Graffiti
di Marco Ercolani e Lucetta Frisa
Graffiti*
Il segno è figura, la figura è atto, l’atto è unità, comunione, integrazione, generazione; l’unità è il divino, il divino è figura, la figura è segno. (E. Villa)

La prima traccia artistica dell’homo sapiens appare 77.000 anni fa nelle caverne di Blombos, in Sudafrica. Sono graffi incrociati su pezzi di ocra rossa, antecedenti ai grafiti di Lascaux e di Touc d’Audobert che risalgono a 15.000-30.000 anni fa.
A Requepertuse (Bouches-du-Rhône), nella valle dell’Arc, nel comune di Veloux, a quindici chilometri da Aix-en-Provence, vengono ritrovate statue di uomini e di uccelli e di mostri marini mescolate insieme.
La necropoli di Pecine e quella di Piscault ospitano statue votive in legno, oblunghe, arcaiche, con volti indistinti, come coperti da un velo di nebbia o di pioggia: risalgono al IV-V secolo D.C.
Nel 1902, sulla volta d’argilla di un caverna della Dordogna, all’altezza di due metri dal suolo, Breuil scopre dei graffiti che risalgono al paleolitico; alcuni anni dopo, assieme a Cartilhac, ritroverà dei segni simili in una caverna d’Altamira, situati alla stessa altezza. I due studiosi, insieme a Obermaier che scoprirà tracce simili in una caverna di Lourdes, concordano sul fatto che si tratti di impronte provocate dalle zampe di giganteschi orsi dell’era glaciale. Reuil afferma che gli orsi, cercando nel buio l’uscita dalla grotta, si sono appoggiati ala parete lasciando involontariamente una traccia. Obermaier sostiene invece che gli animali hanno appoggiato le zampe sulla volta della caverna per strofinarsi le unghie.


Non importa quale delle due interpretazioni sia più vicina alla realtà. Da entrambi i casi si ricava questa tesi: è il segno di una belva a produrre l’arte grafico-pittorica del pleistocene. La prima manifestazione artistica dell’uomo scaturisce dunque non tanto da ispirazioni magiche o religiose quanto dalla goffa imitazione di tracce animali. Le rupestri “tragedie di caccia” di Lascaux, i graffiti narrativi di Limeuil (dove una figura mana veglia una figura morente), i graffiti su lastra d’ardesia di Pechilat (con la “battaglia degli orsi”), rappresentano l’evento nato dalla visione di quelle tracce nel buio. Atterrito dall’animale, che è assente, ma affascinato dal suo segno, che è presente, diviso fra la natura “ferina” di quel segno e la sua apparenza “magica”, l’uomo da un lato testimonia la sua paura per “l’altro da sé” che è “mostro” da esorcizzare, catastrofe da scongiurare; dall’altro lo rappresenta, lo introietta, lo mostra a se stesso trasformandolo in totem, in simbolo.

Il disegno dell’uomo preistorico è la prima metafora di una creazione in imminenza di distruzione.
Disegnare è “pensare per immagini”: è il momento in cui, tra vista e visione, tra percezione e immaginazione, si definisce una fase della creazione artistica: quella in cui si “assorbiti” dall’oggetto prescelto. Non ha importanza in cosa consista l’oggetto: una traccia esterna, un sentimento interno. In questa fase si è “chiamati” a creare: potremmo definirla semplicemente il momento dell’ispirazione, condiviso dall’artista primitivo che disegna scene di caccia, dal bambino che traccia ghirigori sul foglio, del folle che riempie la pagina di figure. E’ la fase dell’”incantesimo della creazione”, di condensazione e stilizzazione magica propria di un inconscio arcaico, che non concepisce ancora la trasformazione di quelle tracce in forme.
L’uomo si identifica, subito, nel gesto di tracciare qualcosa, come se rispondesse a una chiamata. La traccia sembra imitare quella di un animale e crea qualcosa dove prima non c’era nulla. È un gesto casuale e imprevedibile di risposta, che traduce la necessità di scongiurare una minaccia reale con la sua rappresentazione magica – con la sua ri-creazione.

