguardi, il raddoppiarsi e capovolgersi di frasi e di destini: «Pur vivendo solo metto sempre una sedia davanti a me, a mezzanotte, davanti alla scrivania, e lascio i fogli su cui ho appena scritto ben in evidenza». Qualcuno potrà leggere quei fogli, potrà correggerli, riscriverli. Potrà far risuonare la sua voce accanto, o contro, al mormorio delle parole nella pagina. Potrà cancellare quelle righe, modificarne il significato, accelerarne il ritmo o fermarne il battito, per sempre. Ma resta il fatto che per Ercolani la creazione non è mai ex nihilo; piuttosto è un compito da assolvere interrogando vite e libri, lasciandosi invadere da voci e racconti. La natura apocrifa dei suoi scritti ne è la migliore conferma. E ingloba altri aspetti della sua scrittura: la dimensione fantastica, l’anonimo: «Dall’io quasi assente del racconto di tipo fantastico all’io apocrifo che, esistendo, rende assente l’io del quale diventa attore. Coinvolto nell’identificazione con il suo doppio immaginato, l’autore sparisce come fumo dal testo su cui lascia la sua falsa firma».
L’eresia di queste pagine non può sottrarsi, infine, al dialogo – incessante e a volte disperato – con le vicende e i libri di tutti coloro che, come Schulz, sembrano avere compiuto un percorso estremo e nel contempo aver subìto un ingiusto trattamento dalla sorte. L’idea di un riscatto postumo è l’ultima forma che il dialogo prende in Ercolani.
Il mese dopo l’ultimo è un libro in gran parte composto da sogni. Uno di questi è il sogno di una scrittura che ritorni alle sue origini, al tempo che precede la comparsa dell’alfabeto fonetico, quando gli uomini tracciavano segni che assomigliavano a stelle, fiumi, palme, animali, quando con pochi tratti di uno stilo sapevano catturare l’eco di una notte, la fatica di un viaggio, la danza cruenta della caccia. Se la scrittura, come ha ricordato Paul Zumthor, trova una sua probabile origine nel desiderio dell’uomo di dare una rappresentazione sintetica dello spazio, in altre parole è, in origine, una cartografia del mondo, a questa meta essa deve incominciare, di nuovo, secondo Ercolani, a tendere. Il Libro forse è anche questo: una pagina topografica. Ma non si tratta di un compito facile, come potrebbe sembrare, perché ogni luogo, sia esso pietra o nuvola, si è nel frattempo arricchito di una nuova dimensione, si è ricoperto della sabbia dei giorni e delle notti, dell’incommensurabile profondità del tempo, della lettura e dell’interpretazione di infiniti sguardi, compresi quelli degli scrittori. Le pagine dovrebbero allora diventare rappresentazioni cronografiche, per così dire, delle cose. La conseguenza inevitabile è che l’alfabeto di cui questa scrittura è fatta è, lo dice Ercolani stesso, un alfabeto mai visto, un alfabeto fatto di segni sghembi, di cifre e figure, un alfabeto che si circonda di silenzio: «Tutti guardavano Issur sapendo che lui solo avrebbe trovato il significato di quelle iscrizioni e, dopo, avrebbe pronunciato la frase magica, con cui la porta si sarebbe aperta. Guardò attentamente davanti a sé, consapevole della loro attesa, comprese le cifre dell’alfabeto e i significati delle figure; notò sette segni che si ripetevano, sette rami che si dipartivano dal centro, poi due figure umane, ma tutto accadde in un lampo: non capì più nulla di quella lingua e tacque».
Ritrovare la chiave di quel linguaggio, riuscire a chiudere l’universo in una pagina. Il sogno, l’attesa, il riscatto. La lingua di Ercolani batte sempre qui. L’ossessione, il compito inderogabile. Basta girare ancora pagina, appunto, per vedere quello che c’è sotto: «La scrittura è il sogno di un prigioniero a vita: il minimo, in questo mondo atroce. Una parola che spacca le labbra, se non la pronunciamo» .
Ciò che lega l’apocrifo al racconto fantastico: pensare che il testo che si sta scrivendo non sia opera propria, ma di un altro, come se lì si profilasse l’ombra di un altro autore. L’effetto che ne deriva è davvero perturbante, perché le parole non hanno più radici, come ninfee galleggiano sulla superficie dell’acqua, sono dei riflessi, macchie di luce e di colore, ombre che si assiepano sullo sfondo. La frase di Ercolani ha dunque una natura fantasmatica: il suo universo, come il suo stile, ha qualcosa di diafano e di spettrale, è un trascorrere di opacità e di luminescenza. Ne consegue che le sue parole sembrano trovarsi a loro agio sotto qualsiasi cielo, in qualunque tempo, a Drohobycz nel 1942, a Pietroburgo negli anni Venti, nella Parigi del XIX secolo, a Trieste, a Vienna, a Varsavia, a Baltimora. È sempre un’ombra che parla, un personaggio che è soltanto un nome – e che quel nome, domani perderà – un grafema, un destino sgranato in frammenti, in segmenti di parole.
A volte un post-scriptum può rivelare molte cose. Scrivendo all’amico Plesniewicz, dopo la sua firma, Schulz annota: «Ti mando la Dodicesima notte. Non è un finale, lo so, ma non riesco ad andare oltre. Cosa devo fare?». L’inquietudine che si avverte in ogni pagina, la paura che il testo scritto raggeli, imbozzoli le cose, la possibilità di immaginare un’altra scrittura e un’altra forma stanno tutte racchiuse in quell’oltre. L’oltre è una via di fuga, un’attesa; è ciò che conferisce energia e vita al testo, che ne fa un corpo che si muove e respira, sfugge e si trasforma. L’oltre dice di una scrittura che non si chiude, non indossa mai una divisa canonica e immutabile. È una scrittura che cerca la vita, che accetta un destino nomade e passeggero, non la marmorea intangibilità della morte. Il finale del libro è il riconoscimento dell’incapacità e del desiderio di andare oltre; il sogno del Libro è destinato a restare tale. La pagina scritta è dunque un limite, è la conseguenza di un ritrarsi, del tornare al punto da cui la scrittura ha inizio. E allora le linee sul foglio sono altrettante linee di confine, argini, sponde, contorni di figure.
Il libro che hai scritto è sempre il risultato di un percorso. Può alludere a un oltre, ma non raggiungerlo, è nato proprio a causa di questa impossibilità e dunque per sognare quel superamento, quell’uscire fuori e follemente muoversi. Di questo sogno cerchiamo le tracce nella scrittura.
Nota
Le citazioni sono tratte da Marco Ercolani, Il mese dopo l’ultimo, Genova, Graphos, 1999. Il testo è ora pubblicato in Vocazioni (I libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure 2017).