UNA GENEROSA NONCURANZA. Annamaria Ferramosca

in forma di lettera

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Caro Marco,

ho ripreso a scrivere-leggere il tuo L’altro dentro di noi: era in attesa, in testa alla pila degli arrivi più recenti. Credo sia, tra gli innumerevoli tuoi libri, quello che mi ha più profondamente attraversata. Vi ho trovato le chiavi per accostarmi alla tua interiorità, che in queste pagine hai spontaneamente lasciato aperta con l’acuto stratagemma di rispondere a domande sottese, da te stesso suggerite! Ma già, solo tu potevi interrogarti e dare le opportune risposte, esplorando intera la vasta tua terra di dubbi, delusioni, scoperte, ipotesi, lasciti, e tutta quella fertile angoscia che ti spinge a scrivere come per addiction o incontenibile destino.

Quel che sorprende è il sapore profondamente vero della tua scrittura, che avverto come una peculiare genetica capacità, una generosa noncuranza nel riflettere, chiedersi, immaginare, fingere, creare, comparare, senza forse nemmeno riconoscere il grande valore di questa trasmissione. Questo tuo saper contagiare nodi di pensiero che spesso si rivelano straordinariamente simili alle inquietudini di chi legge. Ebbene sì, mi sono riconosciuta in molti passi e ho molto apprezzato il tuo essere autore “nomade” “complesso”. “incollocabile”, come ti definisci (attributi che considero espressione di acme raggiunta e raro privilegio). Ho sentito queste pagine parlarmi in sincerità disarmante, senza interposizioni di anche involontarie minime distanze autoriali, e dunque le considero preziose per ogni scrivente, oltre che per un semplice lettore; pagine da leggere più volte per memorizzare i fuochi significativi, poterli rammemorare come assiomi, suggerimenti, moniti, perfino abbracci amicali, per esorcizzare ogni angoscia, essere insieme di fronte all’ignoto. Ci si sente coinvolti: l’abisso che ci attende è là, nella sua tremenda opacità, costante generatore di inquietudine, ma è proprio lo sguardo comune e fermo sulla sua oscura presenza che rende “la ferita”, sebbene inguaribile, almeno sopportabile.

Dici di trovare senso dell’esistere nel farti “testimone delle anomale bellezze che incontri”, assaporando nel farlo quella inesprimibile sensazione che chiami “magia speciale, musica particolare”, anche se mai bastante a spegnere quell’“angoscia letteraria” , ben nota a chi scrive per il suo tenace persistere.

Altra verità, che risuona essenziale e memorabile, è racchiusa nella lapidaria espressione “Essere vivi è un lavoro infinito”. É infatti la spinta all’incontro con l‘altro dentro di noi che non può aver fine perché l’altro dentro di noi non è che il riverbero di ogni altra essenza fuori di noi, l’altro che continua a svelarsi, l’altro con il quale mai smetteremo di voler comunicare. E quel tuo avvertirci, citando Baudelaire, che “l’arte è demoniaca”, che il versante perturbante e sovversivo della creatività è contiguo alla follia… Eppure questo non sembra essere un vero avvertimento, qualcosa che può distogliere dalla tensione creativa. Chi scrive sa bene di stare camminando in equilibrio precario su un crinale impervio, contemporaneamente potenza e vertigine, estasi e baratro. E non può che continuare il percorso.

Ti ringrazio per il bagliore universale delle tue riflessioni e anche per quel tuo scatto finale di umiltà e autoironia, laddove scrivi che “non esiste una sola verità”.

(Vorrò vedere il film Il vento di Victor Sjöstrom, 1928. Me lo sono segnato, spero di trovarlo).

