a cura di Elio Grasso


Genova attraversata da Frénaud contiene segni che ci sono ancora, e segni che sono scomparsi. La cecità degli amministratori ha superato lo sguardo penetrante della poesia, la sua lucida e ospitale attenzione. Negli anni ’60 (Le silence è stato composto tra il 1961 e il 1962) certe linee, che si potevano osservare dal mare e dal porto, erano ancora presenti; altre, della cui bellezza oggi si possono avere forti dubbi, ancora mancavano. Macerie non spazzate via dalle ruspe ricordavano un passato recente di bombardamenti e di fughe repentine nei rifugi. I nostri padri e le nostre madri si tenevano dentro dolori non ancora sopiti, ricordi e sguardi tanto freschi quanto la genuina ammirazione per le molte navi presenti nel bacino, per la robustezza delle acciaierie sorte appena ad ovest della città. Frénaud cammina nelle viscere di un centro storico in cui non sono state cancellate le scritte “Off limits” della polizia militare, dove gli uomini e le donne si parlano con durezza, e il lavoro pulito si confonde con tutte le attività connesse al commercio illecito. Salendo le rampe si stanca, lo stancano gli improvvisi bagliori fra i palazzi, i rumori sordi delle strade principali, vicine ma invisibili. Lo sguardo, quando si sofferma davanti a un’arcata, a un monumento, a un’inferriata, è attonito, sente di non capire quel linguaggio, soprattutto sente la propria lingua incapace di parlare a quelle vestigia. Nasce così un poema sui contrapposti stupori, sui dislivelli che dividono Genova al suo interno, che colpiscono il viaggiatore. Un regno di quartieri ostinati, pieni di gente ostinata (e per questo ancora oggi in piedi). La città, confondendo Frénaud, lo aiuta a far nascere una delle composizioni più belle di questo poeta, già autore generoso nei confronti dei paesi da lui visitati durante le lunghe peregrinazioni che hanno caratterizzato la sua vita. Nonostante la presenza di molte poesie inedite, la riproposta di una nuova versione de Le silence de Genova ha una ragione, per così dire, non soltanto di genere affettivo; collocandosi vicino a quella ormai classica di Giorgio Caproni, consente qualche inedita apertura verso la lingua di partenza e quella di arrivo. Lasciare spazio a una certa vena anarchica, gauchiste, come Montale nel 1953 già notò sul “Corriere della Sera”, può servire oggi a rendere più leggibile questa poesia sempre in bilico fra quanto le riesce di descrivere e quanto si lascia sfuggire, senza per questo dolersene. Nella trama del poema, in fondo, scorgiamo le giornate di un avventuriero ora immerso nell’oscurità, ora immerso nella luce bianca dei riflessi della lavagna, ma comunque disperso nei passaggi inaccessibili della città portuale, incapace d’introdursi nelle pietre accostate lungo il cammino. Tra queste solide pietre cittadine e i lontani paesini rivieraschi si formano le rapide visioni descritte dalla lingua “aggressiva” di Frénaud, il suo fiammeggiare nel fiammeggiante contenuto del giorno ligure (E.G.)
IL SILENZIO DI GENOVA
Saprai presentire ancora il sogno inscritto
e ripetuto in queste pietre?
Al mattino l’uomo si risvegliava per rispondere
alla bellezza rabbiosa della notte.
S’incamminava per strade, saliva scalinate,
elevava torri, si delineava per un istante.
Si congedava da porte di pietra,
scendeva per rampe, si fermava
al mercato del pesce per consolarsi
e per ingannare il fuoco notturno.
Un giorno chiudeva le arcate, poi le riapriva
scoprendo altri ingressi o perdendosi nel bagliore.
Da un’inferriata intravedeva le insegne
delle parti avverse. La piazza semichiusa
dai dislivelli di terra. Se gli eventi cambiano,
inventano comunque lo stesso percorso.
***
Nella cordialità vibrava la fiducia
come il colore del peperone.
