PER FERNANDO NANNETTI. Melani, Lippi. Ercolani

Ritorno a Volterra*

Son tornata a Volterra per Nannetti. Molti cari matti mi son stati e stanno tra i piedi, ma lui, con Costanza e pochi altri, anche nella testa e nel cuore. Era stata infatti esposta una sezione del suo strabiliante graffito, strappata e salvata da morte certa grazie all’intervento della Regione, del Comune, della Soprintendenza e della onlus volterrana Inclusione, graffio e parola, associazione a cui sta a cuore quest’opera e il suo destino. Appariva bella e malinconica, enigmatica come una Madonna di Piero, la Panchina dei catatonici a cui Mino Trafeli, come un innamorato (fu lui a scoprire il talento di Nannetti), s’avvicinava commosso sintonizzando le luci dei riflettori in quell’anfratto sotterraneo, la Cantina della Pinacoteca di Volterra. Ecco dunque le pagine: la scrittura, i disegni e i segni che scontornano le sagome dei catatonici che in quel rigoglioso giardino del reparto più triste dell’area ospedaliera psichiatrica, il Ferri appunto, si prendevano il regalo di un po’ d’aria e di solicchio, immobilizzati dalla malattia nelle loro assurde posizioni, quasi per sortilegio. Bella perché risanata e ben chiara, malinconica perché separata e spaesata, sembrava una reliquia in una sua umana sacralità.

E son tornata al Ferri. Un salto indietro nei paesaggi da incubo della memoria, non solo infantile: boschi inselvatichiti dall’incuria, rumori e voci che al nostro passaggio s’azzittivano, sterpi, edifici abbandonati e reparti con alte bifore come castelli, stralunati come enormi creature arenate… Non credo che mai vi sarei tornata, non fosse stato per Angelo Lippi che amabilmente ci accompagnava, carismatico narratore, nella lettura delle pagine dei muri di Nof.

È stato detto e fatto molto per Nannetti, ma poco è stato possibile fare per salvare il suo capolavoro. Missione impossibile fin dall’inizio ma soprattutto ora che l’edificio è così degradato e il tempo sbriciola e lascia cadere in rena salnitra i suoi muri. E a terra, fra vetri e erbe e tegoli e altro, ecco brandelli di parole, disegni e numeri ncisi dal navigatore astrale: il poco intero se avvistato e raccolto si sfa fra le dita ome il sogno di una notte. È polvere che si sfarina all’aria il suo enorme graffito o al minimo tocco. Notiamo dei ritagli, porzioni rubate dai soliti ignoti e come abbian fatto non si sa, ci s’immagina, certo. Tutto è alla mano di tutti, vero, ma non capiamo se non come miserabile grettezza feticista tale appropriazione: essere lì è come esser davanti a un corpo in naturale decomposizione, vi si respira un’aria pesante come rattrappita, intessuta dai tanti dolori e tormenti di una massa d’uomini e donne che sembrano ansimare ancora fra mura e erbe come presenza obliqua. Impossibile pensare ad una mutilazione se non per offesa sacrilega.

Il salvataggio di quella parte di muro – oltre a esser testimonianza artistica e storica – ha anche questo antico valore di umile ma spropositata grandezza: è un omaggio al mistero dell’arte e della mente umana che non ha bisogno che di sé e della sua propria ricchezza per avventurarsi e donarsi suscitando stupori e commozioni impensabili e irripetibili.

Simonetta Melani

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NOF4*

Si chiamava Nannetti Fernando ma si era aggiunto un Oreste intermedio per onorare la sua idea d’importanza e poter avere l’acronimo NOF a cui aveva aggiunto il n. 4, come quarto ingegnere minerario… ma anche per siglare le Nazioni Orientali Francesi e per contare i luoghi in cui era stato ricoverato.

Nato a Roma nel 1927 da madre nubile e non abbiente aveva percorso tutta la sua carriera di disagio cominciando da istituti assistenziali e poi strutture per minorati e poi sanatorio in cui curare la sua spondilite anchilosante che gli procurava ascessi frequenti e molto dolorosi.

