DIARIO POSTUMO. Alice James, Henry James

*Le pagine firmate Alice James sono tratte da: Alice James, Diario, La Tartaruga, Milano 1986. La lettera di Henry James è apocrifa. I testi sono pubblicati in: Lucetta Frisa, Marco Ercolani, Furto d’anima. 42 lettere immaginarie tra uomini e donne nella storia e nell’arte, Greco & Greco editore, Milano 2018.

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Dal Journal di Alice James, 1890-1892

South Kensington Hotel, Londra, 12 settembre 1890

Non c’è stato niente da fare! Sabato 2 agosto ho toccato il fondo e ho dato a Henry una vera e propria scossa elettrica che dal suo Paradiso di Vallombrosa lo ha portato a segregarsi, senza fiatare, fra le mie squallide indigestioni. […]

Il dottor Baldwin, che sta a Firenze, ha passato un po’ di tempo da Henry – io non l’ho visto, ma quando sia Henry che Katharine gli hanno chiesto – «Potrebbe morire?» – gli hanno estorto la consolante risposta che “« a volte succede». E questa è la cosa più consolante per tutti, con l’unico inconveniente che probabilmente accadrà mentre dormo, così io non potrò essere uno degli spettatori: che imbroglio tremendo! Una creatura alla quale è stato negato qualsiasi evento drammatico dovrebbe avere il diritto, credo, di assistere alla propria scomparsa.

Io so che crollerò all’ultimo momento e che per rendere più completo il tutto si vedranno gli stracci e i brandelli della mia Vanità impegnata nella sua lotta insolente con l’Assoluto, mentre cala il sipario su quello scherzoso imbroglio chiamato Vita!

26 ottobre 1890

Nel suo articolo su L’io nascosto William usa una bellissima espressione quando dice che la vittima di una malattia nervosa «abbandona» certe parti della propria coscienza. Può darsi che questo sia il termine comunemente usato dai suoi colleghi, ma ad ogni modo è proprio quello giusto, sebbene sfortunatamente non sia mai stata capace di abbandonare la mia coscienza ed ottenere cinque minuti di riposo.

Ho attraversato una infinita successione di abbandoni coscienti e, guardandomi indietro, adesso comprendo come la cosa sia cominciata durante la mia fanciullezza sebbene non mi sia resa conto di questa necessità fino al 1867 o 1868, quando per la prima volta ebbi un crollo violento con gravi attacchi isterici. Mentre giacevo prostrata dopo la tempesta, con la mente lucida e sveglia e in grado di percepire le impressioni più nitide e forti, compresi molto chiaramente che non si trattava soltanto di una lotta fra il mio corpo e la mia volontà, una battaglia nella quale il primo avrebbe trionfato sino alla fine.

A causa di una certa debolezza fisica, di un eccesso di sensibilità nervosa, la forza morale ha, per così dire, un attimo di «indugio» e si rifiuta di mantenere in forza i muscoli, esauriti dal logorio delle loro funzioni di controllo. Quando sedevo immobile a leggere in biblioteca, ondate di impulsi violenti, invadendo improvvisamente i miei muscoli, prendevano una delle loro innumerevoli forme – come il gettarmi dalla finestra o colpire la testa dai riccioli argentei del mio benevolo papà seduto nel suo tavolo a scrivere -; allora mi sembrava che l’unica differenza fra me e il pazzo fosse che io non solo subivo tutti gli orrori e le sofferenze della pazzia, ma che mi venivano imposti anche i doveri del medico, dell’infermiera e la camicia di forza.

Immaginate che cosa significa non perdere mai la sensazione che, se ti lasci andare per un attimo, il tuo meccanismo andrà in pezzi e che ad un certo momento devi abbandonare tutto, lasciare che gli argini si rompano e la marea invada ogni cosa, riconoscendoti miserabilmente impotente davanti alle immutabili leggi. E quando tutti i propri strumenti morali e naturali consistono in un temperamento che ti impedisce anche il minimo abbandono o ti vieta di rilassare anche un solo muscolo, questa diviene una lotta senza fine.