La prima arte pittorica si riduce successivamente a forma ornamentale e si semplifica a segno geometrico, a sua volta portatore di significati precisi. Diventa scrittura, prima ideografica, poi alfabetica. Ma è proprio vero che, diventando tale, la scrittura tradisce la sua natura originale di traccia provvisoria, imitata dal segno di un animale?
Così mi appare nel fregio di Lascaux,
madre fantasticamente travestita,
la Saggezza dagli occhi pieni di lacrime. (R.Char)

Il primo gesto artistico dell’uomo non è né pittura né scrittura ma schizzo materico. L’energia di questa idea è sostenuta inconsapevolmente da alcuni grandi pittori nel corso dei secoli: Leonardo, che interpreta le crepe dei muri come scene di battaglia; Piero di Cosimo, che vede come segni pittorici i suoi stessi sputi; Alexander Cozens che inventa paesaggi rocciosi a partire da macchie d’inchiostro; Victor Hugo, che da fondi di caffè o sgorbi casuali abbozza castelli, dirupi, mani da incubo.


In modo analogo, quando faceva Kioku-je, cioè “pittura dell’immaginazione”, il celebre pittore Hokusai si serviva, come materiali, di oggetti immersi nell’inchiostro di china e talvolta, al posto del pennello, usava le sue stesse unghie. Sengai, calligrafo giapponese e maestro zen del XVIII secolo, diceva: “Da questo mio gioco di pennello e d’inchiostro non nasceranno calligrafie o pitture. Solo le menti molto limitate possono prenderle per calligrafie o pitture”.
In alcuni maestri dello Sho – l’arte millenaria della calligrafia cinese – la massima concentrazione corrisponde a uno stato di raccoglimento e di silenzio in cui l’artista può convivere per un tempo indefinito con il rotolo di carta bianca, pensando alla forma da disegnare; ma, non appena il pennello toccherà la carta, la sua arte sarà “arte del momento”, agile, diretta, sciolta, veloce. E’ questa velocità di esecuzione, che succede a uno stato di attenzione, a suggerirci che la sostanza dell’atto artistico sono le prove, gli schizzi, in cui si traduce questa attenzione.

I disegni e gli schizzi sommari non ci indicano uno stato inferiore a quello dell’opera conclusa, ma un momento diverso, subliminale, arcaico, in cui la vertigine iniziale non si conclude e non si consuma in un risultato. L’opera non è ancora un regno stabile, una certezza che azzera le altre ipotesi con un colpo di spugna.
Quando Théodore Géricault soppresse gli episodi più feroci e cannibaleschi de La zattera della Medusa spalmando sulla tela una sostanza velenosa e nera, il bitume di Giudea, rese omaggio alla tradizione di quella stabilità, cancellando le parti del quadro che i contemporanei non avrebbero saputo capire.

Il linguaggio in cui l’origine parla è essenzialmente profetico. Ciò non significa che esso predice gli avvenimenti futuri, ma che non parte da qualcosa che già c’è, né da una verità in corso, né dal solo linguaggio già detto e verificato. E’ un linguaggio che annuncia, poiché comincia. Indica l’avvenire, poiché non parla ancora, come un linguaggio futuro, e in quanto tale assume senso e valore solo innanzi a sé. (M. Blanchot)
Alla visione iniziale – il segno della belva – risponde un movimento di forme che ci riconsegna, più consapevoli, alla stessa visione: lo scrittore che annota o il pittore che disegna si rivelano fantasmi di quell’uomo primitivo che, nella luce del giorno, ricreava le tracce lasciate dall’animale nel buio della notte.
Scrivere, nella scrittura poetica e analogica, è dipingere, lasciare una traccia, un segnale visibile. «Comme des longs échos qui de loin se confondent / Das une ténébreuse et profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la clarté, / Les parfums, les couleurs et les sons se répondent» – suggerisce Baudelaire nelle sue Correspondances. Scrivere è farsi sedurre dall’eco della notte: non notte opaca ma tenebre squarciate da lampi. Scrivere, in stato di veggenza, di una notte rischiarata da tracce, frammenti, scie luminose – non sigillata nella sua totalità di buio. Scrivere portando alla luce il gesto ferino che restava assopito dentro di noi finché lo sguardo umano lo ha risvegliato.
Amo la lotta dell’albero per rimanere diritto e crescere, a dispetto delle avversità; e il ramo di spine, calpestato dagli zoccoli degli animali e contorto, che continua a crescere, vivo nonostante tutto. (G. Sutherland)

Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti della pittura cioè ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. (Platone, Fedro, 275d).
Scrittura e pittura, come ci ricorda Blanchot, sono vicine al silenzio sacro di ciò che sembra vero. Ma ciò che sembra vero è un’immagine capace di trasmetterci i brividi del terrore, come lo furono quei segni sulla caverna della volta di Altamira. E se il terrore nasce nell’ignoto e nella notte, è altrettanto vero che ogni opera su serve del buio per approdare a una forma precisa, consapevole della notte che la nutre e del giorno che la modella, come ci indica Char: «Ecco che nel vento brutale i nostri segni di passaggio trovano, sotto l’humus, la realtà di quelle polverose falcate che sollevano una primavera dietro di sé».

