ROBERT WALSER

Per un nuovo finale di Preferisco sparire.

Congedo

La voglia di parlare con te si è spenta. Preferirei giocare a scacchi, se sapessi giocare, perché potrei farlo con me stesso. Preferirei sentire una partita di Bach per violino solo, anche se Bach non mi fa sentire l’acqua che scorre ma la solenne pietra illuminata dei grandi pensieri. Mi disturba che tu prenda appunti e faccia pochissime domande. A cosa ti servo? A tener viva la leggenda degli ultimi anni del matto scrittore che è ancora scrittore? Smetto di compiacerti. Senza rancore, davvero. Torna alle tue cartelle cliniche. Voglio essere veramente solo, e con te non posso. Anche parlarti di me è stupido orgoglio, e tu che annoti le mie frasi non sei certo Eckermann che parla con Goethe. Io voglio essere la pietra che non ha coscienza di vita. Il matto vero. Da tanto lo desidero. E solo le parole possono avere la magia di trasformarmi in quel sasso perfetto senza parole. Non ci sono scritture minuscole. I miei 727 foglietti sono un delirio.

Libro

Ti lamenti di non leggere niente di mio, Weiss, ma non disperare. Lo sto copiando proprio ora per te. È stato nella mia mente per vent’anni. Ora apparirà su carta. Ora, ma con calma. Non oggi. Non domani. Ogni libro è la vita stessa, è cartavita. Anche non letto, anche gettato via, agirà. Sprigionerà magie. I libri restano anche quando le pagine marciscono nelle fogne e un bimbo un giorno le userà come barchette negli stagni di Biel. Restano, e mettono il mondo a soqquadro. O dolce disordine! O terra ballerina! La mia etica è scrivere per scongiurare il terremoto. Scrivere e riscrivere: atto soprannaturale che nasce dentro il frutto spaccato come un seme nuovo, una nuova fiamma. Ecco la cenere dei miei vent’anni di Herisau: il retro di una lettera indirizzata al Direttore del Manicomio dove un ospite di Herisau, tale Thomas Werfel, dice di non essere lui quel Thomas Werfel ricoverato per schizofrenia ma di chiamarsi Robert Walser. È solo un foglietto, Weiss (gli altri 726 forse esistono, forse no, tu cercali se vuoi…), dove devi distinguere la grande e nervosa calligrafia di Werfel dalla mia, fitta e minuscola…

Le belle nuvole

Vedo di fronte a me, per così tanto tempo, così tante belle nuvole, che non posso ingannare se non con un artificioso trastullo, una tale quantità, un tale mucchio di tempo, che non posso esser lieto di tutto cuore di aver trovato questo passatempo. Non mi si vuole e non mi si può dare un’occupazione, non si ha bisogno di me, sono completamente al di fuori di ogni necessità. Ebbene, allora sarò io a servirmi di me stesso, sceglierò da solo il mio scopo e mi considero sufficientemente portato per svolgere qualsiasi lavoro, fosse anche il più strano ed inutile. Sono robusto e pesante e pieno di sentimenti e di capacità pratiche non comuni. Per quanto possa anche essere miserevole la mia attuale condizione in questa Herisau, io mi sento comunque stranamente libero e coraggioso, e il mio cuore è abile e coraggioso nello scovare pensieri consolanti. Solo di tanto in tanto, per dirla apertamente, mi sento triste e privo di speranze, penso al mio futuro come a qualcosa di perduto e di oscuro, ma si tratta solo di momenti, nulla più.

Essere e sparire

Chi dice sentire dice memoria, chi dice memoria dice movimento, chi dice movimento dice quella concretezza piantata da qualche parte, che prende slancio da un punto preciso. Le belle nuvole fuggitive e grandiose non sono attaccate a nulla e quindi non producono nessuno scuotimento. Ci sono montagne di nuvole e fortezze di nuvole la cui posizione ha qualcosa della noncuranza dei cigni che nuotano, dell’indolenza di donne che si lasciano andare a un sorriso, a un gesto. Le variazioni del bello e del sublime culminano in una docilità silenziosa e totale, come accade per idee elevate, opere di pietà, di giustizia o d’amore. In un silenzio inudibile il più maestoso dei concetti si allontana, soffiato via dal buco arcaico dove scaturisce il vento, dove essere e sparire si confondono. In quest’istante, per esempio, gli alberi sono scossi dal vento per la ragione, immediatamente percettibile, che sono perseveranti. Nella misura in cui i rami si rilasciano può nascere quel senso di scuotimento. Se non fossero ben radicati non si potrebbe parlare delle loro foglie e, di conseguenza, non ci sarebbe ragione di sentire nulla.

Chi è lui?

Non so come si chiama. Non si sveglia mai. Vive solo nel sonno. Cresce ma continua a dormire. Vive negli ospedali. Io lo vedo mentre dorme, io, povero calzolaio, amico di amici (lui non ha né padre né madre). Mi chiedo cosa stia sognando. Non lo so. Ma lui preferisce non svegliarsi. All’età di sedici anni, ne sono testimone, finalmente muore. Forse è andato a riposare in qualche altro regno, senza lasciarci un cenno.

