H.M. André-Pieyre de Mandiargues

(traduzione di Luigi Sasso)

H. M.*

Tra tutti gli uomini sublimi o, se si preferisce, «superiori» che conosciamo, non ce n’è uno solo al quale sia così difficle manifestare la propria ammirazione, il proprio fervore o la propria amicizia come a Henri Michaux. I libri che riceviamo, per esempio, accompagnati da un biglietto che reca stampata la formula «con gli ossequi dell’editore», per segnare bene la distanza da non superare, come se ci trovassimo di fronte a un trasformatore di corrente ad alta tensione, hanno come primo effetto, malgrado la nostra grande curiosità, di raggelare l’aria intorno, e di conseguenza ogni nostro possibile desiderio, ogni aspirazione o semplicemente ogni pensiero. E quando, a volte, la pagina d’occhiello porta una dedica scritta con quella grafia minuta, sottile e rapida che ti entra nell’occhio come un artiglio, non senti, in quel dono, un calore imprevisto che t’invade? Senza dubbio. Perché l’opera e la persona di Michaux, più di quelle di ogni altro scrittore contemporaneo, si collocano in un clima di intimidazione (se non, com’è stato detto, di terrorismo), che è probabilmente responsabile della reputazione che egli si è fatta di non essere per niente comunicativo. Volontariamente o involontariamente, tramite il libro, la parola o la sua sola presenza, Michaux colpisce e paralizza. Non dico che abbia in sé qualcosa del cobra (reale), ma il modo in cui attacca affascina e impressiona, non è privo di analogie con quanto si racconta di quel serpente, e noi gli siamo riconoscenti (io lo sono) di questa sorta di aura emozionale di cui si circonda. L’occasione di un «omaggio» rimedia dunque a una mancanza, come se da troppo tempo custodissimo un piccolo mazzo di fiori e non fossimo mai riusciti a offrirglielo…

Se c’è, nei tempi moderni, un maestro dell’umor nero, costui è sicuramente Henri Michaux. Facciamo tuttavia notare che lo humour, presso quasi tutti gli scrittori che vi hanno fatto ricorso, è più o meno un artificio, partecipa di un atteggiamento, senza dubbio seducente, che è il dandismo. Niente di simile in Michaux; nulla di artificiale in lui. Lo humour è presente nel suo spirito con la stessa naturalezza di un fiume scuro in una terra chiara e secca, e quando deborda, il suo eccesso è insieme spontaneo e salubre. Così Michaux, a differenza di Marcel Duchamp per esempio, non farà mai il protettore di tanti piccoli utenti dello humour, che fanno mestiere del ruolo d’insorti come se fosse una qualsiasi posizione sociale. Burlarsi dell’arte, prendersi gioco della letteratura per tornare alla letteratura attraverso la rivolta e all’arte attraverso uno stupido scherzo. Michaux, il più violento degli scrittori e uno degli artisti più ribelli, è molto al di sopra di queste comode posizioni, molto lontano da coloro che le adottano. Lo humour di Michaux è dettato dall’acutezza della sua visione. È nero, come le lenti indispensabili sotto una luce molto viva. Michaux sarà l’ultimo a lasciarsi accecare.