Quando, tanto per cambiare, mi coglieva il desiderio di trascorrere un mattino a scuola per «studiare» le mie lezioni, invece di sottrarmi o contorcermi attraverso le più assurde sensazioni di agitazione, mi sentivo travolgere da una violenta ribellione nella testa, tanto da essere costretta ad «abbandonare» il cervello per così dire. E così è sempre stato: qualunque cosa riesca a fissarsi da sola nella mia mente è libera di farlo, ma una riflessione consapevole e continua è un esercizio impossibile, e proprio dietro agli occhi provo la sensazione che nella mia testa ci sia una fitta giungla nella quale nessun raggio di luce è mai penetrato. […]

5 giugno 1891

Come il cancro nella rosa, così la delusione si annida nel tumore! Avevo sempre creduto che sarei stata capace di riflettere sul mio tumore con perfetta tranquillità morale, quando oggi mi trovo a scoprire che questa maledetta cosa, come ogni banale e benintenzionato epilogo della vita, risveglia a possibili e insolite afflizioni poiché IO sono costretta a sopportarlo, cosicché mi sento più angosciata che mai dal dover decidere – mettendomi a confronto con tutte le altre vittime tumorali – a quale grado di sofferenza mi devo sottoporre prima di ricorrere all’anestetico pacificatore.

1 febbraio 1892

[…]Il successo o il fallimento di una vita, per quanto riguarda la posterità, sembra risiedere nella maggiore o minore abilità nel cogliere il momento più adatto per eclissarsi.

2 febbraio 1892

Questo lungo, lento morire è indubbiamente istruttivo, ma deludentemente privo di emozioni: é la «naturalezza» nella sua espressione più alta. Si abbandonano una dopo l’altra le varie attività e non ci si rende conto del fatto che sono sparite, finché improvvisamente si scopre che i mesi sono scivolati via e non ci si distenderà mai più sul divano, non si leggerà più il giornale del mattino né si rimpiangerà la perdita di un nuovo libro: credo si finisca per rivoltarsi con uguale soddisfazione all’interno del cerchio che si restringe, fino a raggiungere l’annullamento più completo.

4 marzo 1892

Vado frantumandomi lentamente sulla spietata macina del dolore fisico e per due volte, di notte, sono quasi arrivata a chiedere a Katharine la dose mortale, ma lungo percorsi così inconsueti si procede con esitazione, sopportando un dolore dopo l’altro; e io sono certa che non possa accadere nient’altro all’infuori del fatto che quel piccolo pulsare disorientato che mi manda avanti avrà ben presto il pudore di mettere fine alla sua folle corsa; comunque vada, per quanto grande possa essere il dolore fisico, esso si esaurisce in se stesso e scivola dalla mente come una buccia secca, mentre le dissonanze morali e gli orrori nervosi disseccano l’anima.

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Henry James a William James

Londra, 10 luglio 1892

Caro William,

leggendo e rileggendo il suo diario, ora che Alice è morta, mi sembra che qualcosa di terribile e di inevitabile ci sia capitato in sorte, e sia accaduto proprio qui, nel corpo di nostra sorella, senza che noi ci potessimo opporre in nessun modo. Come dice Alice: «Non c’è stato più niente da fare». Questo suo faccia a faccia, quasi postumo, con l’universo, e il modo, l’eloquenza, l’enigmatica tranquillità con cui lo esprime (frasi fredde, solenni e pacate), e l’umorismo quotidiano e trascendentale che le anima, non costituiscono per noi nessun forma di orgoglio ma al contrario aprono, nella nostra famiglia, un’oscura voragine. Dalla timida Alice come avremmo potuto aspettarci questo semidivino e fermissimo contatto con la morte?

«Questo lungo, lento morire, è indubbiamente istruttivo…». Parole del genere noi, nei nostri elaborati sistemi sintattici e filosofici, non le abbiamo mai pensate né enunciate: siamo sempre rimasti al di qua di questa soglia che, solo se osassimo traversarla, ridurrebbe in cenere tutte le nostre parole.

