PER “AUSTRAL”. Marco Sbrana

Postmodernismo, metaletteratura e filosofia del linguaggio in Austral di Carlos Fonseca

Con un autore mio amico discutevo di Walter Benjamin. Il berlinese faceva un distinguo importante tra commentario e critica. La critica, così Benjamin, ricerca il contenuto di verità dell’opera d’arte. Data una sfera di segni che è l’opera, Benjamin ci ha insegnato che il contenuto di verità della sfera può trovarsi al di fuori della sua circonferenza.

Non è questo il senso del postmoderno? ho detto al mio amico autore, estimatore di Pynchon e compagnia.

Non è mai stato nel deserto, ma l’ha immaginato spesso (Austral, Carlos Fonseca, Sellerio, 2025, traduzione di Gina Maneri). Così inizia Austral.

Già ci immettiamo nella vita pensata, nello scontro tra biografia e sogno, e nell’equazione (che, forse, dobbiamo a Cortàzar e, prima di lui, a Calderòn), che vuole la vita immaginata più significativa della vita vissuta.

Perché “[…] Del resto,” dice Céline nell’esergo di Viaggio al termine della notte, “possono farlo tutti. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.” Ma in Fonseca è anche la frustrazione di essere inquilini di un’esistenza che non sentiamo nostra, che non ci appartiene.

Capovolgimento semantico al termine di quello che è il prologo del romanzo di Fonseca.

Adesso nel deserto c’è lui ma guarda ancora la stessa cartolina. Sdraiato sul letto, la notte fuori dalla finestra, gira il cartoncino. (Austral, Carlos Fonseca)

Capovolgimento semantico perché Julio – così è chiamato il protagonista – è finalmente nel deserto ma sente il bisogno di immaginarlo ancora. Paradosso, questo, che pertiene al binomio tra sogno e viaggio, conseguimento e meta.

Un ruolo sempre più importante svolgeranno le immagini in Austral, ricordando talvolta il procedimento di Georges Perec ne Le cose, ma poi facendosi puro intertesto, con modifiche di layout, pagine colorate.

La toponomastica è precisa, vera, ma popolata da invenzioni. Di cosa parla Austral? Erede della tradizione postmodernista, questo breve libro si prefigge la missione dei vari Gaddis, Pynchon, Bolaño. Salvare tutto, salvare tutti, salvare mediante il racconto. Questo a renderlo, malgrado la brevità, un romanzo-mondo totalizzante, che tutto vuole dire.

Julio Gamboa riceva una cartolina da tale Olivia Walesi, artista del nord desertico argentino, e riconosce il nome di Aliza Abravanel, morta dopo dieci anni di malattia che la rese afasica, scrittrice di romanzi. Julio ha studiato negli USA e ora insegna, è sposato con Marie-Helène. Walesi riporta l’ultima volontà di Aliza: Julio deve curare il suo ultimo – postumo – romanzo.

È il racconto di chi racconta. È Bolaño. È, soprattutto, Borges.

Il postmodernismo è ampiezza, va da sé, rifiuta ogni riduzione. Se però volessimo individuare un tratto, quello potrebbe essere l’intertestualità. Ricordiamo il racconto di Finzioni in cui Borges afferma che il Don Chisciotte fu scritto (o riscritto) da tale Menard. La proposta del postmoderno non è giocosa; è politica nella misura in cui la realtà diegetica del racconto penetra nel tessuto del reale extradiegetico. Sicché autori come Borges prendono romanzi esistenti e costruiscono castelli di finzioni intorno a un nucleo di verità, come tutti i bravi bugiardi.

Fonseca alterna la narrazione principale al romanzo di Aliza, che parla di tale Karl Von Muhlfeld e della sorella di Nietzsche, che abusò della pazzia del filosofo per travisarne le idee e trasformarlo in un pensatore nazista.

**

La letteratura dentro la letteratura; la letteratura (vera) dentro la letteratura (falsa). In tal modo avviene il “rifacimento del mondo”, quello che certa critica suppone debba fare un artista

La metaletteratura è svelamento delle quinte, quindi duplice sguardo: diegetico ed extradiegetico. C’è ricerca (diegetica) ma la ricerca è “meta-” e quindi è anche extradiegetica, dove l’extradiegetico pertiene al senso dello scrivere come senso della vita.

E arriviamo al concetto di libro del mondo. La verità è racchiusa nelle tracce scritte ma la ricerca presuppone già che la verità originaria non sia a portata di mano; è stata indefinitamente differita perché potesse essere trasmessa, trasmessa al costo della sua deformazione.

Fonseca cita (e disegna un grafico basato sulla teoria di) Saussure. Austral ha valore di saggio dentro il romanzo; saggio, nello specifico, di filosofia del linguaggio. Non esseri parlanti siamo; parlati, invece, dalla langue, il magma autonomo del linguaggio.

In libri con impianto “meta-” come Austral i personaggi sono sempre più o meno consci di essere personaggi e, in generale, il “meta-” estromette la caratterizzazione rendendo il personaggio non più sedicente (leggasi wannabe) persona, ma dispositivo narrativo, pretesto che assolve una funzione.

In Austral si sente la manovra dell’autore che muove i fili. È un doppio gioco; non uno scherzo. Perché il “meta-”, se pensato, non svela le quinte per vezzo ma per una più diretta (e quindi politica) veicolazione al destinatario. Il “meta-” è: ti do in pasto una storia; ti dico, o faccio capire, che è finta; ti invito a essere mio pari nella ricerca della verità disseminata.

Questo, ad avviso di chi scrive, tornando alla parentesi autobiografica iniziale, il contenuto di verità in Austral.

Sempre ad avviso di chi scrive, se un testo ci mobilita nella costruzione di discorsi che possono prescindere dall’opera analizzata, detta opera gode di universalità, trasversalità, importanza, poiché si rifiuta di chiudersi autisticamente nella sua architettura che – proprio essendo postmoderna – libera dall’ingarbugliarsi dei fili e consente un discorso tra ricettori di un’opera il cui autore è estromesso.

**

Opera sul silenzio e la parola, sulla follia della scrittura e della scrittura come ossessione, Austral di Fonseca non dà importanza a nulla, nessun personaggio polarizza, tutto è fluire di segni. E, sembra dire Fonseca, dai segni scritti che ci lasciamo dietro (dice Kristof nella Trilogia che veniamo al mondo per scrivere un libro), e il libro ha valore non come produzione meccanica ma come emanazione del sé. Per questo sono numerose le pagine dedicate a Julio e alla ricerca della sua voce narrativa, tra Bernhard Kafka e Proust.

Quando, nella seconda e terza parte, Fonseca fa prevalere l’intertesto (i romanzi di Aliza) al testo, capiamo che l’autore non ha mai voluto raccontarci storia alcuna, ma disseminare tracce, citazioni (vere), concetti filosofici. Tra cui spiccano De Saussure e Wittgenstein.

Esseri parlati, siamo asserviti alla langue, che è indipendente. E viviamo di segni che ci inscrivono addosso, che l’Altro ci scrive addosso, maturando malattie mentali che – l’inconscio essendo strutturato come un linguaggio – sono malattie della ragione discorsiva, e come Aliza ci chiediamo la scaturigine della nostra afflizione. Ma, alla fine dei conti, ci dobbiamo arrendere, perché – così Wittgenstein – di tutto quello di cui non si può parlare si deve tacere.

E Aliza, scrittrice colpita da afasia, è morta muta.

Lascia un commento