LE ORE CORTE, 3. Donato di Poce

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ESPLOSIONI DI VERITA’

Le ore corte. In dialogo con Angelo Lumelli

“…talvolta nel cuore si accende una spia

come l’assenza che non va via”

Angelo Lumelli

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Marco Ercolani mi ha chiesto cosa ne penso di questo suo libro “strano”. (Le ore corte, Joker Edizioni, 2025). In primis dico: è un libro che cura (del resto Marco nel suo blog Scritture afferma: Scrivere e curare, che può essere declinato anche nella formula Scrivere è curare, la propria anima e l’anima del mondo).

Poi aggiungerei che non solo non lo trovo “strano”, ma lo trovo innovativo, originale e necessario, oltre che una sorta di postilla a completamento e approfondimento critico al precedente libro scritto a quattro mani con Lumelli, Cento lettere (Joker Edizioni, 2023). Tutto nasce da un’amicizia e stima letteraria (interrotta solo dalla scomparsa recente di Angelo Lumelli), che sfocia in un carteggio tra due poeti e critici che si sono interrogati ed hanno scritto da sempre sulla scrittura e sulla poesia.

Ne sono nati due libri complementari poetici e metacritici il cui denominatore comune era “PENSARE LA POESIA”, declinata in molte varianti e riassumibile come “disarmante, umile, diligente, e caritatevole” per Lumelli e come ”un azzardo solitario, un vuoto abitato e una lezione di vento, una visione creativa tra le crepe della follia” in Ercolani. Il libro mi ha ricordato il famoso carteggio tra Cvetaeva, Rilke e Pasternak, Il settimo sogno, scrigno amoroso e poetico di rara bellezza.

Ma se in Cento lettere i due poeti si scambiano commenti e visioni su libri, idee e poetiche, in Le ore corte Ercolani escogita un congegno narrativo-critico poetico che rimanda ai frammenti cosmogonici di Benjamin, una sorta di pensiero dialettico della poesia, realizzando un’antologia critica su Lumelli chiamando a testimoniare da una parte gli scritti di Lumelli, dall’altra i suoi commenti personali, citazioni e postille, e richiamando stralci critici di suoi amici, come Cagnone e Coviello.

Ecco un esempio dello sguardo critico nobile, avvolgente e abbagliante di Ercolani:

La poesia che abbaglia. La prosa che si fa dire e disdire. Angelo è immerso nel guado di entrambi i fiumi. E si sente, giustamente, con le spalle al muro, con quella sua aria da conversatore malgré lui, felicemente innamorato delle circonvoluzioni del suo pensiero. Con Lumelli non possiamo che ammirare un pensiero laterale, lontano da ogni centralità: un pensiero-chimera. Volatile e fluttuante, veloce e mobilissima, Chimera appare e scompare, scoraggiando ogni tentativo di senso. Non pone domande, non cerca risposte. La sua virtù è l’inesauribilità, la sua tentazione l’onnipotenza. Non docile, non addomesticabile, la sua aerea sostanza continuamente ci sfugge. La differenza con la Sfinge è quella che separa l’enigma – il segreto di cui si può trovare la soluzione – e il mistero – il segreto la cui soluzione è impossibile. ‘Fantasia dell’illimitato’, ‘Metafora di metafore’, Chimera è affine all’immaginazione assoluta, e quindi al delirio”.

E nella premessa al libro scrive ancora:

Chi scrive di Angelo non commenta la lingua del poeta ma si allea ad essa, si insinua nelle sue pieghe, la evoca, la nomina, la interroga, ci viaggia dentro sapendo che ne sarà sviato. Il poeta sorride sornione, già lontano dal mondoTi ammiro”, bisbiglia, “ma non avrai sbagliato strada?”

Ercolani evidenzia bene come Lumelli sia uno scrittore che infrange gli schemi e le sue parole sono “il bisbiglio di un coro invisibile” sempre alla ricerca di nuovi orizzonti e significati tra prosa e poesia. Commentando il libro Viceverso. Antologia di prosa poetica, Ercolani mette in luce: “un delicato cortocircuito fra gusto carnale del linguaggio e sapore astratto del pensiero”.

In questo libro, Ercolani realizza in pieno la tecnica cinematografica del montaggio tanto cara a Benjamin, assemblando e mettendo in dialogo frammenti poetici, critici, prosa, poesia, memoire, carteggi, di grande impatto poetico e critico.

Un esempio su tutti è il capitolo I poeti del liceo, in cui emergono gli amori letterari del liceo come Jacopo da Lentini, Guido Cavalcanti, Bernardo da Chiaravalle, Dante e Leopardi (“Le poesie di Leopardi sono inermi ed oneste…la poesia, astuta, non voleva nulla di anticipato, bensì il nulla conquistato, attraverso l’arte onesta del linguaggio fallito”.

Ma ci sono gli ultimi due capitoli/frammenti del libro, Tirare il fiato di Ercolani e Di luce radente di Dario Capello, che vale la pena non solo leggere ma imparare a memoria.

In Tirare il fiato Ercolani chiama a testimoniare sul fare poesia illustri poeti sabotatori del linguaggio e della Storia come Mallarmè e Celan per dire che: “La parola è stata canto. Ha conosciuto la sua natura di canto, la sua felice onnipotenza. Ma è tornata da tempo a essere fragile, grido, traccia di dolore” e più avanti scrive:” La poesia…si scopre porosa, lacunosa, smossa da sussulti” e ravvisa nella prosa di Leopardi dello Zibaldone, il “pericolo perfetto”…”Lo scrittore deve essere spericolato, privo di steccati, mosso da attrazioni, umori, estri, erudizioni, camminamenti-riflessioni da flâneur”.

Il capitolo finisce con un’altra citazione di una lettera (una delle ultime) di Lumelli a Ercolani e nell’occasione scrive:

“…essere una comunità (due, più di due…) che cerca fino all’osso del linguaggio che faccia diventare un’esplosione di verità”.

Nel capitolo finale Capello riassume bene le similitudini i punti di contatto e le affinità tra il mondo di Lumelli e quello di Ercolani che ravvisa in:

Pulsare del pensiero

L’amore per Genova

La porosità dei punti di vista e del linguaggio

La postura sovversiva

A fine lettura del libro si ha l’impressione che Ercolani abbia ridato vita alle parole di un fantasma presente in carne e ossa nella vita e nel linguaggio di una generazione di poeti, folli, innamorati, eretici amanti dell’invisibile, dei reietti e delle malerbe che si annidano negli angoli nascosti della mente e ci abbia fatto toccare con mano la praxis di due sciamani in cerca di verità che scrittura, memoria e desiderio, sono solo un PRE-TESTO per continuare a vivere. Ma, prima di concludere questo mio frammento critico, mi preme segnalare e sottolineare un’altra riflessione di Ercolani contenuta in una delle “Cento lettere” scritte a Angelo Lumelli:

“…Tessono e disfano, i poeti, rapsodi inebriati dal pensiero laterale. L’esistenza demonica e irrefrenabile, il varcare se stessi, sopraffatti dal terrore e o inebriati nell’estasi, non è psicosi. Ma ci corre vicino, come sull’orlo della fiamma. Accade come se il demonico, represso o sedato, nelle malattie riuscisse a scaturire, a trovarsi un luogo d’elezione, un varco. Ma qui torno al mio pensiero dominante. Non di malattia parlo, di quella che impoverisce l’io nei sintomi, ma di una giungla informe e disordinata, dove l’anima, abbandonata a un brivido metafisico, mostra la propria profondità disordinata, la tenta il crollo, il cadere svuotata, l’informe del caos. Ma resiste.”

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