Annamaria

ANIME E SPETTRI. Camilla Osemont

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Storia del signor Vais, di Camilla Osemont (edizioni temposospeso, 2024) è una novella breve, esemplare nel descrivere il non-detto tra due personaggi maschili, Gladiolo Vais e Guido Belli, e uno femminile, Leda, tre inquilini che abitano su tre piani del medesimo condominio, uno sopra l’altro. Il libro è suddiviso in: Primo tempo (Allegro sostenuto, Andante moderato, Vivace); Secondo tempo (Vivacissimo, Allegrissimo); Terzo tempo (Largo, Mosso, Andantino, Allegro moderato); Quarto tempo (Adagio, Vivo, Largamente, Con moto, Sostenuto, Adagissimo). Il lettore che sceglie questo libro avrà l’opportunità, leggendolo, di entrare in un tessuto di emozioni indistinte e spettrali, dove l’assenza della vista e del suono magnetizzeranno l’attenzione. Il signor Vais, prima sordo, poi cieco, è lo spettro che guiderà Leda a una nuova percezione del visibile e dell’invisibile. Un’aura, tra Dino Buzzati e Clarice Lispector, domina questa novella onirica e domestica dove heimlich e unhemilich si intrecciano in modo inestricabile, senza lasciare spazio a una realtà definita: è il timbro stesso della narrazione a orientare il lettore. “Gladiolo mollò la presa e fece un passo in avanti, poi un secondo, e afferrò il tavolo rotondo della sala. Lei fece un passo indietro continuando a cantare e lui si avvicinò ancora, tenendosi ai bordi del tavolo fin quando la circonferenza non lo avrebbe costretto a ritornare indietro. Fu allora che procedette senza ancorarsi a nulla, nel mezzo della stanza, seguendo la sua voce. Leda procedeva a ritroso, segnando la via con il suo canto, fermandosi ad attendere finché lui non mosse il passo successivo, per aiutarlo a orientarsi”. Benché nella narrazione niente accada se non per minimi e fantasmatici incontri, la storia del signor Vais è un racconto “gotico”, alla Henry James, dove le anime/corpi vivono una morbida intimità di sensi assenti e ritrovati attraverso il mistero di una narrazione impercettibile, che cuce e ricama una scena oltre i confini dei sensi, ineffabile.

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*Camilla Osemont (Genova, 1983). Storia del signor Vais è il suo esordio come narratrice.

DA UN’ETERNITA’ PASSEGGERA. Francesco Marotta

II

Nelle rapide in secca dell’autunno

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notti assediate di luna
alla curva di parabole
che dal corpo scivolano
in lampi di vele,
storie raccolte
in quell’unica sosta
tra le sabbie
che accese il foglio d’astri
e la lingua, franata
in voluttà di oasi
e di tende: –

l’ombra
ribatte ai margini,
in grotte di tormento,
la voce che si immola all’alba
per intima convinzione
di ritorni – una parola
che di umano ha il rantolo
sgomento della luce
quando sprofonda
nelle rapide in secca
dell’autunno

*

occhi gonfi d’acqua
sul tracciato che dalle labbra
conduce a selve
spoglie di visione,
alle chiome sfiorite
di una stagione dietro sé
perduta –

la mano sogna
e come fiaccola s’illumina
alla parola ricordo che respira,
si trasforma in voci
tenaci d’onda
trapassando spine pietrificate,
rovine aperte al gelo
che dilegua per immutabile
legge del risveglio,
poi si spegne: –

*

un volo di tenebre e rime
recate in dono
al dio che dall’abisso
porge la carta, l’inchiostro,
il segno, il solco
della nuvola che spazza
il dolore nell’incanto –
a gloria futura
di un prolungato nulla,
di un prossimo, lento declinare
sullo stelo

*

trasparenze di oblio
dove la pupilla si arresta
e l’uccello di neve
precipita nel bianco
seme delle sue ali –
anche la luna è acqua
che ghiaccia
priva di sorgenti,
luna di tregua
con le sue spighe immobili
nel vento arreso
ai meridiani del tramonto: –

risale, poi si addensa
e si disperde, il lucore
di mondi in transito,
uniformi
sopra il velo infantile
che contagia lo sguardo,
lo ara di piogge, di vele
visibili oltre la fluttuante
linea di un volo –
altrotempo
che brucia ere immemoriali,
rischiarate a tratti
come il silenzio
che si fa corpo nel profondo

