Stefano Grondona (Genova, 1952-2019).




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Giovanissimo, lavora con cartoni, fotografie, fumetti, e compone, in materiali diversi, originali forme ossessive. Negli anni novanta, in un impulso di follia, toglie la vita alla madre. Ricoverato in reparto psichiatrico, chiede carta da disegno dove comincia a tracciare volti atterriti, spaventosi. Dopo un lungo periodo di ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove non smette di produrre opere e di fare mostre, è stato ospite, prima della morte, di una comunità ligure.
Negli anni più dolorosi della segregazione Grondona non smette mai di praticare la sua arte. Affascinato dalla musica estrema e di avanguardia, continua a bere, perché – come spesso confessa – bere gli piace. Scrive, nel suo Teatro della mente (Titivillus editore), che vorrebbe lasciare qualcosa di sé – un “segnetto nel mondo”. Lavora in modo suggestivo e spiazzante. Inventa sculture di cartone, ma intagliandole dall’interno. Sono sculture con molto vuoto all’interno, incentrate su temi e figure espressioniste (la «Giovanna d’Arco» di Dreyer, dettagli della vita quotidiana.) Uno degli autori prediletti dall’artista è Francis Bacon e così Grondona scrive di lui: «Quel ciuffo di capelli che divide in due parti la fronte di Francis Bacon non vuole forse dichiararci apertamente quale terribile confusione alberghi nella sua mente nel momento stesso in cui egli, con un’audacia che ha dell’empietà, ci impone ambienti e personaggi in maniera così categorica da poter avvalersi anche solamente dell’unica ragione che è quella la sua visione del mondo? Difficilmente capita che un artista fornisca delle soluzioni; egli non può fare a meno di esibire l’angoscia di esistere, consapevole del fatto che soltanto un aumento di sensibilità e la capacità di saper trascrivere lo possono distinguere dagli altri esseri umani, i quali, a modo loro, vivono i suoi stessi guai».
Il “segnetto nel mondo” è la violenza dettagliata, minuziosa, esatta, con cui vuole sottrarre all’informe qualsiasi nebulosità e restituirlo a una nitidezza gelida, con le figure che si muovono misteriose dallo sfondo e, nel taglio da cui si profilano, avanzano verso lo spettatore – spettri non dell’accumulo ma della spoliazione, della fessura, delle ferite. Grondona, attento alle tattiche distruttive e riparative dell’arte, continua a vivere la frammentazione dell’oggetto amato-odiato – il corpo della madre letteralmente tagliuzzato, dissanguato, separato dalla vita – come un pullulare di pieni e di vuoti in cui quella tragedia continua a ritornare, con la disperazione dell’evidenza e l’illusione della riparazione. C’è, ancora e sempre, per Grondona, un corpo da sfregiare e rimodellare, come se la madre fosse da uccidere ancora.
Scrive di lui Flavia Motolese: «L’atto creativo è totalmente libero, risponde solo alle sue esigenze narrative ed espressive, ma nelle sue opere nulla è casuale: come un esperto regista Grondona immagina la trama, predispone la scena e la fotografa, incidendola nella carta – il procedimento elaborato è frutto di anni di sperimentazione in campo fotografico. Artista visionario e geniale, è capace di tratteggiare scene di perfetta orchestrazione, stilizzando le figure e riducendo al minimo gli elementi compositivi. […] La lama che incide con chirurgica perizia i cartoncini colorati corrisponde alla lama intellettuale che disseziona la mente e l’anima senza lasciare margini di fuga a soluzioni consolatorie… Le opere di Grondona si possono ricondurre a filoni tematici la cui ispirazione spazia dal campo letterario a quello cinematografico: l’immagine sacra, la città nuda, gli strumenti musicali, i Cristi, i vizi, le scene dell’Apocalisse. Influenzato dal Surrealismo, dalla Pop Art, dall’Espressionismo e dall’opera di Bacon e Munch, se ne discosta attraverso l’elaborazione di un linguaggio del tutto originale che non è possibile relegare nella definizione di una sola corrente artistica. […] Grondona ha saputo rappresentare i tormenti della società contemporanea in cui verità oggettiva e capacità immaginative si mescolano in una concezione filosofica simile a quella che Herzog definiva “verità estatica”: più profonda di quella apparente, banale e superficiale, che si ottiene riproducendo i fatti reali, una verità che scuote l’anima e che si può raggiungere solo attraverso invenzione e immaginazione e stilizzazione».
Il «segnetto nel mondo», come testimoniano le ultime opere su cartone, non è il segno perentorio dell’artista che domina la sua materia, ma qualcosa di meno e qualcosa di più. Un tagliente scarabocchio. Un «quasi nulla» come direbbe Sartre parlando di Wols. Grondona scrive ancora: «Per fare arte bisogna sempre pensare delle cose semplici… Ciò che narro è un ricordo perduto nel tempo, un istante ricreato artificiosamente impossibilitato a perdurare, esso è solo una piccola parte di un lungo avvenimento inspiegabile, solamente un frammento, anche se sempre più particolareggiato».
| Grondona riorganizza una costruzione del mondo a partire dalla distruzione del corpo della madre, evento clamoroso e violento della sua vita individuale. La geometria delle sue sculture di cartone, solidi esempi di «vuoto», l’amore per Bacon e la necessità dell’angoscia, sono i compagni quotidiani di questo artista oggi devastato dalla precoce vecchiaia e dalla disperazione psichica ma risoluto a lavorare sempre alla sua opera. La sua ultima mostra, impressionante e feroce, ha come titolo I quadri hanno gli occhi e mi rodono l’anima (Palazzo Stella, 2015), dove Grondona costruisce sculture tridimensionali stratificando cartoncini intagliati e distanziandoli con un materiale plastico che gli permette di infondere profondità alla composizione e di accentuarne l’effetto drammatico, la “verità estatica”: questo, in sintesi, è e resterà il suo “segnetto nel mondo”. |
