Dai diari di Unica Zurn, morta suicida nel 1970, dove la pittrice evoca il suo amore per “l’uomo del gelsomino”, come lei soprannominava affettuosamente Henri Michaux.








Parigi, 1969.
Michaux, Michaux, mio adorato, mio uomo del gelsomino, questo anno di sangue meraviglioso il gelsomino, sono caduta dalla finestra, vedi, gocce di sangue ovunque, un cane mi lecca le cosce, si avvicina, è nero, è grande, vorrebbe fare l’amore con me, ma io sono viva, non voglio lui, io voglio te, tutto mi spaventa e mi affascina se ti penso, come quando aspetti un bambino, te lo porti dentro e non sai come sarà la tua vita dopo, ieri ho sognato che accadeva così, cadevo dalla finestra ed ero viva, non partorivo ma ero in ospedale, le visioni mi tormentano, vieni a trovarmi, mio uomo del fiore, ti prego, vieni a trovarmi, ho grandi disegni da mostrarti, sono molto, molto sessuali, ti ecciteranno, in uno ci sei tu dentro di me, mi inondi, mentre la tua bocca cola saliva sui miei occhi, mi acceca, è bellissimo, sento tutti i tuoi succhi, sperma saliva sudore, ti vorrei nuotare dentro, ogni volta che ti vedo vorrei nuotarti dentro e non uscirne più, non ho mai desiderato nessuno con tanta violenza e disperazione, nulla, non c’è nulla di più bello al mondo che te, guàrdami, guàrdami, mio uomo del fiore, del gelsomino bianco che vorrei arrossare, arrossare ancora, non guardarmi con quegli occhi freddi, non sono un insetto disegnato sul taccuino, guardami veramente, sono Unica…
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Leggo e rileggo la tua lettera, Henri:
«Destino beffardo essere Unica. Io non lo sono mai io, ad esempio. Molteplice, sempre, quello sì. Dove sono non mi trovi. Dove mi trovi non sono. Riuscirò a venire solo domani, adesso mi è impossibile. Sto ultimando un testo in cui descrivo questa denervazione del mondo, questo collasso delle cose. Devo sperimentare la mescalina. Proprio oggi. Non ho tempo per l’altro fuori di me. Io voglio l’altro dentro di me. Un io che si curva su di sé e descrive i suoi vibrioni impazziti. Chiama il medico di turno, se stai male. Spiegagli i tuoi dolori. Ci sono medici attenti, a volte salvano la vita. Io non verrò, oggi. Credo domani. Ma non è importante. Il testo mi chiama: o lo finisco o ne va della mia vita. Vorrei che me lo illustrassi tu, quando starai meglio. Sei la più adatta a farlo. Ricordi? Ti avevo portato in ospedale un quaderno e la matita. Ti avevo anche scritto due frasi nella prima pagina: “Quaderno dalle bianche distese intonse / Lago in cui i disperati, meglio che gli altri / possono nuotare in silenzio / adagiarsi in disparte e rivivere”. Adagiarsi e rivivere. Occorre calma, Unica.
A domani, Henri».
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Leggo e rileggo gli appunti che ti ho rubato dalla tasca, Henri, quando sei venuto a trovarmi:
«Osservo attentamente il processo della sua malattia, dottore. Unica Zurn sta male. La sua schizofrenia le spezza letteralmente il senso di sé. Sanguina in modo indecente, come tutti i matti. Bisogna che le stia lontano. Il dolore è contagioso, come un germe. Sto scrivendo un testo sulla follia. Se sarà letto bene, spiegherà come i folli devono imparare a esserlo non perdendo lucidità. Ma posso parlare con Unica di questo? Tutta la sua furia la porterà solo a una maggiore polverizzazione di sé. Sentirà voci ovunque, come se il suo disco interno si fosse spezzato e frammenti di suoni vagassero nell’aria, pieni di lei. Io non devo permettermi queste vanitose catastrofi. Posso solo spiegare agli esseri umani come sarebbe meglio se fossero giunchi, sassi, elastici, pietre, e non stupide coscienze, inette razionalità, progetti semidivini. Tutti i libri che ho scritto e che scriverò non saranno sufficienti a dire l’ottusa bestemmia che è l’uomo. Mi tengo caro questo respiro postumo, dottor Malet: arriva sempre un attimo dopo».
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Oh Henri, Henri. Ragionevole bastardo. Intelligente, insolente insetto. Sfracellarmi dalla finestra piuttosto che reincontrarti. Gli anagrammi sono finiti. I rebus insolubili. I gelsomini galleggiano nell’acqua torbida. Perché? Perché essere Unica?
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Unica Zürn nasce Berlino, nella zona di Grünewald, nel 1916. É stata drammaturga prima della fine della guerra, scrittrice e disegnatrice poi. Dal 1953 vive a Parigi con il compagno Hans Bellmer, che fece parte dell’avanguardia surrealista. Conosce Man Ray, Max Ernst, Marcel Duchamp, André Breton. È attratta dal disegno automatico e dal la scrittura automatica. Scrive L’uomo nel gelsomino. Con Henri Michaux (ovvero “l’uomo nel gelsomino”) sperimenta gli allucinogeni, la mescalina in particolare. Trascorre la fine della propria vita in una clinica psichiatrica prima di suicidarsi nel 1970, gettandosi dalla finestra dell’appartamento che condivideva a Parigi con un paralizzato Bellmer. L’uomo nel gelsomino è un racconto ma anche un’autobiografia esplorata per visioni, in cui l’autrice descrive l’iniziare e il procedere della propria malattia mentale così come lei stessa la percepisce. Il centro del racconto è la visione di un uomo nell’albero di gelsomino che le appare per la prima volta quando aveva sei anni: un immagine consolatrice, con la quale “si sposa”. L’incontro, anni dopo, con lo stesso identico uomo, ma questa volta in carne ed ossa, Henri Michaux, le farà perdere progressivamente la ragione.