Il disegno, lo schizzo, l’appunto, ci mostrano un artista nudo, che ha deposto quasi tutte le sue maschere, e cerca di catturare i primi segnali di un’opera a venire. Questi segnali sono prove, presenze provvisorie, fantasmi della creazione imminente, immaginata come conclusiva; ma, più di questa, sono rivelatrici del gesto iniziale: tastare nel buio, alla ricerca di non si sa ancora cosa, per poi esprimerlo non si sa ancora come.
Tutte le tribù osservano quello che lo stregone ha dipinto. Agli occhi di quegli uomini la pittura è stata eseguita per ricordare o anticipare il combattimento, per mostrare ciò che viveva nella loro mente come episodio del passato o visione del futuro. (E. Kris)
La prova dell’arte si misura sempre e soltanto con altre prove: non cerca storie o musei, archivi o memorie, ma continuità e intimità con l’origine sempre rinnovata e radiante dell’atto creativo.
È nel disegno sommario e non nel quadro finito che il pittore svela il suo gesto intimo, la sua soggettività spoglia, essenziale. Quel segno, tracciato di slancio e in pochi attimi, veloce stenogramma di un battito segreto, mette a nudo il nucleo più intimo del suo fare –che in questo caso coincide con il suo essere. Da parte sua lo scrittore, negli appunti preparatori del libro che scriverà o deciderà di tacere, non si obbliga forse a una dimensione più autentica ed estrema?
Nudità, concentrazione, intensità, necessariamente consumate in un tempo breve: tre unità non classiche che accomunano il disegno del pittore al taccuino dello scrittore, ed entrambi agli “appunti della mano sinistra!.
Fra opera compiuta – che afferma una precisa visione del mondo – e schizzo veloce – metronomo di un effimero stato d’animo che non afferma nulla, corre la stessa differenza che separa l’io ordinatore e descrittivo dall’espressione concentrata e febbrile del soggetto che annota le sue emozioni, come la mano trascrive il sogno che la memoria diurna sta per dimenticare.
Felix Fénéon, il critico francese che ha raccolto per noi le prose rimbaudiane delle Illuminations e che per anni è stato il più attento e moderno commentatore degli Impressionisti, ci rivela, come in certi quadri, non solo di suoi contemporanei, il pittore si è nascosto e ha lasciato parlare le convenzioni del suo tempo. La propria natura intima l’ha confinata in un dettaglio segreto – trascurabile, secondario, forse invisibile – della tela ultimata. In modo analogo il disegno preparatorio dell’artista ci svela una via che il quadro cancellerà – via marginale, forse più significativa della principale – che però doveva essere nascosta dal quadro ufficiale per sancire la sua esistenza.

Lo scrittore – ne sono illustri esempi Hugo e Baudelaire – ha spesso tracciato pittogrammi ai margini delle sue pagine scritte, come se volesse evadere dal regno diacronico e chiaro della scrittura verso quello, enigmatico e sincronico, della pittura. In questo senso, per secoli, il disegno ha rappresentato la mano sinistra che si contrappone alla mano destra.
«Che felice mestiere quello del pittore paragonato a quell’uomo di lettere! All’attività felice della mano e dell’occhio nell’uno corrisponde il supplizio del cervello nel secondo; e il lavoro che per l’uno è un godimento per l’altro è una pena…». Così i fratelli Goncourt, nel loro Journal, separano il mondo razionale e riflessivo della scrittura da quello irrazionale e istintivo della pittura. Ma in realtà anche nella scrittura si profila, alla fine del XIX secolo, un discorso dell’ombra dove al venir meno delle forme tradizionali corrisponde la voce di nessuno della poesia contemporanea, dove al sonno delle forme risponde il limite illuminato dal buio.

In questo doppio movimento, tra sonno e coscienza, tra sogno e realtà, tra vertigine e limite, si rivela meglio il senso dell’antica visione: il segno dell’orso lasciato sulla volta d’argilla, nel buio di quella caverna della Dordogna, e lo stupore dell’uomo, il giorno dopo, diviso tra il terrore atavico per l’animale da placare e la magica influenza esercitata da quelle tracce.
In modo analogo lo scrittore clandestino, in regimi d’oppressione, traccia sul muro, a rischio della vita, la sua scritta di protesta come un anonimo graffito che colpisce per la sua imperiosa visibilità e per l’invisibilità del suo autore.
Dentro le sagome, tra viluppi e meandri, nel solco di graffi, di strappi di incisioni […], dentro il punto o il buco, dentro l’angolo, dentro l’incrocio tracciato, dentro le sagome, dentro le forme che sono materia aperta irradiata dal vigore dalla concezione, dentro il simbolo della bestia o della chimera, dentro ogni perimetro segnalato e posseduto, dentro il profilo del fallo e della vulva, e perfino nell’ìmpronta semplice, nell’orma, nella scansione del moto sull’argilla o sul fango, nello sfregio lasciato dalla punta di silice, o dal sasso lanciato, o dall’unghia o dalle dita, nel sentiero condotto da luogo a luogo (che è luogo unico), corre la vita; la vita nutre il mortale, la morte rigenera la vita. (E. Villa)