*

specchio di palpebra remota
che si nasconde all’aria,
al fuoco che avvampa
il gelo del sonno
con madreperle di sogni
e acque incerte, segnalate
da rare tracce di sassi
e grida addossate contro i vetri –
dove la voce corre senza eco
spinta dal vomere autunnale,
un prima di braci,
di fiori che s’infuturano
per il ferro sospeso,
rapido della falce: –

il deserto
profuma di angeli assetati,
assopiti in stracci di visioni –
nessuna sorgente evade
dai siti della notte, e
l’alba è solo afrore
di quelle sabbie, luce
sostanziata dal vuoto delle ombre

*

le regioni del volto
somigliano specchi che il cielo
trascina di vento in vento
fino alle radici della voce,
al lamento che imbianca
le valli e l’iride rimuove
dal suo blocco granitico
di sopravvivenza – prima
che una sola immagine
osservata a rovescio
rallenti i minuti,
dichiari la parola abolita,
incapace di luce: –

parola d’albero sorpreso
al battesimo della polvere,
con l’immobile sguardo
attento all’orma del seme,
a cui sfuggono sillabe
e distanze,
la lingua materna
e il sentiero delle piogge –
alfabeti che sfumano
dove il passo affretta il meriggio
e in mille ombre e mille
tacitamente affonda

*

veleggiare la solitudine
antica della sera
come chi scorda il porto
e d’improvviso s’illumina
alle nevi degli anni,
alla teoria di eventi
trapassati in ruderi,
frutti votivi
su tavole imbandite
di crepuscolo: –

dorme nell’acqua quieta
un rischiarato circo di ricordi,
mentre ritornano alla notte
notizie di naufragi e glifi
d’onda, nuvole di carta
strappate da fogli d’infanzia
per rischiarare la pura
rovina delle mani,
la prora che si oscura
senza lume

*

dialoghi nella penombra,
nient’altro che una macina di voci
che leviga il ricordo
come una foglia di tempo
nell’addio – un sasso
stupito di presagi
che serba il testamento dei fondali,
la nascita sabbiosa
dell’alba e il suo tormento,
il suo occhio indecifrabile
nell’intrico di sguardi
rappresi sul vetro impassibile
del cielo: –

la lingua stringe il sapore
della polvere – un reclamare d’ali
contro gli argini invalicabili
di un’unica notte

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*I testi sono tratti da: Francesco Marotta, Da un’eternità passeggera, I Libri dell’arca, Joker, aprile 2024.

IL PAESE DEI GRANAI. Alfonso Guida

Tu sai che il nulla è il paese dei granai…

Nulla=silenzio, vuoto=potenza del vuoto come atto: la possibilità dell’avvenimento, anche dell’io come sasso che nell’acqua moltiplica il cerchio del tuo lancio. Fino al propagarsi. La creazione del verso o del frammento avviene per sfregamento e la propagazione ne è la conseguenza. Tutto insomma è nella metafora del fuoco, che in sé ha la scintilla e l’incendio. Senza il nulla nulla può accadere. Il nulla della cella ha scatenato le più fervide tra le immaginazioni femminili. Perché l’entusiasmo della mente si verifichi bisogna stare nell’ombra, nella fitta ombra. Sembra quasi la condizione necessaria per il massimo della resa. E non è un caso che tale fenomenologia si realizzi nelle terre incastonate come l’Umbria. Le donne umbre sanno quanto grano fa il campo del nulla. Basta togliersi di mezzo per stare nel nulla.