Il negro americano, l’allegro bel tipo ridente
catturato in porto, molto tempo fa,
dal boato dell’onda alluvionale,
ancora si aggira per gli stretti carruggi,
gli splendidi seni delle ragazze poliglotte
che conoscono la nostra lingua,
la gente che inganna la vita nei quartieri bassi,
chi sfida e chi tace ostinato,
i palazzi dai portali chiusi, i pennoni,
le gru stagliate che si vedono salendo,
e più in alto il mare.
***
Quale oscuro cambiamento del sole
quando te ne andavi per queste vie
insicuro e fiducioso,
una snella ragazza al braccio, l’ardore sorpreso,
la provocante allegria per tranquillo appoggio?
Quale tuo resto t’incitava ad afferrare
nella città sconosciuta, appena presentita
nell’assordante effusione,
un sogno che mai avevi manifestato?
Quale testimonianza ti suggerisce questo labirinto ospitale?
Ma chi resiste in te all’eco sfuggente
che prolunga un’impetuosa parola, rinviata
da tutti gli stridori del percorso?
***
Nei lenzuoli di sudore delle notti sognanti,
bianchi paraventi oscurati dalla fine del giorno,
saprai scoprire le direzioni conosciute?
Quali bagliori fissano i vetri sotto i cornicioni?
Chi s’avvicina e, già prossimo,
si allontana per sempre?
Era qui, ma dove? Era già tardi.
La festa dove sarai, forse.
Cuore incerto, cuore insoddisfatto,
quale debole energia si raccoglie
e per quale avvenimento?
Avanzavi per negare o per mantenere
complice l’avversario, il prigioniero rabbioso?
Aggiungendo i tuoi passi ai passaggi di pietra,
quando ne rivelavi l’andatura, perché
ti riconoscevi?
***
Consegnato all’oscurità da un’illusione velata,
ti risvegli al segreto soltanto camminando,
commosso, nascosto ancora nell’ignoto che indugia,
tendi all’azione sotterranea e l’ignori,
somigliando a un cavallo impazzito.
Sarebbe soltanto svenimento l’inaccessibile,
il piacere inspirato e l’unità sorgiva,
come unico scarto il gioire di gioia?
Saprai presentire ancora il sogno inscritto
e ripetuto in queste pietre?
***
All’uscita dalla notte
il treno spalancava esiti celesti,
fra le gallerie ti svegliavano villaggi tranquilli,
dalla cupa superficie affiorava lo sfolgorio del mare.
E la stazione, la partenza trattenuta nei fumi,
la lunga passeggiata, le scalinate, di vicolo in vicolo
un passo dopo l’altro, i segreti del cambiavalute
da sempre indecifrabili,
i volti, l’indistinto oriente,
sulle mura il lavatoio sfondato,
l’altare nascosto dai drappi di porpora.
Sei giunto qui diversamente che in sogno?
Sei tu che insisti sui selciati
in questo mattino deserto,
in questo mattino
dove tutto ti sembra eternamente vuoto?
***
Vano l’andare e venire del sole benevolo.
Ammicca, scuote la pioggia,
sulla strada rumorosa costruisce l’ordine e l’ombra.
Oggi la folla avanza nella città spoglia.
Malignamente nessun vino nero vi riluce
per infiammare la tua pace deserta.
Oggi chi manca non pesa più.
Nella solida pietra San Giorgio
nasconde il fuoco del drago.
Se non hai più nemici, egli ha vinto.
Senza speranza né desiderio il tuo dolore si svuota.
***
Cammini infaticabile e sconsolato
lungo la linea dei portici,
dietro la soglia di uno sguardo proibito
l’infinita salita del dolore e del desiderio,
il suo ripetersi, si è esaurito;
un grumo di lacrime come muti cristalli
ha fermato lo sciamare delle grida.
Uscirà da te questa forza
che immobilizza i giorni violenti?
***
Ragazzi giocano. Perché aggirarsi per di qua
se non puoi afferrarti né confonderti?
Se oggi tutto è recintato, va’ via.
Va’ nell’assolata campagna dove costruiscono
a ogni passo case senza passato.
Va’ e ascolta la sirena della nave
su cui eri imbarcato –
Mediatrice sempre incerta.