Dopo aver concluso le scuole elementari e curato la sua malattia, divenne apprendista elettricista: forse fu questo nuovo mondo che gli stimolò la creatività e l’ammirazione per i misteri della scienza e dell’astronautica. Durante il suo apprendistato conobbe Aldo Trafeli che lavorava al palazzo EUR per la messa in opera di un mosaico e che poi divenne un infermiere psichiatrico, il suo infermiere, quello che cercava di capire il lavoro che svolgeva incidendo i muri del cortile del reparto Ferri a Volterra. Nel 1956 Nannetti ebbe un diverbio con dei carabinieri e per le sue risposte incongruenti venne ricoverato al manicomio di Santa Maria della Pietà in Roma e accusato di resistenza e violenza. Riconosciuto incapace d’intendere e di volere venne prosciolto ed inviato nel 1959 al Reparto giudiziario dell’Ospedale psichiatrico di Volterra. La misura di sicurezza gli venne tolta due anni dopo e rimase all’ospedale psichiatrico civile. Le cartelle cliniche sono incomplete e frammentate ed anche i ricordi degli infermieri che lo hanno conosciuto (a parte Aldo Trafeli, purtroppo deceduto) sono abbastanza appannati. Di fatto si sa che Nannetti, armato di fibbie del panciotto suo o dei compagni di ricovero, svolgeva il suo lavoro di graffitomane. Occorrono tre note per capire meglio: il panciotto era parte della ordinaria divisa del ricoverato; le fibbie erano uno strumento delicato, seppur di metallo, per incidere un graffito profondo 2/3 millimetri e consumandosi facilmente era necessario rifornirsene rubandole ai compagni meno capaci di difendere questa proprietà utile per costruire un acciarino capace di trarre scintille strusciando su un bottone da cappotto fatto ruotare vorticosamente con un cordino legato a cerchio e fatto girare dopo averlo arrotolato (questo del bottone che gira è anche un vecchio gioco da bambini in tempi poveri); si adopera la parola lavoro, perché questo era il vero impegno di Nannetti, svolto con una passione inaudita (salendo sulle panchine ed anche addosso ai catatonici che vi stazionavano immobili per giornate intere). In Nannetti (In/Folio Collection de l’Art Brut, Lausanne, 2011, a cura di Lucienne Peiry) si apprezza un graffito di oltre m 70 x 1,20 nel cortile del reparto Giudiziario Ferri, ma in altri testi e documenti si trova la misura di m 180 x 2 probabilmente riferita all’intero perimetro del cortile graffito da Nannetti, che in alcune parti è ricoperto da intonaco o senza l’incisione dell’artista; il passamano di una scala di cemento lunga 106 metri per 22 cm. (ora scomparsa) ed alcuni graffiti molto interessanti perché di dimensioni più piccole e diverse, incisi al reparto Charcot sul lato nord est e ad ovest davanti alla Sala degli Aranci. Di fronte al muro, che vede come una tela vergine, il Nannetti scontorna una o più pagine di diverse dimensioni e poi si mette a riempirle di dati, pensieri, deliri. Quel muro nato per dividere, per separare le persone dal mondo, diventa il suo mezzo di comunicazione, il suo libro di pietra, la prova della sua esistenza artistica sottoposta all’imperativo di graffire la vita, graffire per esistere. Di fronte al muro vede uno scenario su cui proiettare un’interiorità dilatata da visioni magiche e sacrali sue e appartenenti al vissuto collettivo: missili, antenne e sistemi telepatici, personaggi della sua vita e del mondo, il papa Bonifacio, la regina Elisabetta, se stesso, e spesso son tutti accomunati da caratteristiche somatiche come “moro, secco, spinaceo, bocca stretta, naso a ipsilon”. Insomma il suo mondo ci viene imposto, come suo io relazionale e come creatività poetica al di sopra delle regole manicomiali che vieterebbero di deteriorare la proprietà dell’istituzione e imporrebbero di parlare con il linguaggio di tutti. Il suo danno alla proprietà era tollerato perché “non creava problemi, anche se ogni tanto il direttore imponeva di intonacare qualche parte del muro”, raccontava Aldo Trafeli.

