in forma di lettera
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Caro Marco,
ho ripreso a scrivere-leggere il tuo L’altro dentro di noi: era in attesa, in testa alla pila degli arrivi più recenti. Credo sia, tra gli innumerevoli tuoi libri, quello che mi ha più profondamente attraversata. Vi ho trovato le chiavi per accostarmi alla tua interiorità, che in queste pagine hai spontaneamente lasciato aperta con l’acuto stratagemma di rispondere a domande sottese, da te stesso suggerite! Ma già, solo tu potevi interrogarti e dare le opportune risposte, esplorando intera la vasta tua terra di dubbi, delusioni, scoperte, ipotesi, lasciti, e tutta quella fertile angoscia che ti spinge a scrivere come per addiction o incontenibile destino.
Quel che sorprende è il sapore profondamente vero della tua scrittura, che avverto come una peculiare genetica capacità, una generosa noncuranza nel riflettere, chiedersi, immaginare, fingere, creare, comparare, senza forse nemmeno riconoscere il grande valore di questa trasmissione. Questo tuo saper contagiare nodi di pensiero che spesso si rivelano straordinariamente simili alle inquietudini di chi legge. Ebbene sì, mi sono riconosciuta in molti passi e ho molto apprezzato il tuo essere autore “nomade” “complesso”. “incollocabile”, come ti definisci (attributi che considero espressione di acme raggiunta e raro privilegio). Ho sentito queste pagine parlarmi in sincerità disarmante, senza interposizioni di anche involontarie minime distanze autoriali, e dunque le considero preziose per ogni scrivente, oltre che per un semplice lettore; pagine da leggere più volte per memorizzare i fuochi significativi, poterli rammemorare come assiomi, suggerimenti, moniti, perfino abbracci amicali, per esorcizzare ogni angoscia, essere insieme di fronte all’ignoto. Ci si sente coinvolti: l’abisso che ci attende è là, nella sua tremenda opacità, costante generatore di inquietudine, ma è proprio lo sguardo comune e fermo sulla sua oscura presenza che rende “la ferita”, sebbene inguaribile, almeno sopportabile.
Dici di trovare senso dell’esistere nel farti “testimone delle anomale bellezze che incontri”, assaporando nel farlo quella inesprimibile sensazione che chiami “magia speciale, musica particolare”, anche se mai bastante a spegnere quell’“angoscia letteraria” , ben nota a chi scrive per il suo tenace persistere.
Altra verità, che risuona essenziale e memorabile, è racchiusa nella lapidaria espressione “Essere vivi è un lavoro infinito”. É infatti la spinta all’incontro con l‘altro dentro di noi che non può aver fine perché l’altro dentro di noi non è che il riverbero di ogni altra essenza fuori di noi, l’altro che continua a svelarsi, l’altro con il quale mai smetteremo di voler comunicare. E quel tuo avvertirci, citando Baudelaire, che “l’arte è demoniaca”, che il versante perturbante e sovversivo della creatività è contiguo alla follia… Eppure questo non sembra essere un vero avvertimento, qualcosa che può distogliere dalla tensione creativa. Chi scrive sa bene di stare camminando in equilibrio precario su un crinale impervio, contemporaneamente potenza e vertigine, estasi e baratro. E non può che continuare il percorso.
Ti ringrazio per il bagliore universale delle tue riflessioni e anche per quel tuo scatto finale di umiltà e autoironia, laddove scrivi che “non esiste una sola verità”.
(Vorrò vedere il film Il vento di Victor Sjöstrom, 1928. Me lo sono segnato, spero di trovarlo).
Annamaria