
«L’enigma dovrebbe bastarci. Non abbiamo bisogno di decifrarlo. L’enigma è lì». Le parole di Borges, scelte da Silvia Comoglio come epigrafe al suo nuovo libro Afasia (Nuova Limina, Collezioni di scritture, III, 2021), suggeriscono che possano esistere versi belli ma privi di senso, il cui senso risiede solo nell’immaginazione. È il caso della poesia di Silvia, che appare sulla pagina come un continuum di frammenti arcaici, che sembrano scivolare da un poema remoto ma dissolto, dove il senso è diventato una scia del suono. Il libro si suddivide in quattro parti: Afasia, Antimondo, Chiaroveggenza, Luminescenza. Ma ogni sequenza ha una musica inequivocabile, che non può essere ricondotta né a un tema né a un’armonia precisa (forse ci potrebbero soccorrere le Toccate e i Capricci di Frescobaldi, la cui musica non sai mai dove conduce, ma si snoda inquieta e sempre certa di sé).
Osserva Elio Grasso alla fine della sua postfazione: «In certe pagine l’autrice sorprende volti acquattati nel folto, prediletti in ogni epoca: passato o futuro nulla cambia, si sa, poiché il tempo è ben presente, perenne e tutto intero. Una volta per sempre. Irrompe tenero e esigente, l’antimondo considerato nel suo insieme, dunque vi entriamo con “il forte bacio di chi bacia noi che siamo tutti”, L’illusione è sapiente, sembra un bene un po’ sfacciato, ma infine Silvia Comoglio la pone tra virgolette con il suo italiano così intensamente pensato nella lingua delle origini».
Qui, più che nei libri precedenti, Silvia arriva a mostrare la sua poetica:
«mólto, somiglia molto la frombola che dici
allo scalare dell’ultimo soffitto dove, esplose,
folto di silenzio l’ago! del tempo che si appunta
dietro l’albero e l’orecchio
*
la terra ha tua leggenda cullata di rimbalzo.
le forme, stupite a bosco, di un tempo –
trainato a mondo
*
(angeli di muti – orsi e temporali
le ombre – illese tra le dita – di de-
boli germogli)»
*
Il lettore osserva “quel regno degli avanzi nudi di – / memoria” e la voce del poeta sembra apparire o da una selva sacra, luogo di ninfe, o dal dolore di Marina Cvetaeva o da certe sibilline profezie di Emilio Villa o da alcune schegge di pensieri presocratici. Chi leggerà il libro di Silvia nella sua interezza di enigma scorrerà una partitura intessuta di spazi bianchi, di caratteri grandi o piccoli, di corsivi o tondi, di pagine semibianche. La forma del discorso è la luce obliqua di una lingua musicale e arcaica che, non avendo nulla da dire, lo dice fra luce e ombra, come dal fondo di un bosco in continua ascesa verso il cielo, e tesse una partitura che non sarebbe dispiaciuta a un Sylvano Bussotti.
Musica puntillista? Esatta? Evocatrice? Tutto questo insieme.
Chi legge questo libro lo guarda in pienezza di sensi. La lingua, da Silvia spesso declinata nelle forme orali e stupite dell’evocazione, tende a una magia esatta e salda, che il lettore assorbe come una visione.
«Un giorno avrò un sogno che uscirà dal bosco –
prezioso ordine a saperci identici contrari, specchiati.
a mondo di traverso, dentro il suo chiarore –
di cuspide di sguardo único d’amore»
La lingua e il suo senso agiscono come ricordi, sopraffatti da scene dove echi di suoni rimandano ad echi di luce, e si assiste, come in un certo Cesare Greppi, a una totale trasfigurazione della lingua italiana:
«è lépre, dite, tra-boccata a cuore
la terra esile a silenzio di folli –
notti in a-bbondanza?»
Marco Furia osserva: «Silvia risponde per via di un’originale empatia capace di mostrare come la versificazione possa essere vero e proprio tramite esistenziale: qui soggetto e oggetto, senza perdere la loro identità, partecipano di un comune destino». Ogni critico qui sospende la voce affidando l’ascolto del libro a chi potrà udire e vedere, non solo leggere. Perché leggere Afasia è percepire come, dai silenzi del linguaggio comune, usato come strumento e non come tema, germini per analogia ed evocazione una lingua nuova, che percorre il mondo – flusso di magiche risonanze («ho fatto il sogno dell’orso dentro al mondo, / di te-che-cerchi il bosco dopo il mondo»).
(M.E.)