Nella scia perennemente estenuata
dalla nostalgia, invano speri
l’immagine dolente, neppure oggi
l’assenza le ridà potere.
***
Nient’altro che movimenti marini, oggi,
o questi esili pini che s’incendiano. Guardi,
ripetendo lentamente il nulla, cercando
un prestigio che si è dissolto,
come lo spruzzo agitato dell’onda
o il rosseggiare nella pozza.
Resterà il fervore tradizionale del mare,
simile a te simile al piccolo cane
ghiottone che ingrassa e, tenero, lecca
e si agita.
Così tu stavi assonnato in camera.
Che importa se non c’è erba nei tuoi sogni.
Il fiammeggiare soffocato nel torpore acre.
Le minacce udite dalle inferriate.
Gatti sbucano veloci dalla melma.
La mano tagliata, la neve apparsa sulla cenere.
Chi muore, se l’orologio si copre di sangue?
Dimenticata, una vela scomparsa
nel violetto scintillante.
– Certi pomeriggi
il baccano del flusso stradale
sotto i raggi del sole o nella penombra,
sul letto solitario, talvolta ti appagava –
Gli approdi della notte, che siano più propizi?
Nella moltitudine di topi dagli occhi lustri
in vico dei Tre Re,
il campanile dagli otto profili sorprende
il mucchio di rovine.
Di nuovo la promessa, l’appello impaziente,
tutto s’agita, tutto vuole turbarti: la breve schiarita
al passaggio incerto della luna, le fresche folate
del gran soffio d’altri tempi, i contadini dritti
che si muovono sulle porte,
l’antica voce aspra,
i piani privi d’accesso che riecheggiano,
i rampini nel marmo variegato,
la femmina con l’ernia e la gamba di legno –
ti cercano nel deserto d’ombre: le madri,
tutto ritorna e proviene da qui, chiama, si schiude in te
e s’unisce in un movimento solenne, fino alle nuvole…
***
Elevata nella notte si socchiuderebbe
la città gremita e dal ventre disponibile?
No, il tuo cammino interminabile
mai t’introdurrà in queste pietre,
né i bagliori venuti da qui,
non più d’un istante.
La follia brucia i nodi, arriva
alla zona perduta, all’universale
scorrere che gli artefici
esalarono indecisi;
sui loro passi, che ti resta ormai?
Il bene comune della sfortuna e d’una ricerca
assurda. L’altro è ancora in te,
ovunque disperso,
può scorgerti in figure straniere.
***
Fratelli che vivete qui, che sognate
un’assenza poco chiara e ingannatrice,
se non esiste conoscenza né risoluzione.
Questa lenta violenza, il privilegio possibile
di riconoscersi allo specchio dello straniero…
Avevo creduto di riscoprire la mia terra sventurata,
cogliermi tutto nella schiarita,
venir meno e svanire, parlando.
Era l’alba o la sera già si diffonde?
Che cosa speriamo, che cosa mai cerchiamo?
***
Tutto si riordina muovendo nello spazio accogliente,
tutto si ravviva e si tiene, si disperde.
Sviati dalla passione invisibile che passa
nei diversi flussi del loro sognare,
si sono dimessi, sottraendosi
alla pochezza dei giorni, per conservare
il fuoco sicuro, per confermare i segni
che hanno una risposta –
vivaci e incuranti,
si perdono nello splendore estivo,
nei salotti affollati, vagano
sotto pallidi lembi d’azzurro,
si aggirano nelle feste delle case patrizie,
di antica origine?
***
La gentaglia, a un cenno, si allontana,
la giornata è conclusa: il dolore trattenuto.
Il mare, perché volevano ritrovare il mare,
origine inalterabile vista dall’alto,
questa donna potente dalle cosce pesanti
e questi ragazzi che osservano l’azzurro?
S’arrampicavano, generosità rumorosa, fino al paradiso
negli orti del convento, tra i fichi,
fin dove conduceva la funicolare,
verso la morte, stagione dopo stagione?
Genova-Populonia-Paris, 14 agosto 1961-14 aprile 1962
(Traduzione di Elio Grasso)




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