
Ingeborg Bachmann
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Inventare una lingua: A occhi aperti di Ingeborg Bachmann
C’è un filo conduttore che sostiene l’intera ricerca artistica e letteraria di Ingeborg Bachmann, ed è l’estrema consapevolezza della necessità di riflettere e operare sul linguaggio. Scrivere, per Bachmann, vuol dire mettersi alla ricerca di una lingua nuova, una frase, una sintassi che disperda luoghi comuni, ambiti codificati, che contrasti le ingiustizie, che si opponga, in fondo, alla banalità che talvolta inghiotte la vita. È sufficiente rileggere in tal senso una pagina del racconto Il trentesimo anno. Qui incontriamo un personaggio che avverte il raggiungimento dell’età indicata dal titolo come un cambiamento, o meglio la necessità di un cambiamento nel rapporto con la realtà. Lo dice in prima persona: «La libertà che intendo io: il permesso – visto che Dio non ha determinato in nulla il mondo né fatto alcunché per il suo ‘come’ – di rifondare il mondo ex novo e di dargli un nuovo ordine». Poco più avanti si comprende come questo obiettivo, di cui fa parte la lotta contro ogni forma di pregiudizio e di discriminazione, non sia del tutto possibile senza una rifondazione anche linguistica. Perché nelle parole si sedimenta la memoria dell’«ignominia di un tempo», e con essa la possibilità che quanto è accaduto si ripeta. La conclusione equivale a una dichiarazione di poetica: «Non c’è mondo nuovo senza una nuova lingua» (p. 61 dell’ed. Adelphi, Milano 1985).
Si colloca in primo piano, date queste premesse, il nesso io-scrittura. Perché è su questa dialettica, e con questo metro, che si possono individuare, secondo Bachmann, le opere più significative in ambito letterario. Al tema è dedicata una delle sei lezioni francofortesi che compongono il volume Letteratura come utopia (Adelphi, Milano 1993). In quelle pagine la scrittrice mette subito in chiaro le sue intenzioni: «Vorrei parlare dell’Io, della sua presenza nella letteratura e quindi delle faccende dell’uomo nella letteratura, nella misura in cui l’uomo si rivela tramite un Io, o tramite il proprio Io, oppure si cela dietro l’Io» (ivi, p. 57). Per raggiungere tale obiettivo occorre innanzitutto azzardare una definizione, cercare di circoscrivere l’oggetto del discorso. Ma a emergere sono domande che non trovano immediata risposta: «Che cos’è l’Io, infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione e orbita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute». Sostanze forse sognate, che s’aggrappano a un’identità altrettanto sfuggente, «cifra di qualcosa che è più faticoso da decifrare del più segreto dei codici» (ivi, p. 58). Ciò che risulta un poco più chiaro è l’imporsi dell’Io nella letteratura degli ultimi decenni, dice Bachmann, il suo farsi ogni giorno «più scatenato e ammaliante» (ivi, p. 60). E il configurarsi della sua natura multipla, dell’impossibilità di ridurlo a una dimensione unica, immutabile: «Abbiamo riconosciuto tutti i possibili Io che compaiono nella letteratura, l’Io fittizio, l’Io mascherato, l’Io ridotto, l’Io lirico assoluto, l’Io come figura del pensiero, come figura dell’azione, un Io immateriale e un Io che si è fatto materia» (ivi, p. 61).
Da Céline a Henry Miller, da Svevo a Proust, da Tolstoj a un autore enigmatico e singolare benché oggi poco ricordato come Hans Henny Jahnn, fino al caso estremo di Samuel Beckett, nelle cui pagine l’Io «si perde in un mormorio» (ivi, p. 78), in un bisbiglio che sfiora il silenzio senza tuttavia mai raggiungerlo, Bachmann insegue e prova a definire le tracce dell’Io. Forse i testi di Beckett sono la migliore testimonianza, secondo la scrittrice, che la letteratura continuerà sempre, in situazioni e con parole nuove, a dare voce all’Io, che questo rapporto non può ormai venire meno, perché, anche se la sua natura più profonda si sottrae al nostro sguardo, esso resterà pur sempre, nel momento in cui affiora sulla pagina, prende la parola e si stacca dal coro uniforme e dalla moltitudine di quelli che tacciono, l’«araldo della voce umana» (ivi, p. 79).
Queste prime indicazioni sul rapporto tra chi scrive e il linguaggio, e di conseguenza sull’opera e sulla poetica della scrittrice austriaca, trovano occasione di approfondimento nella raccolta di testi A occhi aperti, uscita recentemente presso la casa editrice Adelphi a cura di Barbara Agnese. Si tratta di saggi (dedicati per esempio al rapporto tra musica e poesia o agli sviluppi della filosofia dell’amato Wittgenstein, sul quale Bachmann scrisse, intorno al 1953, un saggio radiofonico compreso nel volume Il dicibile e l’indicibile, Adelphi 1998) discorsi, annotazioni critiche sulle pagine, per fare qualche esempio, di Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Sylvia Plath o Giuseppe Ungaretti. Testi che non rispondono a un disegno premeditato e coerente, ma dai quali risulta possibile riconoscere le tappe di un percorso esistenziale e artistico affascinante, un profilo biografico e di pensiero. Per comprendere meglio il quale è probabilmente opportuno soffermarsi innanzitutto su un passaggio del Discorso in occasione del premio per radiodrammi conferito dall’Associazione ciechi di guerra. Il titolo, L’uomo può affrontare la verità, s’incunea, con la forza di una lama, nel cuore della concezione bachmanniana della scrittura. È un compito, quello che si pone ogni autentico scrittore, che ha qualcosa di seducente ma insieme di inquietante, un proposito che fa appello a tutte le energie di cui dispone, del respiro e del movimento del suo corpo. Siamo a Bonn, il 17 marzo del 1959. Bachmann pronuncia queste parole: «Quando raggiungiamo quello stato lucido e straziante in cui il dolore diventa fecondo, in modo molto semplice e giusto diciamo: mi si sono aperti gli occhi. E non diciamo così perché abbiamo percepito un oggetto o un avvenimento dall’esterno, ma perché comprendiamo quel che non riusciamo a vedere. E questo dovrebbe essere il compito dell’arte: farci aprire gli occhi in tal senso» (ivi, p. 99).
