Per Fluo di Isabella Santacroce

Fluo è il romanzo d’esordio di Isabella Santacroce. Il clima culturale italiano andava appiattendosi insieme col dilagare del consumismo. Era il 1995 e gli italiani avevano eletto Silvio Berlusconi primo ministro. Avevamo, nel cinema, il militante Nanni Moretti che, in Aprile, disperato con sua madre davanti alle elezioni del ’94, annunciava che il declino del Paese lo aveva portato a fumarsi il suo primo spinello. E ci portavamo gli strascichi di Tangentopoli. Televisioni private, ambiguità morale. Borghesizzazione delle classi, appiattimento consumistico, come già Pasolini avvisava negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane.
Nanni Moretti si fuma il primo spinello della sua vita; Isabella Santacroce costruisce una protagonista, Starlet, che preferisce le droghe sintetiche.
Conosciamo Starlet che fa caldo, è luglio, è Riccione. La nostra ascolta i Beastie Boys per “cercare divagazioni al mal d’animo” (Fluo, Isabella Santacroce, Il Saggiatore, 2025) mentre i genitori litigano per via dell’under 20 amante del padre. Poi con le amiche Moni e Nina al club. Ed è l’eccesso: il copulare per anestetizzarsi e, per anestetizzarsi, la droga. La trasgressione, capiamo fin da subito (Santacroce non si preoccupa del rischio di apparire moraleggiante, definendosi di fatto come ideologa, e non solo testimone di certe culture giovanili) un riflesso a condizioni di penuria interiore.
Quella di Fluo è una narrazione cumulativa dove l’eccesso è tanto reiterato che, dopo trenta pagine, non provoca più scalpore ma è l’esito di un movimento spiraliforme, di un eterno ritorno dei medesimi antidoti alla vita.
L’analogia con Bret Easton Ellis, forse l’unico rappresentante degli anni Novanta americani, appare naturale. E per le tematiche scelte (il disagio e l’eccesso giovanile; la droga e il sesso come compulsioni della generazione MTV) e per la forma. La struttura delle frasi della Santacroce vuole essere quella di un lungo monologo che riproduca il parlato, dove il lirico di certe frasi emerga naturalmente dal discorso emesso a voce. La paratassi è estrema, con un utilizzo della subordinazione ridotto a zero e il polisindeto che accumula accumula e accumula dettagli, i quali dettagli sono sempre scabrosità e devastazione.
L’Italia rappresentata è reale. Si cita Emilio Fede, per dirne una, ma anche figure come Craxi. Eppure, abbiamo l’impressione che il dissiparsi volontario della nostra Starlet avvenga in una bolla autonoma, in un microcosmo che è riuscita a creare per garantirsi sopravvivenza in un mondo molto ma molto più marcio di lei, che non si vende se non vuole, laddove il paese intero è stato messo all’asta. Nella Riccione la cui toponomastica è precisa e coerente, Starlet frequenta luoghi che sono, in un certo senso, lynchiani. Laddove David Lynch mostrava un’America riconoscibile solo per condurci in meandri che erano incubo sotterraneo, ecosistema privato, così fa la Santacroce mentre segue le vicende della narratrice.
Tornando alla prosa, un esempio di ellissi è:
Moni dice che molte santerelline perfettamente Cielle rincorri palla in cortili sacrestani sono delle vere troie. Convinzione nata da qualche esperienza parrocchiale vomita code di cavallo e gonna appena sotto il ginocchio.
Laddove un esempio di spinta paratassi lo troviamo qui:
Alle venti sono ancora sola. Ho bevuto tutta la birra che c’era in frigo. Infilo short di Vivienne, maglietta stretch comprata da Uso Esterno e sandali di pelle lucida. Cerco Camel nello zaino di Edie, trovo la foto di un certo Manuel seduto nel salotto del Maurizio Costanza Show. Nessuno apre la porta. Ingoio due En e chiudo gli occhi.
Starlet, notiamo, ha coscienza politica. Un lungo capitolo di Fluo lo dimostra. È quello dove constata di essere sottopeso con gioia (ecco la disfunzione, ecco i canoni imposti, ecco le veline), è quello dove si rende conto che, solo perché si veste da puttana (lei lo dice di sé; anzi dice di sé che, sembrando puttana, puttana è) e ha i capelli colorati, è vittima di occhiatacce. Ma per lei, dice, è molto più squallido vedere la bruttezza di certe pance molli o tette cadenti. Eppure, è lei che viene guardata e trattata da lebbrosa.
Le prospettive future dei giovani di Santacroce sono assenti in un paese al collasso, e dissiparsi tra droghe e sesso è un atto politico che può fungere da resistenza a un mondo che richiede sempre più e fornisce sempre meno. Perché mai accettare i compromessi con una società che esclude certe ontologie private, certi privati mondi? “Non scegliere la vita”, per citare un altro caposaldo degli anni Novanta, cioè Trainspotting – prima Welsh e poi, al cinema, Boyle – è dignità, è scelta valida in questo mondo perfido, dove i ruoli simbolici della famiglia crollano, dove la televisione non propone più Pasolini ma tv show.
In questo contesto, i numerosi riferimenti alla cultura pop danno l’idea di un assedio: il soggetto postmoderno è assediato dalle immagini dei media, e si spossessa perché ipersaturato. L’iterazione, anche senza deragliamenti, nella prosa di Santacroce, è quanto di meglio possa rappresentare il dolore, il tempo del trauma essendo ricorsivo.
Di Starlet, pure, conosciamo un altro lato, che è l’innocenza perduta ma ricordata. Oscilla, Starlet, tra la dissipazione, non poco lontana dal suicidio – quantunque suicidio legittimo, e anzi riflesso di un mondo atroce e dunque, forse, omicidio – e la purezza andata via. E l’iterazione ossessiva restituisce, nel fiume di accadimenti sempre più eccessivi, come la morte dell’amico olandese di Starlet che chiude il libro, l’immobilità esistenziale – indotta – di una intera generazione.
Eppure, l’ultimo slancio del libro è il vitalismo dionisiaco. Questa dissipazione, questo suicidio, hanno, al contempo, un altro volto: quello del furore, della rabbia giovanile. E si oscilla tra l’istinto a disfarsi e la rabbia, tra l’autoannichilimento e, proprio nell’annichilirsi, la vita. Perché Starlet vuole l’amore, in fondo, poco più che ragazzina, “come un gelato al limone mangiato in riva al mare in un pomeriggio di maggio quando il più bello sta per cominciare e continuare come prima, così veloce e così immortale”. Così si chiude Fluo di Isabella Santacroce. Con una domanda, in fondo: la dissipazione di Starlet, nel mondo che Santacroce delinea – un mondo che come lei è dissipato – è forma di pulsione vitale energetica dionisiaca, o un modo per accomiatarsi da un mondo che, come Starlet stessa dice, rifiuta chi si colora i capelli?