Passata l’esperienza del graffito il nostro artista ha lasciato circa 1.600 disegni di dimensioni A4 e oltre, impressi con molta forza con una penna biro, usando spesso il metodo del fronte retro. Dei disegni abbiamo le fotocopie miracolosamente salvate dal personale dell’ufficio tecnico del vecchio manicomio, personale a cui si deve la raccolta di materiali e la documentazione di moltissimi eventi e consuetudini istituzionali. Infine viene testimoniata la presenza di tre sacchi da immondizia per condominio pieni di foglietti: in genere pacchetti di sigarette morbide regolarmente aperti, scritti e disegnati. Gli originali dei disegni – che teoricamente, come proprietà private dei degenti senza familiari, venivano buttate all’atto della morte – oggi cominciano a ricomparire in vendita, mentre dei contenuti dei sacchi si sa che sono stati gettati. Auguriamoci che anche questi ricompaiano e che si possano acquisire come bene pubblico. Si deve sottolineare che nel suo percorso espressivo Nannetti ha modificato la sua forma comunicativa partendo da un linguaggio leggibile per arrivare ad una comunicazione non legata a simboli convenzionali, ma significativa in sé come espressione artistica. La sua cartella clinica: nato a Roma nel 1927 e lì residente, arrivò a Volterra nel 1959. Diagnosi “sindrome dissociativa”. Vengono riferiti episodi di pantoclastia, aggressività, deliri ed allucinazioni uditive. Nel 1961 è definitivamente associato al manicomio di Volterra: il decreto viene revocato nel 1974 dal Tribunale di Pisa per cessate condizioni di pericolosità. Il suo ricovero diviene ricovero volontario e finalmente è libero. Esce dal reparto da solo, “sconsegnato” per la prima volta dopo 12 anni e riporta pensieri che “è difficile riferire in cartella”: aveva vissuto il viaggio al bar del borgo come un’esperienza fantastica troppo a lungo desiderata. Intanto nel 1973 è trasferito al reparto Bianchi, gestito dall’IPAB Santa Chiara, reparto per “mentecatti cronici tranquilli”, dove può godere di una certa libertà. Qui si descrivono “condizioni buone, blefarocongiuntivite” alimentata certamente dalla polvere dell’intonaco che all’inizio del ricovero usava come terapia. Pochi mesi dopo si dice che è “incoerente, fatuo… si esprime in modo monotono, come fosse un robot, con manierismi e neologismi… non si riesce a comprendere cosa dice per la notevole dissociazione ideativa, però risponde a tono in modo comprensivo e coerente (???). Si perde in fraseggi con idee deliranti a sfondo persecutorio”. E ancora si legge: “comportamento sempre corretto, solo rari comportamenti reattivi o impulsivi. Col tempo è andato facendosi docile: di umore tendenzialmente depresso. Gli affetti per i familiari appaiono inariditi e torpidi” (e questo non è coerente con le molte cartoline postali che Nannetti negli anni ha scritto ai suoi parenti e che non sono state mai spedite). 1978: da dimesso ama uscire per andare al bar del “centro sociale, preciso e azzimato”, dove si comporta correttamente. In quell’anno torna dalla “vacanza al mare molto soddisfatto”! Muore nel 1994 a 67 anni ed è sepolto nel cimitero urba no in una tomba dignitosa. Le sue opere sono esaltate in molti testi, video, musiche, film, opere teatrali, e molte testimonianze sono conservate in case private. È tutto da riunire, catalogare e rendere disponibile in modo vivo multimediale in un sito a lui dedicato e tutto da creare, in un contesto museale attivo e sofferto, in omaggio a questo artista unico che scriveva nel muro: “Per sistema telepatico mi sono arrivate cose che paiono strane ma sono vere. Io sono un Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale. Questa è la mia Chiave Mineraria. Sono anche un Colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre… Sono materialista e spiritualista amo il mio essere materiale come me stesso perché sono alto ed amabbile del mio spirito”.

