KOTIK LETAEV. Andrej Belyi

[Non soltanto un libro, questo romanzo di Andrej Belyi, Kotik Letaev, scritto a Pietrogrado nel 1918 e tradotto in italiano da Serena Vitale per le edizioni della Biblioteca blu nel 1973), ma un poema-linguaggio che racconta l’infanzia dell’autore nel magma del suo divenire, la costruzione un poème en prose in continua gestazione, l’invenzione di una libera scrittura metamorfica che dal 1973, anno della sua traduzione nella Biblioteca blu, il lettore italiano non ha più avuto occasione di leggere o ri-leggere per conoscere uno dei più eccentrici capolavori della letteratura russa]

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“Belyi è, secondo un luogo ormai comune della critica, il Joyce russo: il creatore di una lingua ostica, desueta, intraducibile perché, come pre-lingua, è talmente pregna di senso da risultarne priva. L’aspetto più vistoso di questa difficoltà è rappresentata dalla creazione di nuove parole: per lo più pourmanteau words, secondo la definizione lewiscarrolliana, ma anche neoologismi ricalcati su modi o desinenze comuni o, al limite, brandelli dello stesso linguaggio comune usati però in segmenti alogici e sconnessi, e perciò straniati. Se questo vale per ogni scritto in prosa di Belyi, in Kotik Letaev c’è in più la specifica coincidenza della invenzione-scoperta di un linguaggio che va di pari passo con la scoperta-invenzione della realtà da parte del bambino e con la minuta “coscienza” che di tali scoperte è sepolta nell’inconscio dell’adulto. […] Nel linguaggio “anticipato” di Kotik, metafore, associazioni di senso, giochi di parole e di suoni vengono ancora vissuti nel loro significato attivo, creativo, disalienante. Questo linguaggio “preistorico” dell’infanzia è dunque un linguaggio futuro – il linguaggio, sempre futuro, della poesia. Kotik Letaev è un ricordo-profezia del linguaggio poetico”.

(Dalla prefazione di Serena Vitale)

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Frammenti da Kotik Letaev

Siamo nati nei mari

In noi, mondi marini: i mari delle Madri; e ribollono in rossofurenti mute di deliri.

Il mio corpo infantile è il delirio delle madri: oltre il delirio c’è soltanto un occhio, una bolla sopra un baratro in volo; affiora e – non c’è più; sono al mondo soltanto con la testa; le gambe sono imprigionate nell’utero: sono viscidi tentacoli, e i miei pensieri sono miti anguiformi: rivive in me l’essenza dei Titani. Tutti i miei pensieri sono baratri in cui l’oceano si frange, traboccando tempeste sismiche nel corpo; ecco – si leva, simile a una meteora, il pensiero infantile; precipita nel corpo, la coda s’insanguina e piove scrosci di carbuncoli sanguigni nell’oceano delle sensazioni; e tra il pensiero e il corpo, tra il baratro dell’acqua e l’abisso del fuoco, qualcuno scaglia con violenza il bambino; e il bambino ha paura.

Schema-sciame

I primi miei istanti sono sciami; “sciami, sciami – tutto sciama”; questa fu la mia prima filosofia; sciamavo negli sciami; le ruote le tracciai solo in seguito, insieme alla vecchia; ruota e sferza sono le prime forme; della schematurabilità dello sciame. Quelle forme si ripetono tutta la vita: brillano di ruote i fuochi d’artificio, le carrozze volano sulle ruote, la ruota della fortuna rotola con due alucce tra le nuvole, ruota la giostra. Lo stesso per le sfere: tondeggiano sugli scaffali della farmacia; sulla Kalanca una sfera ha preso il volo; una sferetta di legno abbatte con fracasso una fila di birilli gialli; e per finire, anche a me, un giorno, sull’Arbat, hanno regalato una sferetta rossa piena di gas: memoria eterna di quando anch’io, sciamando, m’ero condensato in una sfera.

Ciò che, mutando, schematurava nello sciame divenne per me schema; ruotando tra gli sciami, mi aprii un buco, e dal buco

il tubo

dal

quale scappai fuori.

Autocoscienza

[…]

mi colpisce il suono della parola Cremlino: che cos’è il Cremlino? Ho già mangiato la “crem-briulé”; è dolce; me l’hanno data sotto forma di un budino con tante sporgenze; nella pasticceria di Savost’janov mi hanno mostrato un “Cremlino”: sono merli sporgenti di torrette in zucchero candito rosa; è chiaro che

Cre è una cresta di merli (del cre-mlino, della cre-ma, della cre-sta); mentre m, ml, li, – è il dolce, il morbido: e in seguito, dalla finestra dell’ingresso di servizio (che da’ in cucina), dove ogni mattina l’acquaiolo ci riempie la botte con rapide secchiate. Mi mostrarono: sull’azzurra lontananza del cielo – le torrette del Cremlino: rosee, dense, dolci:

queste torrette sono i vivofluidi suoni delle paorle che sorgono in distesa linea di colori; e – in cupole capiformi; le linee sono fughe di ritmi che fuoriescono in un sonno-nota mimica;

chiudi gli occhi e stropicciali con i pugni chiusi: la vivofluida luminografia dei lampi vola, brilla dal centro giallo-violaceo; il centro pulsa di lampi:

la vivofluida luminografia dei lampi sono le parole; e le pulsazioni – i pensieri: la vivofluida luminografia delle parole incalza in sogno; incalza nelle stanze del senso:

Andrej Belyi
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