LA MEMORIA DEL FUTURO. Frisa, Ercolani

La memoria del futuro. Ladislav Chodasevic, Nina Berberova

Parigi, settembre 1924.

Sono partita.

A me non piace quello che piace a te, Ladislav. Detesto le tue necropoli e i tuoi ricordi. Io ho voglia di cose vive, oggi. Di tombe ne avremo a sufficienza dopo. Scarsi gli anni a venire, come sai. E dunque fammi partire, vivere, viaggiare. Non posso restare in quella stanza d’ombre con te. Celebra tu il passato, e le sue angosce. Sii il poeta dei lunghi ricordi. A me lasciami correre. Un titolo continua a balenarmi dentro: Il corsivo è mio. Buon titolo: credo che lo userò per il mio diario. Già, scrivo un diario, ma più che altro è un carnet di viaggi, di incontri, di amori. Se non fossi una scrittrice, che simpatica cortigiana sarei stata! Ma lascerò il segno anche con le parole.

Vivrò. Ogni segno è vita. Avanti, avanti, fino a cadere.

Tu non ami il sesso. Sei sempre stanco, un po’ freddo. Per me, invece, per me Nina Berberova la felicità sessuale, unita all’amore vero, è la perfetta bellezza del cosmo, la matrice della creazione, la sola strada per la felicità. Ma io, come sai, non sono normale. Preferisco morire piuttosto che sentir spegnere in me questa fiamma che da sempre mi consuma. Detesto la memoria del futuro, perché voglio costruirlo giorno per giorno e scrivere delle cose vive che vivrò, non dei miei fossili rimpianti di scrittrice. Molti enigmi si risolvono con il cuore, e non con l’istinto. Ne riparleremo.

Ma adesso ti lascio. Fossimo sulla luna, comunicheremmo meglio. Parto per un luogo, in Italia. C’è una via che si chiama Rocca dell’Abisso. Un luogo ventoso, senza numero di strada. Una bella avventura passarci. Ma insieme a un uomo vero. Vorrei, adesso, la lingua, il membro, le mani di un amante meraviglioso, e sapere, con lui, dentro di lui, che ci saranno ancora nuove e incredibili gioie durante la vita. A me accadono sempre nuove cose, perché io sono sempre in cammino. Fossi accanto a me e non nelle tue piccole necropoli ne vedresti di tutti i colori, piccolo Ladislav. Una vera aurora boreale.

Ciao, tua Nina

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Berlino, dicembre 1924

Sono partito anch’io, Nina. Sono andato a Berlino.

Berlino mi fa tremare, Nina. Altro che aurore boreali. Su ogni muro ci sono sigle sconosciute, oscuri richiami. Mi tocca, per salvarmi dalla vita, camminare, giorno dopo giorno, come se il mio corpo fosse il muro nel quale nascondermi, come se la mia voce fosse qualcosa di perverso che non può uscire dalla bocca finché, dalla sabbia, quel bambino continua a guardarmi come una pietra sopravvissuta a eroi, regni, odissee. Ho paura, ma ho bisogno della mia paura. Mi fascia come un guanto fascia la mano, come la neve ricopre l’intera pianura non lasciando spazio al verde dell’erba, e tutto è bianco, candido, abbagliante, come se il pianeta non fosse mai esistito al di là della crosta di ghiaccio in cui è sepolto, della neve immobile nella quale io passo e respiro pensando a te, Nina, e con la punta del bastone ne spezzo il candore, traccio orme di animali favolosi, che si mescolano alle mie…

A ciò che gli uomini definiscono armonia, Nina, preferisco il brivido della paura e il sudore della febbre: la testa recisa sul binario quattordici, il coltello sotto il capezzolo della dolce Mariechen, il rumore della massa d’acqua sul corpo annegato, la maschera mortale di Puskin, il triste mattino di tormenta dell’anno millenovecentoquindici, la lingua che trattiene il dissolversi delle cose, lo scaffale fluido, i libri disfatti, la paglia fra i denti del rastrello, il remo smarrito nei campi, l’amico logorato dai viaggi a Parigi. A matrimoni felici e sofferenze serene preferisco la mia stanza dove, ritmicamente, i muri cominciano a girare, l’aria mi porge la penna pesante, gravida di suoni, e vedo il mio alter ego sprofondato nel divano, una sigaretta fra le labbra, le gambe accavallate, che mi guarda con occhi non di carne e mi suggerisce di osservare se la montagna è immobile, se il cielo esiste ancora o se gli alberi non si sono polverizzati nel buio.

Il tempo, in assenza di parole, è inumano. La scrittura è solo un atto di pietà che rallenta la caduta delle ore e consente respiri più ampi, salvandoci dalla certezza che siamo vite in rovina, precipitate nel buio. Nell’oasi deserta, quando divampa l’incendio, non soffriamo l’angoscia delle grida, non sentiamo i tetti crollare, non guardiamo gli uomini fuggire come ombre nel fumo. La fiamma svetta sopra la sabbia, con lingue agili e abbaglianti. Dritta e pura, si perde nell’aria. Volatilizzato in cenere, il fuoco si estingue negli spazi del cielo. Ma non è così, Nina, quando scriviamo. Allora è forma che abita dentro di noi, fiamma fredda, immobile mercurio. La pagina conserva i segni dell’incendio come una maschera di gesso l’impronta del volto vivente. Ma sotto la maschera scrive Puskin, canta Blok, e la speranza, per loro come per me, è la memoria del futuro…

Tuo Ladislav

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Ladislav Chodasevic nasce a Mosca nel 1886. I suoi primi volumi di poesie sono pubblicati in Russia, dal 1908 al 1922:GiovinezzaLa casetta felicePer la via del grano,  La pesante lira. I versi da lui scritti all’estero sono riassunti col titolo La notte europea, nel 1927. Tra il 1929 e il 1938 si dedica alla critica e alle rievocazioni letterarie, e scrive il volume di saggi Necropoli.

Nina Berberova, autrice de Il giunco mormorante e dell’autobiografia Il corsivo è mio, è negli anni Venti la moglie di Chodasevic, prima di emigrare definitivamente dalla Russia.

*I testi sono tratti da: Marco Ercolani e Lucetta Frisa, Furto d’anima. 40 lettere reali e immaginarie tra uomini e donne nella storia e nell’arte , Greco & Greco, Milano 2018.

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