Angelo Lippi

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Impaginare i muri***

Nannetaicus Meccanicus Santo con cellula fotoelettrica.

Nannetti Fernando: sei un asino!

Sono materie viventi le immagini.

Le immagini hanno una temperatura e muoiono anche due volte.

Sono materialista e spiritualista, amo il mio essere materiale come me stesso, perché sono alto.
Oreste Ferdinando Nannetti

Gillo Dorfles, nel suo saggio su Filippo Bentivegna, citava un certo Ferdinando Oreste Nannetti. La storia è ormai nota. Sulle mura interne del padiglione Ferri del manicomio di Volterra un alienato, negli anni cinquanta-sessanta del Novecento, scrive interminabilmente i suoi appunti personali, usando la fibbia metallica di un vecchio panciotto: il suo nome è Ferdinando Oreste Nannetti (1927-1994). Nannetti usa i muri interni dell’istituto di segregazione, il Padiglione Ferri, come le pagine di un grande murales di pietra dove, in mezzo all’indifferenza delle autorità psichiatriche e degli alienati stessi, si descrive chiuso nella sua “cassa di salute”, si definisce ingegnere astronautico e minerario, abitante di un mondo dove luce e suono hanno la stessa lunghezza d’onda, dove la terra è ferma e gli astri girano. Taciturno, impagina i muri del cortile e poi scrive dentro quelle pagine di pietra. Descrive i fantasmi “formidabili alla seconda apparizione”, afferma che “le ombre sono vive e che l’uomo invisibile è armato e vivo, con ossa, occhio, spirito” e che “le immagini hanno una temperatura, sono materia vivente, poi muoiono”. Si sente uno scienziato che con scrupolosa precisione traccia il grafico della mortalità ospedaliera, che lui pensa determinata spesso dai rancori umani. Ostinato e non violento, innocente e osceno nella rappresentazione pubblica di se stesso, Nannetti impagina il libro di pietra delle sue allucinazioni, autonominandosi Imperatore di Inghilterra e di Francia, e descrivendo una leggendaria automitobiografia. Mentre scrive sulle pagine che ricava nei muri, rispetta i corpi dei catatonici che poggiano la schiena su quegli stessi muri: scrive sopra le loro teste, non disturbandoli ma neppure fermando mai la sua scrittura, ossessionato dalle scoperte di una scienza che lo porterà anche a prevedere, nel suo delirio, lo sbarco sulla luna dell’uomo. Questa scrittura ‘interminabile’ si conclude con il trasferimento di Nannetti in altri luoghi più anonimi di reclusione. Del suo grande libro di pietra, progressivamente disgregato per effetto del tempo e dei vandalismi, esistono dei calchi, presenti nel Museo di Art Brut di Losanna. Riportiamo qui alcune delle iscrizioni deliranti e immaginose scavate con la sua fibbia sul muro del manicomio:

«È notte, è notte…

Notte Nabucco

Ottone: orecchio sinistro

Nichelio: orecchio destro

Sono in collegamento

Va’ pensiero sulle ali dorate, va’, ti possa sui clivi, sui colli

Stazione aeroporte lancio Neuropsichiatrico

Il 15 d’ottobre tentato avvicinamento

Luna discesa ore 2

Tirreno coordinate mare

Si può…Si può… Si può volare…Si può volare…

La terra trema.

Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo.

1 luna nata nel 1700 distrutta nel 1770

2 luna nata verso il 1899

3 e 4 lune nate vecchie

Nord. Sud. Est. Ovest.

Volanti pianeti si muovono attratti l’uno dall’altro.

Per attrazione magnetica sono riforniti di materie prime, luce e aria

costantemente.

