
Fausto Melotti, La nave di Ulisse
5
(Secondo frammento di lettera)
Sono appena arrivato. Quando partirà la nave? Gli uomini della ciurma sono al completo? Sappiamo già dei temporali e dei mostri che affronteremo. Ma non saranno dissimili da quelli che ci sòggiogano tutti i giorni. Ma parlarne rende forti. Ci ci ama saprà aspettarci o rimpiangerci, ma resisterà. Non importa essere vivi. Occorre essere vivi in sé. Ricordo che ieri, appena uscito dal cinema, vidi ombre affaticate, prostrate, che si trascinavano per la strada: la realtà dei miei compagni di vita. Così li evitai, rientrai, ripresi a vedere il film. Non una ma venti volte. Lì le ombre avevano spessore tragico, drammatico, grottesco, di ombre. Ammirai quella lotta. Capii che la finzione aveva un dovere: prendere alla gola il reale e staccargli la giugulare.
Guarda che luce potrei guardare
se dopo mesi di prigionia mi fossero concessi
gli occhi.
Ma le pupille sono strette dal buio.
Aspetto un sortilegio:
le passeggiate, sul lungomare della fortezza,
di guerrieri svegliati dal sonno, stupefatti,
amici intimi della nostra rivolta.
6
(Terzo frammento di lettera)
Hai smesso di scrivermi dopo la tua morte: un atto imperdonabile, privo di magia. Mi manchi. Avremmo dovuto trovare il modo di aggirare l’ineluttabile: tu da sempre li conosci, i mille trucchi. Ma non li hai usati. Non siamo stati forti. Ci siamo arresi alla maledetta evidenza del grande sonno, comune a tutti gli ex-viventi. Posso capire. Ma perdonarti no. Alcuni amici, grandi, vivi, svogliati, si sono rassegnati, ma solo in parte, al ciclo della creazione e della distruzione. Io fatico a farlo da sempre. Uno di loro disse che potevo essere il principe Myskin, ma si ingannava. Forse lo eri davvero tu, con il tuo andirivieni fra sogno da toccare e realtà da sfuggire. In questo frammento di lettera sento che ti ho appena scritto e che tu mi hai appena risposto. Vivrò per qualche mese con questa piccola gioia, che il tempo liquiderà. Ma, se resto cosciente, ti scriverò ancora.
Quante illusioni! Io so dalla punta delle mie dita, quelle che tu non smetti di stringere, ancora e ancora, che cosa è la gioia. Ma da quella gioia scaturisce una catastrofe futura: quella delle mie dita vuote di homo poeticus.
Quando la stanchezza va oltre, anche respirare non serve più.
Il tappeto, in cucina, non è un tappeto: lo sfiori, è pietra perfetta.
Abbiamo dormito per troppi giorni e abbiamo dimenticato la mèta. Le ossa pesano di più, quando ci si sveglia dal sonno.
7
Non andare oltre. Sei tu l’oltre.
Avere una sola cosa da dire. Morire mentre la si dice.
La doppia pagina: una luce, l’altra ombra.
Hai preparato le valigie? È ora di partire. Ci aspetta, con i suoi mostri, la città di Perla. Potremmo non andare, finalmente, dall’altra parte? È necessario, testa e lo zaino giusti. Fra pochi secondi.
Sosia nello specchio la stanza ondeggia.
Buia la parete, buia la mano.
Vuota.
Ragione che non resta.
Vedere oltre il muro origine e fine.
8
Trovare la civiltà adeguata alla mia musica. Ma esiste una civiltà? Esiste una musica? I barbari sono arrivati prima che io mi muovessi nel mondo.
Il mondo non è più leggibile. Giro attorno a me stesso. Colleziono racconti come se fossi dentro la Biblioteca di Borges, ma uno annulla l’altro. Li leggo come se esistessero.
Vorrei vederti ma sei troppo ordinata, tranquilla, troppo consona alle cose che accadono. Non va bene stare comodi in mezzo all’orribile che ti spacca la pelle. Preferisco non vederti.
A chi dovrei scrivere? Per chi? Da millenni ho perso il mio posto da scriba. Le cose ormai non chiedono testimoni ma complici.
Resistono, affissi al muro, i nomi degli scomparsi, ma per quanto resisteranno?
Al tramonto le pietre tornano splendide.
Ma è un miraggio. Chiudo gli occhi e vedo
buchi macchiati di sangue.