I pittori

La materia del mondo la appiattiscono nella tela, con bellissimi colori, e lì la guardano stupiti. Sono i pittori. Fissano mappe, cartografie, mondi paralleli, sfavillanti. Non si accorgono che fuori si è già scatenato l’ultimo temporale della terra, che nessuno è più vivo, e che stanno decorando l’interno delle loro tombe con offerte segrete. O forse se ne sono accorti, lo sanno da sempre e sorridono proprio per questo.

In sogno

Mentre camminavo per le colline, da ore e ore, seppi che stavo sognando e cercai di svegliarmi. Ma fu inutile. Continuai a camminare per boschi e radure, senza sentire la fatica, e quando lei mi guardò e sorrise, non provai nessun rimpianto per il mondo, lontanissimo, nel quale non riuscivo a tornare.

Musica

La musica non mi è mai piaciuta completamente. Era così bello non sentire suoni. Ma un giorno fui costretto a rimanere dietro a una cascata, perché il sentiero si era interrotto, e da allora capii tutti gli incantesimi che possono essere generati dalla ininterrotta dolcezza del suono. Come faranno, i libri, a restituire quell’incanto se non mancandolo sempre? Se non restandosene muti a desiderarlo? Non è necessario trovare una finestra perché il paesaggio abbia un senso. Senza delle finestre da cui possa essere visto, tutto questo mare di campi e di alberi è una musica indefinita, senza strumenti. Arte della fuga?

Riga per riga

Mi ritrovo dove non credevo di essere, tutte le ipotesi sul tappeto, un passato che parla del mio ininterrotto futuro. Di certe vite che si dicono sommerse non si deve piangere mai: sono opere delicate, nomi interrotti. Occorre guardarle dal vetro, ma senza gridare. Tutto questo sparire è grande chiarezza nella notte e nel sonno, è dimenticarsi sulle rive del fiume. Non avere quasi nulla. Terra senza di noi, da vedere a notte alta. Io studio la paura riga per riga: diari di poeti, viaggi, vertigini, nuvole sparse. Tutto, ancòra, esiste, specchio di quando smetterà di essere.

Cantilena

Trascrivo la cantilena con frasi dettate dall’incanto della luna, e così sparisce il mondo – neve monti giardini. Ripeto la cantilena, termino il libro, ed esco nel mondo vuoto. Domani non ci saremo più. Tutti. Scrivo perché nulla fermi i miei pensieri, sono fiori delicatissimi, appartengono a tutti. Cado, mentre cammino, ma non più in disparte. Invito gli altri a guardarmi e applaudire con gioia. Odio gli esseri tristi. Ho sempre obbedito al mio sorridente e distratto dio.

Basta

Il mio dialogo con te è quanto ho espresso negli ultimi vent’anni a Herisau. Ora basta, con la mia risposta e con la tua curiosità. Basta con la scrittura, la paura, il dolore. Perché a Waldau scrivevo e a Herisau ho smesso? Risponderò semplicemente: sono molto, molto peggiorato. Nessuno mi ha più visto con una penna in mano. Dopo Waldau non mi sono più interessato ai miei libri ma alla mia follia. È quello il mio unico libro, e non vorrei che mi sfuggissero le frasi migliori. No, nessun inferno: è un vivere sottovoce, dentro la trasparenza di me, un po’ come Bartleby nel grande ufficio da cui non voleva muoversi più. Siamo tutti vuoti, nel momento stesso in cui ci dedichiamo alla scrittura. La scrittura non è nient’altro che l’incarnazione della vanità, è nulla. Io rinuncio in tutto e per tutto alla mia vanità. Perdo le parole, sacrifico me stesso, mi salvo.

Segreto

Si dirà che scrivo in segreto, quando nessuno mi vede, anche dentro le suole delle scarpe. Se fosse vero, e questa è la grazia, mi dimentico di farlo. Dimenticare è salute. Ricordare, solo ossessione e mania. Tutte queste cose, adesso, le mura dell’ospedale, le facce dei malati, ho l’impressione che si accartoccino. Ma non c’è nessun incendio, solo che si trasformano e le osservo trasformarsi. Non mi sento tranquillo. Sì, certo, intrecciando canestri, annodando pacchi, leggendo vecchie riviste, conversando con te, mio innocuo scienziato, mi calmo. Capisco che tutto è sonno e non mi impongo nulla. Il mondo mi invita a diventare lo zero che sono, a non avere speranza. Appena inizio a sperare, le cose finiscono per essere troppo vive, per ardere come puro fuoco. Ma dopo bruciano, oh pena e orrore! No, mai, basta col fuoco! Fischietto impassibile, il largo cappello bene aderente alla testa, così i pensieri non volano via come api. Cammino nel freddo. Nel freddo cammino. Non devo vederti più, non voglio vederti più. Buon Natale, Weiss.

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