IL SOLE DELLE VOLPI. Jean-François Millet

(traduzione di Lucetta Frisa)

Jean-François Millet
J.F. Millet, Angelus

L’arte della pittura

Nel 1858 appariva l’opera del pittore di origine elvetica David Soutter (amico di Millet, Rousseau e Diaz a Barbizon) dal titolo Filosofia delle Belle-Arti applicata alla pittura. Per simpatia verso l’autore, Millet ne intraprese la lettura: il più delle volte in disaccordo con lui, annotò le sue reazioni e riflessioni, evidentemente senza prevederne la pubblicazione.

L’arte della pittura consiste nell’esprimere l’apparenza dei corpi. Questo non è il fine dell’arte, ma il mezzo, il linguaggio che si utilizza per esprimere il nostro pensiero. Quello che chiamiamo composizione è l’arte di trasmettere pensieri agli altri. Per questo, non si può prescrivere regole a nessuno. Non può esserci una composizione che non comprenda essenzialmente l’ordine. L’ordine mette ogni cosa al posto che gli spetta e di conseguenza, dà chiarezza, semplicità e forza. È quello che Poussin chiamava le convenienze.

È un errore credere ci siano delle regole d’arte già trovate e stabilite per l’uso di chi vuole esercitarle. Chi può vedere la natura con i propri occhi e riceverne le impressioni non troverà in nessuna di esse il modo di comunicarle; è solo ciò che sente a comandare l’espressione. Al cane non si dà il fiuto: lo si addestra. L’educazione può fare solo questo. Ma l’esempio delle persone forti, qualsiasi cosa abbiano fatto e per quanto siano apparentemente diverse tra loro, ci conferma come nessuno abbia potuto sottrarsi a questa legge dell’ordine; e con molta naturalezza, dato che senza di essa, l’espressione non potrebbe manifestarsi, in quanto le cose non hanno il loro valore se non per il posto che occupano. Gli uomini forti non si distingueranno tra loro che per l’aspetto ultimo della loro opera. Tutti insegneranno gli stessi principi: essere sinceramente Pietro o Paolo, l’originalità è propriamente questa. Si può insegnare a qualcuno la materia dell’arte, ma solo fino a un certo punto. Ripeterà, insieme a ciò che ha imparato più o meno male, quanto gli altri hanno detto: ma non camminerà mai da solo se non vede con i suoi occhi. Si legge, nel Cuisinier français, una cosa molto più istruttiva di quanto sembri a prima vista:

«Per fare un salmì, prendete una lepre». È impossibile che un uomo diventi quello che non è chiamato a diventare; i buoni precetti possono sviluppare solo quello che c’è in lui. All’uovo occorre una chioccia; ma se l’uovo non ha il seme, cosa covare?

La bellezza risulta dall’armonia. Non so se in arte c’è una cosa più bella di un’altra. Cosa è più bello, un albero dritto o uno storto? Quello che sarà adeguato alla situazione. Una situazione dove un gobbo sembrerà più bello di un Apollo messo a sproposito. Vedremo quindi sempre che, in qualunque modo si giri o si chiami la cosa, sarà sempre una questione di ordine. L’ordine, l’armonia, sono la stessa cosa.

J.F. Millet, Le spigolatrici

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Lettera a Thoré

In occasione della mostra di alcuni suoi quadri alla Galleria Martinet, Millet scrisse al critico d’arte Théophile Thoré, difensore del pittore dai tempi del Salone del 1844, che intendeva scrivere un articolo. Pubblichiamo la lettera direttamente dalla brutta copia per i chiarimenti che suggerisce e per il commento di tre quadri che, alla fine, non vennero esposti.

Barbizon, 18 febbraio 1862,

Mio caro Thoré,

poiché desiderate occuparvi dei miei quadri esposti da Martinet, vorrei dirvi un po’ qual’è stata l’idea che me li ha fatti fare. Giudicherete voi se ci sia qualcosa di buono da cavare fuori da questi appunti. Prima di tutto, devo dirvi che cerco di esprimere, in quello che faccio, il senso rustico. Il mio motto sarebbe volentieri: rus!

In La donna che ritorna dal pozzo (1) ho fatto in modo che non la si possa scambiare né per una portatrice d’acqua né per una serva: che viene da attingere l’acqua per l’uso domestico, l’acqua per fare la minestra al marito e ai suoi figli, e abbia l’aria di trasportare né più né meno che il peso dei secchi pieni, e attraverso quella specie di smorfia stirata dallo sforzo dei pesi sulle braccia e gli occhi socchiusi a causa della luce, si indovini sul suo viso un’aria di bontà contadina. Ho evitato, come sempre, con una sorta di orrore, quello che potrebbe tendere al sentimentale. Al contrario, ho voluto svolgesse con semplicità e bonomia e senza considerarlo una corvée, un atto che è, come gli altri lavori domestici, il lavoro abituale di tutti i giorni della sua vita. Vorrei che si immaginasse la freschezza del pozzo e che il suo aspetto antico ci mostri come molti, prima di questa donna, siano venuti ad attingerci l’acqua.

