Morte di Kafka*
“Cara Esther, mi dica pure che sono pazzo, o mi dica come tutti che sono così stupido che non so elevarmi nemmeno alla sublimità della follia. Forse ha ragione. Egli stesso ha scritto nei Diari che io non lo capivo. Ma, che Kafka non potesse esser felice, che l’infelicità gli fosse connaturale lo può credere solo chi non lo ha visto ridere. Io credo e affermo che morì felice. Per la prima volta in vita sua amava una donna: non fu come con Felice o con Milena, per le quali ebbe infatuazioni, amicizie amorose. Di Dora, Kafka fu innamorato. E lei di lui. Stava progettando una vita nuova con Dora. Ed io affermo che il mio amico Kafka non mi chiese di distruggere i suoi scritti per disperazione, ma perché finalmente era felice e non voleva lasciar traccia della passata infelicità. E affermo di aver disobbedito all’ordine nella convinzione che lui stesso, fosse arrivato più in là con gli anni, si sarebbe pentito di avermelo dato. Io credo che Kafka non fosse obiettivo, perché chiunque, quando trova libertà e dignità, vuol cancellare il ricordo di quand’era umiliato e intrappolato. Ma io avevo il dovere di difendere un valore che andava oltre la volontà del mio amico: il valore della sua opera. Fosse ancora vivo, e guardasse alla sua vita con gli occhi di un vecchio, non solo non si vergognerebbe di esser stato prigioniero, ma vorrebbe raccontare come s’era liberato. Non ha potuto farlo. La morte arrivò come un balsamo. Non riusciva più nemmeno a deglutire. Sentì avvicinarsi la morte e si tranquillizzò. ‘Non si preoccupi’, disse il dottore, ‘non vado via’. ‘Ma vado via io’, rispose Kafka. Morì sapendo di lasciare una vita incompleta, ma sapendo che ce l’aveva fatta: che la felicità non era stata completata, ma lui aveva fatto tutto quello che poteva per raggiungerla. Sapeva di aver fatto la sua parte: che per lui fu sempre la cosa più importante. Suo Max Brod».
*Il testo è tratto da: Giorgio Galli, Le morti felici, Edizioni del Canneto, Genova, 2018.