

Inferno minore
(Italic Pequod, 2007)
(questa che ora interroga, t’arrovescia
l’inizio: t’avviva a questo Inverso
cui un dio non corrispose; tu sei
l’oggetto in ritardo, l’infanzia persa
su tutte le piste, l’incrocio rinviato; sei l’amnistia
dell’idioma viaggiato)
(volli
la fine dell’era delle streghe volli
il chiarore di chi ha gettato gli arnesi
di memoria di chi sfilò il suo manto
poggiò per sempre il libro)
Fra gli anni Ottanta e Novanta la giovanissima Claudia Ruggeri era considerata una delle promesse della poesia italiana: la partecipazione a diversi reading poetici e a riviste come “L’Incantiere” aveva attirato l’attenzione sulla sua parola barocca, onirica, immaginale, e sulla sua prodigiosa bellezza. Tra i poeti importanti aveva stretto amicizia con Dario Bellezza ed era in contatto con Franco Fortini, che con il consueto rigore la invitò a “fare piazza pulita” dei suoi tanti modelli e a sottrarsi alle lusinghe di quella che lui definiva una poesia “ingioiellata”, invasa da una sorta di “impunità della parola”.
Quell’a ”impunità della parola” era la forza barocca della sua poesia: poesia come tutto unico, sostanza ‘magica’, epifanica, nutrita di mistica antica, cabala, tradizione trobadorica, fortemente legata alle proprie radici storiche e territoriali. Poesia-costellazione, scritta come in un poemetto a più stazioni, incompiuta, stretta in una lingua sontuosa e aliena, da sermone barocco («mi tengo in limine. mi conservo l’equivoco / degli stili incrociati»); una parola lessicalmente deformata, che subito cerca un’aura, una maschera; che è subito finzione teatrale, teatro della lingua che si sfrena e attraversa incrociandoli modelli classici, dai trovatori a Dante, dal barocco e severo Ciro di Pers a D’Annunzio e Montale, nella ricerca di una parola “aulika” che incarni sulla pagina un flusso sottratto alla logica e al comune ordine del discorso.
Scrive Ana Blandiana: «Nemmeno un istante oso chiudere gli occhi / per paura di stritolarlo tra le palpebre il mondo, / di sentirlo ridursi in frantumi / come una nocciola fra i denti». Questo è il senso della poesia di Claudia; tenere il mondo sempre dentro i suoi occhi, teso in una bellezza magnetica, tellurica, espressionista: «Ma cammina cammina il Matto sceglie voce / da voce, e sempre più semplice chiama, dove l’immagine / si plachi sul tappeto, se dura, se pure trattiene / stranieri nuovi e quanto altro / s’inoltrerà nella carta fughe falaschi lussi».
In Inferno minore, centro d’attrazione del libro è il suo convulso respiro sintattico; i segni si addensano con urgenza; le maglie del verso si allargano fino agli estremi della prosa lirica, dove la frase è l’unità di senso, la formula di questi esorcismi di sorprendente potenza introspettiva. L’Inferno Minore è una galleria dantesca di incontri signoreggiata dal Matto (la figura dei tarocchi), un carnevale marionettistico e crudele in cui il contrasto manifesto del poeta con l’esistenza può condannarlo a divenire da autore attore:
a te a te altro ti tiene, non la parola,
per te s’alleva una tortura dentro la bara
della Figura, una condanna alla molla
maligna, al Carnevale abominevole
Non la parola ma la condanna, che sembra sovrastare la parola come una minaccia imminente. La poesia di Claudia Ruggeri, indubbiamente difficile, sotto il velo degli stili e della loro frenetica dissoluzione, si regge su nuclei semantici ricorrenti (lei per prima avverte che il suo è un «discorso nascosto»). Infine, la tentazione di inventare un Oltre, un regno della parola oltre i confini del mondo, si esaurisce nella classica figura di Prospero, mago della Tempesta shakespeariana, che posa il libro e spezza la bacchetta rinunciando alla creazione.
Scrive Foucault: «La follia è strappata oggi a quella libertà immaginaria che la faceva crescere (…) Non molto tempo fa si dibatteva in piena luce, ed era re Lear, Don Chisciotte, ma in meno di mezzo secolo si è trovata reclusa e, nella fortezza dell’internamento, legata alla ragione, alle regole del mondo e alle loro monotone notti». E già Nietzsche scriveva, in un aforisma di Aurora: «Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi».
Il desiderio di “essere folli” entra nella storia della filosofia e nell’eccezione della poesia. La necessità di un pensare oltre, di un’esperienza che varchi i limiti della ragione, diventa sostanziale. Chi ha in sorte di sprofondare definitivamente nella malattia mentale, perderà l’incandescenza della follia, che apre a nuove soluzioni, ed entrerà nella cronaca della malattia, chiusa nei riti consueti e aperta solo al tragico finale. «Così, dal Colmo, ormai, nuoce / il dimandar parenze, come / il Distrarsi. Lasciatemi / a questa strana circostanza. Qui / so, con il mio amore, e con chiunque / vi arrivi, che a questo inferno / minore, tutto è minore; medesimo / È solo il Carnevale…». Misterioso, sibillino lamento di Arianna, che si chiude nella sigla di un barocco Carnevale.
Al Cabaret Chat noir, a Parigi, Henri Rivière scolpisce il Teatro delle ombre, dove a sorprenderci è la nettezza delle silhouettes scolpite su zinco, figurine nere modellate in scene di massa (guerre, processioni, messe, funerali, riti satanici) e messe in rilievo dagli schermi luminosi del fondale. Viene da pensare che le nostre vite condividano, con quelle silhouettes, la realtà fantasmatica che ci determina e ci forma contro le leggi di qualsiasi mondo. Così, rileggendo l’imperfetta e barocca poesia di Claudia, immaginiamo che lei possa ancora tornare indietro dal suo “folle volo” e restare qui con noi a rileggerla, a correggerla ancora, magari al di là della nostra presenza. Come scrive l’enigmatico Alessandro Ricci: «Oggi / è il mille / di marzo. Fatti / i calcoli, fatti / i nomi che pesano».
Marco Ercolani