Io scrivo sempre per questo salutare bisogno di suicidarmi. Scrivere per me è la sublimazione dell’istinto di morte. Un imbuto che diffonde visioni. Che non servono a niente. Che non interessano a nessuno. Ma scrivo, obbedendo con sacrificio invisibile al monito di Fortini. Scrivo grazie anche a Jaspers (“La cura della mente”) che stamane mi ha fatto chiaramente capire che mi avrebbe letto e applaudito. Lui, che invitava a comporre le cosiddette opere di “auto- descrizione” materiale che riteneva fondamentali per la fenomenologia, la psicologia soggettiva e la psicopatologia: Schreber, De Quincey, Nerval.

11.57, 2 maggio 2024

Giovanni Castiglia

CARTOLINE. Giuseppe Pellegrino

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La psiche umana è un albero con tutte le radici visibili. Per uno scrittore che vuole essere nomade della sua mente la psiche è una grande scommessa. Lui non viaggia per estensioni di territorio ma trivellando se stesso in un solo punto. Per quanto tempo si deve trivellare? Per quanto dannato tempo? Spesso ho riflettuto a quegli eroi che, considerati clinicamente folli, continuano a scrivere. Questa caparbietà non sembra davvero un Grande Mistero? Normalmente lo scrittore scompare, da matto, agli occhi del mondo. Non cammina più, né dentro né fuori di sé. Il caso di Nietzsche è esemplare: un universo filosofico di ineguagliabile complessità si riduce a pochi e laconici biglietti firmati «Dioniso» o «Il crocefisso» – archetipi, non a caso, del sacrificio e dell’annichilimento. Nella relazione immediata e rovinosa con l’assoluto, il filosofo non crede più alla finzione del linguaggio. Se la follia possiede lo scrittore e lui, nonostante la malattia, non tace ma, contro l’angoscia indotta dal silenzio, scrive, il cimitero della carta bianca non è un cumulo inerte di roba scritta; è vortice pulsante che lega pensieri a parole, parole ad analogie, intrecciando pulsioni emozionali e combinazioni linguistiche in un cortocircuito di lettere, confessioni, diari, scarabocchi, messaggi improvvisati, testimonianze lacerate in una scrittura perturbante e audace. Il perturbante smaschera le convenzioni: è la possibilità che l’irreale sventri il reale, è la facoltà di pensare essenziale tutto quello che potrebbe essere rispetto quello che è.

Testo di Marco Ercolani

Segni di Giuseppe Pellegrino

SENZA ORNAMENTI. Alfonso Guida

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Questo tuo libro è bellissimo. Belli i caratteri tipografici. Leggo e mi sento confortato. È il conforto della condivisione di una condizione ad alleviarmi un po’ il male. E questo conforto viene integro dalla tua parola. Un linguaggio chiaro, semplice e colto. Non hai che te, pensavo questo. Sei adulto e, dunque, solo, solissimo, come tutti gli adulti che pensano troppo alla loro età di adulti e al divenire del fiume che non lascia scampo. È una parola medicamentosa quella che tracci in questo diario-intervista, utile per il lettore, utile come qualunque testimonianza o referto della cruda realtà. L’empatia, dici, se manca innesca la paralisi o il dramma cronico della mutilazione. A me è successo questo. Mi sono ammalato perché dentro non avevo l’amore, nessuno aveva riempito il mio vaso, nessuno di quelli a cui sarebbe toccato riempirlo da tempo, sin dalla più tenera età il vaso è rimasto vuoto…

Ho interrotto, debilitato, le letture per due giorni. Le ho riprese stamattina, a fatica. Del tuo libro, di cui ammiro la scorrevolezza e il dinamismo linguistico, la coerenza ritmica, mi viene da dire del tuo pensiero, del tuo sistema organico di pensiero. Sei tutto radicato nell’amore per la letteratura del passato. Non smetti di citare Kleist, Hölderlin, i tuoi musicisti. Una prosa foltissima, senza sbavature, senza ornamenti, senza sentimentalismi. “Sparire è pensare con coraggio la pianura dopo di noi, i suoi tramonti e le sue albe. Perché mondo e natura non sono nostre proprietà, ma soffi leggeri attraverso i quali tormentosamente avanziamo finché siamo in vita. Io capisco che troverò, anche oltre il destino di Kleist, le tessere che compongono il mio: le vertigini che mi perdono sono le architetture che ritrovo. Io sono e non sono quelle vertigini e quelle architetture”.