Raccogliere fogli diversi per contenuto, spessore, formato, materiali; trasformare la carta bianca di un qualsiasi domestico quaderno in intrico di segni, combinazione magica, sogno perturbante; modellare stravaganti boîtes à surprise, copertine esotiche per scritti aforistici, misteriosi scrigni colorati, criptiche micrografie, fogli a fisarmonica fitti di versi e acquerelli, pagine materiche, scherzi concettuali, capricci utopici, eccentrici viaggi biografici; comporre un libro comune fatto di schizzi, disegni, fotografie, scarabocchi, scritture, di quei «segni della mano sinistra» che echeggiano le parole di Osip Mandel’štam: «Distruggete i manoscritti, ma conservate ciò che avete tracciato a margine, per noia, per disperazione e come in sogno». Segni “tracciati a margine” di un unico libro collettivo – manuale di scritture fantastiche, astratte e reali, sospese tra l’estrosità del segno e l’imprevedibilità del senso, non estranee a quelle macchie di caffè di cui Victor Hugo, pittore e scrittore, si faceva artefice e medium, elevandole a immagini fulminee della propria visionarietà, sulla scia di Leonardo da Vinci che, nelle crepe o nelle macchie dei muri, intuiva paesaggi streganti. Leonardo scrisse che un buon esercizio di fantasia per i pittori è quello di osservare le macchie d’umido e di muffa sui muri antichi. Proprio dal casuale intreccio delle loro forme l’immaginazione e la capacità associativa, lasciate libere, dovrebbero suggerire volti, mostri, grovigli di battaglie e infiniti altri soggetti di ispirazione da riprodurre in pittura.

I grafismi di Roland Barthes hanno la pienezza persuasiva di una pagina scritta che vorrebbe liberarsi dalla tirannia del senso, ma restano frammenti di un desiderio.
In alcune opere Sho di Norio Nagayama la forma apparentemente astratta – che ricorda le tracce di Kline e le pennellate di Hartung – in realtà è un ideogramma, una parola poco leggibile e reinterpretata pittoricamente, ma carica ancora, tutta intera, del suo significato originale. Ancora parola.
Un paesaggio di Tal Coat, esposto al Museo Granet di Aix-en-Provence. Un semplice tratto verde chiaro, un lungo segno colorato, in tutto e per tutto simile alla più astratta delle Sainte-Victoire cezanniane. L’impressione è che sia stata dipinta da un Cezanne apocrifo, che conosceva già gli effetti futuri della sua stessa arte.

Nella breve serie delle Scriptions – disegni di pennarello nero su carta di piccolo formato – Jean Dubuffet tocca, a oltre ottant’anni, l’apice della sua ricerca pittorica: rinuncia alla scorza emblematica del colore per affidare l’esistenza della sua opera al semplice impulso del disegno, alla sua sommaria incompiutezza. In questo modo si avvicina, più di altri artisti, a quanto lui stesso definisce “il limite dello scarabocchio infame e del piccolo miracolo”. Dall’”eresia del colore” all’”eresia del disegno” la strada, direbbe ancora Eraclito, è “sinuosa e diritta”.

Dall’”annottare” silenzioso delle ombre sulla volta dell’antica caverna, dal terrore ispirato dalla presenza minacciosa dell’animale, deriva un altrettanto silenzioso “annotare”, con segni e parole – sulla pagina bianca, sul muro di pietra, sullo schermo del portatile – quanto per noi appartiene, ed è sempre appartenuto, al regno instabile della notte e non a quello rassicurante del giorno. Solo in questo movimento l’arte può essere fulminea nell’espressione e buia nella radice, estranea a ogni inutile paradiso.
“Graffiti è stato pubblicato, in questa versione, in “Arca, prima serie”, n. 32, febbraio 1996; poi, con alcune varianti, nella prima sezione de Il muro dove volano gli uccelli, L’Arcolaio, 2013, e in “Carte sensibili”, ottobre 2013.