Perché la costante preoccupazione di Michaux è di comprendere, e soprattutto di comprendere l’uomo, il quale rispetto all’universo è uno specchio che può, sempre che sia possibile, comprendere tutto. Il titolo di uno dei suoi ultimi libri, a questo riguardo, è rivelatore. Mi riferisco a Connaissance par les gouffres. Prima della pubblicazione di questo libro, prima di quella degli altri volumi dedicati agli effetti di diverse droghe o alle turbe psichiche, si poteva (con superficialità) scambiare Michaux per un narratore fantastico, oppure per uno scrittore che si fosse nascosto dietro maschere favolose alla maniera di Swift. Mi sembra che questa interpretazione, che fu quella dei primi ammiratori dell’opera di Michaux, sia sbagliata. I mostri del Voyage en Grande Garabagne, così come i loro consimili di Ailleurs o del Pays de la Magie, sono soprattutto degli abissi (dove l’uomo si confonde con la bestia), sono stati creati a titolo sperimentale e non per un qualche piacere del bizzarro o dell’orribile. Michaux non è affatto incline alla dilettazione morosa, che è un velo dinazi al quale si ferma lo sguardo degli uomini di vista corta. Al contrario, credo che detesti i veli, poiché il suo occhio si rivolge di preferenza agli abissi. Quando utilizza le maschere favolose di cui parlavo poco fa, è alla maniera degli stregoni africani, i quali sanno che mascherandosi ci si denuda tanto quanto ci si traveste, se non di più. Le diverse alienazioni mentali, i deliri e le fantasticherie provocati dalle droghe, sono ugualmente delle maschere che, portando l’uomo fuori di sé, spogliandolo del suo involucro comune, gli fanno toccare le sue profonde radici. Mi sono spesso stupito che numerosi commentatori avessero individuato un precursore o per lo meno un parente spirituale di Michaux in Voltaire che, a mio avviso, è completamente, sebbene in modo delizioso, superficiale, e che si guarda bene dal rivolgersi in alto o in basso tanto è imbarazzato dall’altitudine e dalla profondità. Michaux palesemente aborre il livello dove Voltaire con molta grazia si muove. Ecco due, verrebbe da dire, che non corrono certo il rischio di incontrarsi, eccetto quando Michaux, andando dall’alto in basso o viceversa, fora come un proiettile il piano intermedio!

Ora, io trovo che questa furiosa volontà di giungere a una conoscenza approfondita delle cose altro non sia che amore, e vorrei demolire l’immagine di un solitario irascibile, alieno da ogni comunicazione, votato alla fantasia feroce o alla fredda osservazione, immagine che forse dobbiamo alla prospettiva del dopoguerra, ma la cui falsità ci indigna. L’amore non è una fiammella, checché ne pensino le anime candide, e sappiamo che può accompagnarsi molto bene all’umore più tenebroso, anche se ciò dipendesse soltanto da uno scrupolo di pudore, sentimento di cui il carattere di Michaux è in tutta evidenza provvisto. Dietro lo spirito aggressivo (troppo deliberatamente esibito per non dare l’impressione di non essere altro che un «manifesto» allo scopo di tranquillizzare gli sciocchi, che hanno bisogno di un po’ di cattiveria per sentirsi a loro agio), percepiamo una corrente d’amore che probabilmente possiamo ritrovare solo presso i più grandi mistici. Questo amore si estende attraverso l’uomo (spinto, come ho detto, a divenire abisso, vortice) alla natura intera, è universale. Raramente Michaux ci commuove tanto come quando aspira a conoscere l’esistenza dell’animale, della pianta, del minerale e le metamorfosi attraverso le quali sarebbe possibile condurli a qualche integrazione con l’uomo facendo loro perdere l’aspetto inaccessibile e lontano. La tenerezza e la crudeltà sono inseparabili in questo amore vertiginoso, che si riversa sul mondo come un cataclisma e che senza pietà lo sconvolge per ottenere la rivelazione della sua essenza profonda. Talvolta (penso al Maestro di Ho), qualche verso altezzoso, qualche testo dalla fisionomia di parabola ci lasciano stupefatti davanti alla vita segreta dello scrittore, l’unico spirito moderno a proposito del quale la parola «religione» può essere pronunciata senza produrre un’eco derisoria…

Dirò infine di non aver parlato, scritto, che secondo il mio particolare punto di vista, e di non aver avuto intenzione di pronunciare un qualsiasi giudizio su Henri Michaux, l’ingiudicabile per eccellenza? Sì. Se volessimo dare il nostro parere sulla persona e l’opera di Michaux, saremmo noi, temo, a rischiare di essere giudicati. Tutto quello che possiamo desiderare è un atto d’indulgenza.

*Il testo è apparso in “Arca”, 5, 2000, per le edizioni Graphos.

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