Devo confessartelo: te le sento leggere ad alta voce queste frasi e sorrido o rido di gusto. Ti sento affannato e ansioso e avido di letture e di mondi da conoscere, come un ragazzo innamorato dei libri più di sé. Cerchi, prendi, lasci. Misuri la temperatura dei libri. Sai regolarti. Sai ascoltare. Hai orecchio. Per la tua condizione. Di uomo mescolato alle parole mute dei libri, le radicalmente altre, le profonde, le abissali. Ad esempio capisci che non è il caso di leggere Bernhard e ti butti su Handke. Ho sorriso, si. E ti ho applaudito in questo grande teatro nobile in cui a turno stiamo sul palco e in platea quando, con encomiabile sincerità, hai scritto: “voglio che il lettore si abbandoni alla tristezza”. Ami la malinconia e chi ne è portatore. Ami la malinconia radicale, l’abisso senza fondo di certo allucinato ascetismo o dionisismo, più che misticismo. Se in te c’è traccia di mistica è nell’impeto dell’istinto di fame e di sete, nella sua avidità che, malgrado il tormento, continua a tenerti in vita.

MENTRE SONO ALTROVE. Luigi Cannillo

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È un atto complesso entrare in questo libro di Luigi Cannillo, Dal Lazzaretto (La Vita felice, 2024) con le chiavi giuste per esplorare il mondo dolente che il poeta ci descrive con pudore, a ciglio asciutto. Occorre restare discosti dall’ingresso principale e vedere da lì ciò che resta, in “futura memoria”. La poesia, sfuggita nelle mongolfiere o immersa nelle grotte di corallo, espone, nella metamorfosi delle scene, il dolore dei non più vivi, vicinissima all’angoscia dei superstiti. La voce di Cannillo è una linea non increspata, riservata e quasi silenziosa, che trattiene antiche voci in una misura segreta e personale, dove la nostalgia della memoria è anche costruzione di un discorso austero, malinconico ma non triste, attento a registrare le minime inflessioni dei destini nella scrittura, senza eccessi lirici. Libro intenso e compatto, Dal Lazzaretto, dove il ritmo poetico si annida in musiche sommesse; le virgole appaiono ma non i punti, perché non sembra esistere una fine, un a capo, per la voce che evoca e narra, poeticamente, una dolorosa continuità. Una lieve aura da “olocausto” getta la sua ombra su questi versi, che però si riservano sempre una nicchia di tenerezza autobiografica, legata ai luoghi prediletti. Alla fine della lettura, non si è certi di avere colto tutto lo spirito del libro ma resta la gioia di essersi accostati a un contrasto di ombre, gentile ma crudele, che qui ritrova la sua voce remota dal muto Lazzaretto.

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Anche la carta col tempo

si logora, il biglietto postale

si apre a fatica, si rilegge

il grigioverde sbiadito

fino alla data del timbro

maggio settantaquattro

Ma la volontà della madre

versata sul foglio resiste

il pollice calcato sulla penna

chiudeva ogni vocale in un sospiro

dal tavolo di marmo di cucina

Non è più solo dei corpi adesso

la distanza, non più provvisoria

Nessuna lettera che la misuri

Ci separa forse una linea di schermi

come lenzuola animate dal vento

Forse tu accarezzando un sipario

segui col dito le parole – e le ripeti

come fosse musica per il figlio

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L’ultimo atto: la polvere sulle cornici