Aurora Alba

Piede Veloce

Occhio di lince

Nuvola Alba

Nuvola Cavalloni

Le nuvole si trasformano e diventano materia mediante la condensazione

di un corpo solido.

Come un corpo nell’acqua mandano le immagini.

Il parafulmine….

Scariche di nicotina delle sigarette.

Ospedale psichiatrico di Volterra.

Ore 12.15 del 25 ottobre.

Fede Federico

Pedina Piedone

Frana Franata

Ferri Ferruccio Ferroviere Fischietto.

Carrozza con cocchiere. Nocchiere

Penna rossa e Penna bianca.

Como comodino catodici comma commenda commendatore comune

colonia coloniali cefalo cavaliere

Grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera.

10% deceduti per percosse magnetico catodiche

40% per malattie trasmesse

50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi

Le zanzare…

Nannetti Fernando che sale in elicottero.

Cessa di esistere…alle undici del … del… del…

L’origine del essere umano risale al 1600.

La donna fu creata prima dell’uomo poi nacque il doppio sesso.

Vecchi, brutti, giovani, belli…

I figli vengono con sia maschile che femminile.

La verginità si spiega mediante la fuoriuscita del neonato

Croce di mia madre.

Eva. Vipera. Il melo, l’albero

Desospedalizzare.

Fuga da Volterra

I fantasmi sono fulminabili dopo la loro seconda apparizione.

Stella perduta, stella nascente

Budda é vivente.

L’elettromagnetica isolante stratosferica.

Saturno con il suo cerchio.

Nebulosa sassosa antenna magnetica catodica.

Lancio di accostamento.

Fosforo elettronico.

Nannetti Fernando nobile moro spinacelo nato a Roma alto 1.93 bocca

stretta naso y.

I numi dell’olimpo aurifero, apparecchio per raccogliere i raggi magnetici,

Correnti emesse dal suono delle campane.

Stelle….

Molte stelle….

Stella pazza

Polare consorella

Catodico uovo con sorpresa, di cioccolata.

Venere e Giove.

Venere volante.

Come una farfalla libera canta

Tutto il mondo è mio e tutto fa sognare.

Per chi sona la campana?

Un giorno sonerà per me

Un altro giorno sonerà per te.

È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.

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Gustavo Giacosa, proprio a partire dal graffito in pietra di Nannetti e accompagnato dalla musica di Fausto Ferraiuolo, ha portato in scena al Teatro dell’Archivolto di Genova, il 26 e 27 gennaio 2017, ha organizzato uno spettacolo dal titolo Nannettolicus Meccanicus santo. Un suono di archi, creato digitalmente su una piccola tastiera, introduce al corpo di Giacosa, disteso su un tavolo corto come su un letto, che raschia e sfrega con la mano proprio il bordo. Un rumore tormentoso, un graffio disturbante, evoca la scrittura interminabile del delirante Fernando Oreste Nannetti: utilizzando la punta metallica della fibbia del suo gilet, Nannetti, schizofrenico degente dell’ospedale psichiatrico di Volterra, incide, nel Padiglione Ferri, un grande murales di pietra che dispiega 180 metri e 22 centimetri di lunghezza di onde radio, formule, simboli, cifre, numeri, metalli.

