PER “OPERA BUFFA”. Luciano Neri

Così Luciano Neri descrive il canovaccio del suo ultimo libro, Opera Buffa (Tic Edizioni, UltraChapBooks 2025): «Opera buffa, per come è stato pensato e scritto, merita qualche delucidazione. Prima cosa da dire è che si tratta del canovaccio di un episodio storico che riguarda la fuga di Mussolini, prima di essere catturato e fucilato. Alessandro Pavolini è l’alterego, il falso eroe, anche lui destinato alla fucilazione, che diventa protagonista mentre Mussolini è ormai la controfigura di se stesso. Questo canovaccio si dispone in scene e quadri, con una struttura da operetta, ma il testo alla fine è quello che è, attraversando i generi, né romanzo né opera». Nel libro si rincorrono immagini e temi: il bosco, la guida, gli uomini in colonna, le azioni e le direzioni, del viaggio: davanti al lettore scorre un romanzo criptico nell’elencazione delle immagini ricorrenti, nella disubbidienza a una sintassi prevedibile. La partitura sfuggente del viaggio è un’odissea faticosa, dove gli ordini si mescolano alle rinunce, fotografata con brevi scatti nella pagina, dove a volte appaiono dei nomi, forse parodici, come Bellamorte e Thule. Tutto è polverizzato in un camminare privo di senso, ma il lettore avverte un ordine musicale e compatto nei quadri/sequenze che si succedono, con lo sguardo sfiora linee, corpi, curve, passaggi, cose. Ma di quale ordine parla questo libro senza eroi, che elude le interpretazioni e delude gli appagamenti? Il titolo, Opera buffa, suggerisce che la tragedia è anche farsa, che quella fuga, descritta in dettagli concreti e astratti, è avvolta in un alone: il lettore, inoltrandosi nel cammino del libro, diventa uno dei tanti uomini descritti nelle singole scene come fantasmi. Si percepisce l’ombra di Werner Herzog, e le immagini diventano, involontariamente, le tracce di un esodo, proiettate nel libro pagina dopo pagina. Senso e sintassi si fanno strumenti inservibili. Il libro, orientato dentro una temperatura sconsolata, sperimenta non un linguaggio frammentato ma la struttura ossessiva della descrizione. Chi legge sarà costretto a rileggere, perché il libro crea un effetto di ascesa e discesa, sussultorio, ondulatorio, e sembra mutare a ogni lettura: nel suo teatrale susseguirsi di scene lascia una scia (quale?), evidenzia un cammino bloccato, insensato. Le astrazioni della lingua non sono misteri da svelare ma pezzi di vuoto dispersi nel viaggio di un Sisifo abulico e svuotato: ma è e resta un viaggio, che cerca un “rifugio oltre confine alla fine solo mentale”. La prosa di Luciano Neri trova qui una poesia controcorrente che rifiuta il cimitero di qualsiasi definizione per galleggiare in una sua desolata ipnosi, “né romanzo né opera” ma atto sotterraneo di rivolta. (M.E.)

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Scena quarta

Verso l’ultima Thule è il punto delle lunghe albe di azioni che si perdono, avvicinate da nuvole svelate, azioni scese sulla terra, insieme al cielo in cambio di doni (inno), azioni verso il fuoco del gran rogo e le acque del lago, due dei quattro elementi che restringono/restringerebbero il campo, con le fiamme in evidenza tra loro, e gli altri ad avvicinarsi alle acque e/o al fuoco per l’ultimo appello, ad azioni degli smarriti, adesso più sconfortati per credere all’inno, al pensiero che avrebbero voluto intonargli di fronte una volta apparso, in mezzo a una ragione che adesso lo intonano, qualcuno da incontrare a loro più simile se non identico e/o se non uguale al posto della presenza, a procedere sempre in avanti a imitazione di un modello, o indietro per venirne a capo.

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Scena ottava

E a dire che nessuna notizia non controllata a sufficienza, abbia saputo precisare quanto fosse raccomandabile quella nuova compagnia che si era/si sarebbe resa disponibile a condurre la guida e i suoi uomini da qualche parte verso (…), un rifugio oltre confine alla fine solo mentale dell’azione in vista di presentarsi altrove e/o nei pressi del paese di Bellamorte, non è certo questo un dato confidenziale più di altri adesso per degli acuti osservanti, ossequiosi persino allo scopo di sfuggire a sé stressi, persino per voler oltrepassare l’ostacolo, bloccati da più ore in uno stesso punto.

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Fine

Fermi alcuni minuti che si rivolge a lungo una biografia alla guida nella linea di una colonna che si è separata definitivamente, distanziata del tutto dall’osservatore, convinti di fissarla con delle frasi, con i dialoghi dei sottintesi resi agli impliciti che uno non può dure quello che vorrebbe in mezzo alla natura, in un luogo remoto delle azioni che si stanno perdendo, all’epilogo dell’ultimo atto, nel momento di una fine così attuale che adesso è il meno partecipe, a seguito di una pausa istantanea accordata da esemplari umani di caccia all’uomo dell’epopea. Lui proprio che ci mette/ha messo del suo a quello che è rimasto appeso della trama maggiore, in anticipo solo di qualche anno adesso alle inseparabili solitudini, da sé stesso a emanazione quando le sue presenze nei boschi si sarebbero emancipate, adesso fermo e immobile di schiena, dinanzi ai creatori dell’epoca.

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