lucidare i vetri, carezzando i profili

Ognuno i suoi caduti da celebrare

La memoria spalanca le terrazze

e le ombre si rianimano in corpi

colti all’ultimo scatto, nello slancio

di un sorriso in posa per sempre

L’origine appartiene al sapere

mentre il distacco lotta col mistero

Pietà per il destino che ci aspetta

nel ritratto che si va compiendo

La mia casa con la finestra aperta

e il vento che mi cerca

mentre sono altrove

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Dorme il Lazzaretto

trasportato da un treno

che lo fa scivolare nel tempo

Le valigie aperte, le smorfie

di chi lotta con il brutto sogno

Hanno spento le luci in corridoio

e il gomitolo di ombre

si gira lento su se stesso

Sospesi i ricordi in un convoglio

quello che conta adesso

è il panorama che ci sta aspettando

ancora sfumato al finestrino

Dormendo scorrono le stazioni

in paesaggi come lampi

mentre l’arco profondo della notte

porta a destinazione ignota

Dormono insieme nel suo labirinto

le vite perdute e le attuali

condividono racconto e itinerario

il movimento che ci sveglia e ci assopisce

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*I testi sono tratti da: Luigi Cannillo, Dal Lazzaretto (prefazione di Davide Romagnoli), La Vita felice, Milano, 2024.

AMORE

Marlène Dietrich confessa a un giornalista francese il suo amore per Alberto Giacometti (1988).

Fu uno splendido amante, Alberto. Un po’ troppo silenzioso. Conservo una sua statuina accanto al mio letto, così grigia e sottile. Ricordo che mi adorava, che parlava del mio silenzio animale. Non gli piacevano le donne che chiacchieravano troppo: era incantato da come von Sternberg fotografava il mio volto quando cantavo, in Shangai Express. Diceva che avrebbe voluto fare lo stesso per le sue teste, fotografarle con la stessa perfezione, ma sarebbe stato un fallimento. “Io non seduco le mie vittime, io le catturo”, diceva. Ma adesso è meglio che ricordi altro. Io sono sempre vissuta per la libertà. Chi ho amato, non si è fermato con me. Difficilissimo è stato lasciare Von Sternberg: lui mi aveva imprigionata benissimo. Ma entrambi sapevamo che doveva finire.

Ora, chi bussa alla mia casa dice che io non rispondo mai, che sono pazza. Ma perché? Non voglio vendere il mio viso invecchiato a nessuno: è solo mio. Questa non è follia: questo è conservare il segreto. Anche quello del mio amore per lui, grande testa da accarezzare.

LEZIONE DI VENTO

Giovanni Castiglia

per Gustavo Giacosa

Siete arrivati. Ve lo hanno permesso. Quanti anni avete? Diciotto, diciannove, ventuno? Mi conforta sapere che siete qui, davanti me, e che quindi posso iniziare. Non c’è nulla di più bello che iniziare. Ogni volta che finite di leggere un libro, non vi respira dentro un demone sconsolato e insoddisfatto che vi costringe a iniziare ancora? Non sapete cosa. Restate attoniti a riascoltare il suono di un aggettivo, il ritmo di una frase; perdete di vista il discorso, vi immergete in suoni casuali, immaginate una certa musica. Bene. Non pensate di sbagliare ma, semmai, di fare un altro viaggio, dove sia naturale e indispensabile la bellezza. Quella bellezza, solo vostra, che non verrà mai messa a tacere. Un sopruso, un delitto, un crollo, la minerebbe. Ma lei si oppone perché così volete. Tutto è complesso (mente, fantasia, desideri, sogni, progetti), ma quando non vi arrendete a qualcosa di prevedibile diventa semplice, come acqua che scorre. Per essere semplici dovete sapere cosa potete e quando potrete. Poi sarete liberi di spiccare il volo verso il mondo che volete.

