
Nina Nasilli, L’Orsuta, Collana Serendip, Book editore, Riva del Po 2025.
L’Orsuta, ovvero la poesia come materia viva
L’Orsuta, l’ultima raccolta di Nina Nasilli edita da Book Editore, è attraversata da una tensione costante tra il dire e il tacere, tra la materia che insiste e il senso che sfugge. Fin dai testi iniziali la poesia di Nina Nasilli si muove in un campo di attrito: tra interno ed esterno, tra comando e disobbedienza, tra desiderio d’infinito e misura finita dei giorni. La parola poetica è chiamata a “dirsi” (Ditta, ditta), ma nel medesimo gesto avverte la propria insufficienza, il rischio della dispersione, della distrazione, della s-memoria. Ne nasce una lingua stratificata, che procede per scarti, accumuli, fenditure, come se ogni verso fosse un tentativo provvisorio di presa sul reale.
La raccolta costruisce così un paesaggio esistenziale fatto di residui, impronte, dettagli minimi che resistono all’insensatezza del tempo: la luce dopo la pioggia, il legno consunto, l’alga cocciuta. In questo spazio fragile la nostalgia non è semplice rimpianto, ma forza interrogante, che spinge a misurare ciò che siamo stati e ciò che avremmo potuto essere. L’io poetico non si pone mai come centro sovrano, ma come punto attraversato: onda sospinta dalla corrente, corpo esposto all’incertezza, materia in relazione.
È in questo orizzonte che la sezione centrale, L’Orsuta, si impone come vero e proprio cuore della raccolta. Qui la scrittura compie un salto: dall’osservazione del mondo e dei suoi segni si passa a una discesa radicale nell’interno. L’Orsuta non è una figura allegorica pacificata, ma una creatura ambigua e necessaria: insieme orsa e gabbia, dimora e divoratrice, ferita e possibilità di cura. Il suo vello è interno, intimo, cresce con il pensiero e punge, graffia, lacera. La conoscenza non illumina senza costo: prude, fa male, ma costringe a restare.
La forza di questa sezione risiede anche nel lavoro sulla lingua, che non è mai mero esercizio formale ma pratica incarnata: il testo si fa corpo, si addensa in allitterazioni, assonanze e sdoppiamenti semantici (irsuta/Orsuta, orsa/Orsuta), fino a rendere la lingua essa stessa pelliccia, tessuto vivo che protegge e al tempo stesso espone. È in questo processo che l’Orsuta “disimpara”: sottrae, smonta, rinuncia consapevolmente al canto come forma di abbandono o seduzione, per affidarsi ad una parola spoglia che non promette consolazione ma assume la responsabilità di restare. Il disimparare si configura così come gesto etico: rifiuto delle forme acquisite, delle retoriche rassicuranti, delle posture già sapute, in favore di una lingua che accetta il rischio dell’inadeguatezza e del dubbio.
È in questo spazio che l’invenzione — “Sì, l’invenzione: / a tratti ci salva. / Oppure no. / Ma il tempo del dubbio / è sospeso, non corre: / respira…” — assume il suo significato più profondo: non atto sovrano né salvezza definitiva, ma pratica intermittente di resistenza, gesto minimo e fragile che apre una pausa nel tempo dell’urgenza e della ferita. L’invenzione non cancella la piaga ma la piega, non redime la ferita ma la trasforma in luogo di cova, in uno spazio di fermento dove qualcosa, lentamente, può ancora accadere.
È in quest’ottica, in questo può ancora accadere, che la raccolta, dopo L’Orsuta, si apre a una dimensione ulteriore: la verticalità della memoria, il dialogo con le figure archetipiche (Didone, Cleopatra), con i morti, con i profeti nascosti tra le cose. Il silenzio non è più solo limite, ma spazio di risonanza e il sacro non è dogma, ma magma, fioritura minima e ostinata sull’argine del tempo. E la verità non si manifesta come rivelazione assoluta, ma come processo: un fluire che tiene insieme eros e perdita, corpo e preghiera, resistenza e vulnerabilità.
In questo senso, L’Orsuta è una raccolta che non cerca consolazioni facili. Piuttosto, la poesia di Nina Nasilli accetta l’attrito, l’opacità, il rischio dell’errore. E proprio in questa fedeltà al non pacificato, al ruvido, al vivo, trova la propria forza etica e conoscitiva: dire non per dominare il senso, ma per restare, come l’Orsuta, dentro la materia incandescente dell’esistenza, e da lì continuare – ostinatamente – a respirare.