Giacosa, un finto naso rosso piantato in faccia,seduto immobile a un tavolo, indossa una veste da internato e intona le parole di Nannetti come il pazzo che finalmente può declamare a voce alta i suoi deliri costringendo al silenzio i sani. Giacosa-Nannetti sul palcoscenico parla e canta al microfono, cammina e balla, appare non solo vittima delle sue allucinazioni ma anche individuo che sa esprimere una prodigiosa, cosmica libertà, sospendendo il discorso del delirio tra sogno e realtà, fra scienza e immaginazione, da poeta. Giacosa non solo da’ voce alle scritte murali dell’Ospedale di Volterra ma le alterna a lettere che il recluso ha scritto a parenti immaginari, dai quali elemosina il dono di una visita e qualche quattrino per vivere. In questa prima parte dello spettacolo, intensamente drammatica, con i forti contrasti luce-ombra di sedia e tavolo proiettati sullo schermo, la follia viene esposta nella sua durezza allucinatoria e perturbante. La musica complice e persuasiva di Ferraiuolo, accompagna i movimenti dell’attore-ballerino-cantante Giacosa non come un basso continuo ma come uno strumento dolente, complesso, duttile. Il “Va’ pensiero” del Nabucco verdiano e la canzone Pino solitario, prediletta da Nannetti, vengono evocate come frammenti sonori dove si celano anche echi jazz e classici, come una Sonatina mozartiana. Ma, a circa metà spettacolo, batte la testa sul tavolo, spinge via tavolo e seggiola, si espone seminudo alla luce come fosse sdraiato su una metafisica spiaggia, indossa un vestito rosso femminile e comincia a ballare, irriverente e libero, in trance dionisiaca, snocciolando sarcastiche battute in uno stravagante divertimento giocoso. Farnetica su matematica, fisica, universo interstellare, sesso, amore, giocando con le parole con ritmi futuristi. I suoi canti sono inni alla libertà come quando intona il “Va pensiero” verdiano. E la sua voglia di libertà è quella che gli fa dire, all’inizio come alla fine, “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. Proprio con queste parole Nannetti-Giacosa si congeda dagli spettatori e si adagia sotto il grande schermo, come se dormisse. Le immagini, ora, proiettano Fernando-Oreste-Gustavo che rientra nel manicomio di Volterra, traversa il lungo corridoio, che poi diventa un viale alberato, e alla fine, nel suo femminile abito rosso, danza, ride freneticamente, con nello sfondo le sue stesse scritture murali, come proiettato verso un futuro migliore, lontano dal male. Scrive Nannetti:

«Prendono sembianze materiali le ombre….

Sono vive, sotto cosmo…

Così, il disegno le immagina.

Così, anche gli animali sognano….

Tutto il mondo è mio e tutto fa sognare…

Stelle della via lattea….

Stelle….

Le stelle si alzano e discendono nell’aria…

Quasi una marcia armata…»

Indimenticabile, nello spettacolo, la presenza di Fausto Ferraiuolo, alchimista del suono che modella la musica, fra impennate potenti e improvvise dolcezze, sui movimenti dell’attore e i chiaroscuri della scena. E commuove pensare che, grazie alla magia del teatro, torni a prendere vita un corpo che fu vivo nella sola scrittura ostinata del muro manicomiale:

Nel catalogo della mostra Noi, quelli della parola che sempre cammina, scrive Giacosa di Nannetti: «All’interno di un’architettura votata a una duplice valenza di sorveglianza e di guarigione, i cortili degli ospedali rappresentano il solo spazio dove è possibile, per i reclusi, esercitare un elementare cenno d’attività motoria e sociale… I corpi diventano muri ai quali solo una paziente opera di scalfittura concederà parole. Il corpo fantasticante di Nannetti s’arrampica come un’edera, moltiplicando i chilometri percorsi sul luogo, in un’opera che si estende in 180 metri di lunghezza e 2 metri circa d’altezza. In seguito, la sua scrittura ambulante andrà a ricoprire il passamano di cemento di una scala di 106 metri per 20 centimetri e a immaginare alcune migliaia di destinatari per cartoline che non saranno mai spedite. Nonostante il disperato bisogno comunicativo, la sua opera non conosce un’apertura verso l’esterno».

Questa apertura verso l’esterno è oggi, a oltre vent’anni dalla morte dello schizofrenico e recluso Fernando Oreste Nannetti, lo spettacolo Nannetti, colonnello astrale di Gustavo Giacosa, musicato da Fausto Ferraiuolo.

Marco Ercolani

*Da “Il Grande Vetro”, 109, maggio-giugno 2013.

**Da “Il Grande Vetro”, 109, maggio-giugno 2013.

***Da: Galassie parallele. Vie non maestre dell’arte contemporanea, Il Canneto editore, 2019.

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