Alice, invece, non ha ritegno. Come un’eletta, ci spalanca con tragico entusiasmo la sua malattia, ci mostra l’indicibile nella descrizione minuziosa del suo corpo che muore. Lei è qui, fra di noi, oggi che ormai è morta, non come l’onore della famiglia ma come la massa indistruttibile che, d’ora in poi, non ci permetterà neppure l’accenno di un minimo orgoglio per i nostri racconti e i nostri pensieri: in effetti, non possiamo più evitare di essere travolti da quanto non abbiamo assolutamente capito. E ancora una volta lei ci costringe ai nostri celebri ruoli facendoci fare la figura degli idioti: il romanziere della psicologia e lo psicologo della filosofia si trovano con le armi spuntate, come due vagabondi senza destino, le vesti a brandelli, reduci dalla morte dell’amata sorella.

Con la sua morte, che lei ha vissuto come grazia, nonostante gli atroci dolori, la morfina e le cure di Katherine, con la sua nuda e severa fine terrena, Alice ci ha messi in scacco: la partita, ora, è nelle sue mani, anche se la storia la ignorerà. E chi ne esce con la faccia ustionata dalla fiamma delle sue rivelazioni, siamo noi, i fratelli celebri.

Io, da parte mia, ti assicuro che tutta la mia opera sta franando quasi senza rimedio e mi trovo schiacciato dalle mie opere come dal macigno di un senso di colpa da cui niente potrà più sollevarmi. Anche se so, caro William, che la nostra colpa è parziale e la punizione più esemplare dovrebbe essere riservata a questa società pretenziosa e grottesca, che annovera fra le creature di genio solo quelli che hanno avuto in sorte di nascere maschi.

Forse nostra sorella non era né uomo nè donna, William, ma un fascio di energia pura: e noi, senza saperlo, con le nostre celebrità ingombranti e importune, l’abbiamo soffocata, come una falena invisibile. Ma quella falena aveva l’anima di una tigre del deserto, una tigre che oggi, attraverso le unghiate silenziose del diario, ci torna a descrivere la sua morte con la grazia di chi vede, nella fine del corpo, il più esemplare destino postumo.

Così Alice, soffocata in mezzo a due massimi sistemi, non ha potuto che introflettere la sua energia e trasformarla in tumore: ma oggi, con le sue parole ancora incandescenti sul foglio, siamo noi che patiamo, in vita, una morte che non avrà il sollievo della fine terrena.

Fai presto tu, a liquidare questo diario come uno dei tanti allori della nostra famiglia! Non ricordi proprio nulla? Alice aveva già definito la sua vocazione alla morte fin dagli anni dell’adolescenza: ma, quando hiese a nostro padre se poteva uccidersi, quell’uomo terribile le rispose di sì, strappandole col suo consenso anche questa libertà. Alice me lo confessò due anni fa. Non è forse stato questo l’inizio della sua malattia mille volte definita come nevrastenia o nevrosi spinale o isteria, e confinata nel regno delle sindromi immaginarie?

Questo diario arde nella mia mente come una cosa che non riesco a tollerare: una folgorazione importuna e sgradevole, che mi tormenta per la sua inflessibile lucidità: Alice è letteralmente la mia «belva nella giungla».

Di questa cosa, che appena oso nominare, esistono quattro copie – per te, per me, per Robertson e per Kathérine. Non so se riuscirò a conservare la mia: forse, alla fine, per l’orrore che mi ha chiuso lo stomaco e mi impedisce di mangiare o di pensare senza essere straziato dal bisogno improvviso di morire o di fuggire, sarò costretto, nonostante tutto quanto ti ho appena detto, a bruciare le parole del suo diario, uccidendola un’altra volta.

Oh, se qualche povero dio mi desse la forza di fare il contrario e di mandare al macero tutte le mie inutili chiacchiere, tutti i miei vani e astratti soliloqui, conservando l’unica, insostituibile voce – quella di Alice James.

Tuo Henry

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Sorella del romanziere Henry e dello psicologo William, Alice James scopre nel 1890 di essere affetta da un male incurabile e descrive con scrupolosa esattezza le fasi della sua malattia nel Diario, che comincia a tenere dal 1890 al 1892. Quando le condizioni fisiche si aggravano, detta le pagine del diario all’amica Katleen Brighton che, alla sua morte, lo farà stampare in quattro copie: una per sé e una per i fratelli Henry, William e Robinson James. Henry James lesse il diario solo dopo la morte della sorella. Ne restò sconvolto, definendolo un «prodigioso attentato alla sua intimità». Si dice che pochi mesi dopo bruciò la copia in suo possesso.

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