lamento della sposa barocca (octapus)
T’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
– sentite ruvide come cadono -; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creaturava a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa
un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.

la pena dell’Attore
se il chiarore è una tregua,
la tua cara minaccia la consuma
(Eugenio Montale)
è qui che incontro l’ultimo Cattivo, il residuo
rosicchio di semenza, l’antenato Attore; dal precipizio
accanto, il suo spettatore lo trattiene
a un fronte candidissimo; dal vano
che cava e spaventa in tanta mediterranea
Evidenza; da dentro questo volo che caverna rotondo,
maniaco; dal ventre, che scaraventa;
che mostro Balena l’accolga, l’incaglia;
gli dia un esilio vero, un lungo errore

Claudia Ruggeri nasce a Napoli nel 1967. Muore suicida il 27 ottobre del 1996. La sua prima opera, Inferno minore, verrà pubblicata postuma due mesi dopo sulla rivista “L’incantiere”. Nel 2007 le edizioni Pequod ristampano Inferno minore con aggiunta di materiali inediti. Nel 2010 esce La sposa barocca. Sette saggi su Claudia Ruggeri. Nel 2013 viene pubblicato Canto senza voce (Lecce, Terra d’ulivi, 2013) e Uovo in versi (ibidem, 2015). Le edizioni Macabor, nel 2019, pubblicano SUD. I poeti. Claudia Ruggeri. Oltre i limiti della ragione, che ospita un’ampia scelta di testi dell’autrice. Una nota di lettura per Claudia Ruggeri appare nel mio Fuochi complici (Il Leggio, 2019).