In Pecore appena tosate (2) ho cercato di esprimere quel tipo di stordimento e confusione che le pecore provano appena spogliate e anche la curiosità e lo sbalordimento di quelle che non sono ancora tosate nel vedere tornare tra loro creature così nude. Ho cercato di infondere all’abitazione un’atmosfera rustica e serena. Che si possa immaginare il recinto erboso che sta dietro dove sono piantati i pioppi che la proteggono: infine che tutto questo abbia quell’aria abbastanza antica da far credere che sia stata abitata per intere generazioni.

Contadina che dà da mangiare ai suoi figli (3). Vorrei fosse come una nidiata di uccelli a cui la madre dà l’imbeccata. L’uomo lavora per nutrirli tutti.

Poi, nel caso giudicaste necessario parlarne, il mio desiderio è che, in quello che faccio, le cose non diano per nulla l’impressione di essere mescolate a caso e per l’occasione, ma abbiano tra loro un legame indispensabile e intenzionale. Che gli esseri da me rappresentati abbiano l’aria di essere destinati al loro stato e che sia impossibile immaginarne un altro. In breve, che persone o cose siano là per un fine, uno scopo. Desidero dipingere pienamente e con forza quanto è necessario, ma professo l’orrore più grande per le inutilità e i riempimenti, che hanno solo il risultato di indebolire il quadro.

Non so se c’è da cavarne qualcosa da quanto vi ho detto, ma è esattamente così.

Ricevete, mio caro Thoré, una bella stretta di mano con l’augurio di una perfetta salute.

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Appunti

Non sono tanto le cose raffigurate a fare il bello, quanto il bisogno di rappresentarle e il bisogno stesso crea il grado di energia col quale si assolve a questo compito. Si può dire che tutto è bello a condizione che giunga a tempo e al suo posto; al contrario, nulla può essere considerato bello se è controtempo. Si potrà certamente lodare qualcuno per la bellezza della sua capigliatura, ma è difficile esprimere lo stesso apprezzamento trovando una ciocca degli stessi capelli dentro la minestra…Il bello è quello che è adeguato.

Rientro del gregge nel loro campo (4). Finito il brusio di questo ultimo atto della giornata, tutto deve restare calmo e silenzioso. Mi piacerebbe lasciare presagire il regno sereno dell’astro che la gente di campagna chiama “il sole delle volpi”, e dare al mio quadro un aspetto tale che si ascoltino con l’immaginazione i rumori notturni: il coro delle rane e il lontano abbaiare di un cane di fattoria: e infine, esprimere il regno del silenzio. E ancora una volta (ci tengo) che la luna sia davvero “il sole delle volpi”.

Un contadino e sua moglie che piantano patate (5). Il loro campo è lontano dal villaggio, perciò non hanno potuto lasciare a casa il bambino da solo. Lo hanno sistemato in una delle ceste dell’asino, assieme al resto del carico, e, appena giunti a destinazione, l’hanno deposto all’ombra del melo nel cestino dove ha viaggiato: quindi coperto con la camicia del padre. Anche l’asino è stato messo all’ombra. Vorrei saper rendere commovente la maniera di lavorare di queste due creature così intimamente legate e fare in modo che le loro azioni si accordino talmente da sembrare una sola. A proposito: perché l’atto della semina di patate o di fagioli sarebbe meno interessante e nobile degli altri? Sia bene inteso che di nobile o basso non c’è che il modo di comprendere e rappresentare le cose, e non le cose stesse. Quanti esempi potrei citarvi a sostegno di questo!

L’impazienza e l’inquietudine dell’attesa (6) Ecco che il sole, ancora una volta, è appena tramontato: e niente! Che fare se lui non ritorna? Ammesso che non gli sia successo niente! Non possono più decisamente tenersi l’uno all’altra. Partono insieme, ma giunti in strada, la madre non può fare a meno di allontanarsi un po’ dal cieco, che comunque cerca di discendere la soglia della porta, a tastoni, come chi non ci vede. Lei teme tuttavia di allontanarsi troppo da lui. Ora, col suo sguardo, interroga in tutti i modi la strada, che resta vuota e scura. La noia ha invaso la casa. Poveri vecchi, vi tornerete molto tristi! Facciamo finta che queste persone siano dei vecchi Tobia: si potrebbe raffigurare la loro storia in maniera diversa da quella dei sentimenti umani?

Note

1) Paysanne revenant du puits (1855-1862).

2) Les moutons qu’on vient de tondre (1862) Yuzo Ilida, Chuo-Ku, Tokyo.

3) Paysanne donnant à manger à ses enfants (1860), Musée des Beaux-Arts, Lille.

4) Le parc à moutons au clair de lune è probabilmente il quadro che si trova a Parigi e non l’omonimo quadro del Museo Walters a Baltimora.

5) Les Planteurs de pommes de terre (1861-1862), Museo delle Belle Arti, Boston

6) Tobie ou l’Attent (1861), Galleria Nelson-Museo Atkins, Fondi Nelson, Kansas City.

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Nota biografica

Jean-François Millet nasce a Gruchy, nel 1814, nei pressi di Cherbourg da una famiglia di contadini molto religiosi. Fin da ragazzo inizia a dipingere. Amico di Theodore Rousseau e Théophile Gauthier, è stato criticato da Baudelaire nei suoi Salons. Nel 1868 viene nominato cavaliere della Legion d’Onore. I suoi quadri di scene di vita contadina sono sempre più celebri. Muore a Barbizon nel gennaio del 1875. I testi sono tratti da: Écrits choisis, L’Echoppe, 1990.

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