Certo, questa lezione vi arriva da un docente che parla dentro un edificio semicrollato. Ma come docente non sono vincolato a nessuna materia e, se questa casa è pericolante e piena di crepe, io e voi sappiamo perfettamente perché. Ma non dobbiamo parlarne ora: questo è un altro argomento. Oggi, si tratta di vedere come funziona, oltre ogni artificio, la libertà della psiche.

Il governo ha deciso che questa lezione sia possibile. E qui, nell’aula, non ci sono microfoni. Non hanno avuto tempo di organizzare controlli: tutto va di fretta, con la solita incuria, anche il potere. Noi entriamo in questa pausa, dove neppure si accorgono di noi. In ogni pausa c’è libertà, sempre, e salvezza, dentro un universo molteplice, non definito dall’intelligenza, sospeso fra prosa e poesia. Vi ricordo che siamo qui, per una lezione di vento, in un luogo estremo che avrebbe dovuto crollare.

Ogni sapere che noi pensiamo è dentro di noi. L’immagine che si forma adesso nei nostri occhi potrebbe esistere anche senza di noi ma ci attraversa proprio in quel momento: noi siamo come quelli che, affacciati a una finestra, vedono il lampo e lo trascrivono come possono. Innumerevoli sono i lampi, innumerevoli i racconti del messaggero che ha assistito all’evento o di tutti i messaggeri che hanno assistito all’evento. Il lampo esiste, certo, senza di loro, ma si racconta attraverso di loro. Noi tutti siamo le voci diverse di un unico racconto. E oggi questo racconto è aperto e possibile: siamo noi i portatori sani di questo possibile. Tutto è visione che non si appaga nell’essere capita . mistero senza enigma, fonte di meraviglia e di domande. Noi però vogliamo capire: vediamo non solo con gli occhi ma con tutto il corpo, con la speranza che domani nessuno ci riconsegnerà al mondo delle cose normali e ci lascerà vivere il nostro giusto delirio. Nessun paesaggio appartiene all’uomo se prima non l’ha calato nei luoghi della sua mente. In quei luoghi, dove parlare di inferno o di paradiso significa fare giochi di parole, niente può definirsi o astratto o figurativo. Tutto è un fluire di forme, e queste forme hanno un solo privilegio: non essere né rigide né curve né significative né bizzarre. In quei luoghi, immuni da ogni artificio, ci può essere accordo o disaccordo, macchia e figura, immagine e buio. Tutto diventa realmente possibile.

Queste non saranno lezioni di estetica, come immaginate, ma di libertà. Io non sono un filosofo ma uno psichiatra. Uno psichiatra, cosa insegna? La scienza discontinua e infelice della libertà. Ha il compito di vedere, nella voce, nei gesti dell’altro, che cosa lo abbia ferito in quel punto esatto. Si accanisce a cercare il vero in ogni persona, e non sono fondamentali le parole che l’altro dice ma il modo in cui le dice o le tace. Quelle mi hanno permesso di essere qui a parlarvi: chi ci comanda sa che io non istigo, non provoco, non faccio politica attiva: mi limito a osservazioni inattuali. Ma voi, di queste osservazioni, fate armi. La vera arma è sentire la possibilità dell’aria nel tessuto delle cose. Non si può nulla, senza aria. Ti avvolge, comune a tutti: ma per ognuno c’è la sua aria, nel tempo in cui vive la possiede e, quando sparirà dal mondo, la lascerà ad altri, traforata dai suoi segni. Qualcuno li vedrà, forse. Qualcuno no. Il destino è destino. Però è indegno non avere speranza, non credere al duende. Ricordate che chiunque muove le mani su qualche superficie, foglio o muro o terra che sia, chiunque agita le dita cercando forme, lo fa perché cerca, nel suo tatto, la nostra metamorfosi. La materia non è mai quel numero esatto di protoni ma l’energia che li rende pulviscolo. Ecco, in sintesi, la mia lezione di vento. (M.E.)