La scrittura vive in questa tensione e in questa metamorfosi, nella ricerca di un limite, nel tentativo di superarlo, con i rischi e le conseguenze che tutto ciò comporta. Sta in questo la sua verità, il suo radicamento nell’Io. Le parole vibrano, diventano vive soltanto quando si avvicinano alla soglia dell’indicibile, quando il passo successivo ci abbandona in una disorientante assenza di luce. È un progetto che si fa esplicito poche righe più avanti, prendendo la forma di una tensione verso qualcosa che non conosciamo, che non siamo destinati a raggiungere, ma che nondimeno permette la genesi di una lingua altra, diversa, e con essa dell’identità di chi scrive: «Perché in tutto ciò che facciamo, pensiamo e proviamo a volte vorremmo andare fino all’estremo. In noi si desta il desiderio di superare i limiti che ci sono imposti. Non per smentirmi, ma per chiarire ulteriormente, aggiungerei: certo, so bene che dobbiamo restare all’interno di un sistema di regole, che non esiste via di fuga dalla società e che siamo costretti a metterci vicendevolmente alla prova. All’interno di questi limiti però il nostro sguardo è rivolto verso l’assoluto, l’impossibile, l’irraggiungibile, che riguardi l’amore, la libertà o qualsiasi altra entità pura. Contrapponendo l’impossibile al possibile ampliamo le nostre possibilità. È importante, io penso, creare questo stato di tensione in cui crescere; orientarsi verso un obiettivo che, naturalmente, appena ci avviciniamo torna ad allontanarsi» (ivi, p. 100).
Le ragioni di questa dialettica, secondo Bachmann, risiedono in un presupposto che ai suoi occhi rappresenta quasi un’ovvietà, e sul quale non a caso insiste in molte sue pagine, non escluse le già citate lezioni francofortesi. Proviamo a leggere poche righe tratte da Diario in pubblico, un altro dei testi compresi in A occhi aperti. Si tratta di un contributo per il numero sperimentale di una rivista internazionale, uscito per la prima volta in lingua italiana nella traduzione di Lia Secci nel 1964. Bachmann annota: «…perché chi scrive non può servirsi di un prodotto nazionale ‘lingua’ già confezionato o adoperare un prodotto internazionale ‘lingua’ ideale, perché chi scrive, messo alla prova dal linguaggio e mettendolo alla prova, intraprende con esso un’avventura dall’esito incerto. L’unica cosa certa è che lo scrittore cerca un idioma suo proprio all’interno di quelli della lingua, aspira a un suo dialetto e a una dialettica, i quali contano entrambi su di lui come loro possibile rappresentante su cui appoggiarsi» (ivi, p. 121).
Il quadro che si è fin qui delineato appare in altre circostanze più articolato e complesso, mostra una fisionomia mai del tutto placata. Si fa strada la contrapposizione tra una lingua come puro strumento di comunicazione, e dunque impotente a restituirci l’autenticità delle cose, e la pagina dello scrittore, nella quale la lingua esprime tutte le sue potenzialità, si connota come qualcosa in grado di aprire scenari inediti e sfuggenti, e nel contempo di profondo e di vero. Due esempi possono aiutarci in tal senso. Ricaviamo il primo da un breve testo autobiografico, senza titolo, nell’edizione di cui stiamo parlando presentato come Cenno biografico. Fu reso pubblico dalla scrittrice, come ci informa la nota al testo, nel novembre del 1952, quando venne trasmesso alla radio per introdurre la lettura del dramma Un negozio di sogni e di alcune poesie, Qui Bachmann ricorda la sua giovinezza in Carinzia, trascorsa in una valle in bilico tra due differenti idiomi e tra due nomi, uno sloveno e uno tedesco. Poi venne il trasferimento a Vienna al termine del conflitto mondiale, un cambiamento tale da offuscare il ricordo dei successivi viaggi a Londra, a Parigi, in Germania e in Italia. Ma ancora più determinante, ricorda Bachmann, fu il suo approccio alla letteratura. Un evento che non si sente pienamente in grado di descrivere, ma che forse nacque dal sogno di nuovi orizzonti, dal cortocircuito tra le pagine di una fiaba e la ricerca di un altro paesaggio, di un’altra vita. Fino all’infrangersi di questi scenari contro la spigolosa immagine della realtà. Vale la pena di leggere uno stralcio del testo in questione: «A volte mi chiedono per quali vie, io che sono cresciuta in campagna, sia arrivata alla letteratura. Non saprei dirlo di preciso; so soltanto che ho cominciato a scrivere all’età in cui si leggono le fiabe dei Grimm, che sostavo volentieri accanto al terrapieno della ferrovia viaggiando con il pensiero verso città e paesi stranieri, fino al mare sconosciuto che, in qualche luogo lontano, congiunge la terra al cielo. Era sempre di mari, di sabbia e di navi che sognavo, ma poi venne la guerra e sul mio mondo fantastico e immaginario calò quello vero, in cui non si sognava più e bisognava prendere delle decisioni» (ivi, p. 162). Nella forma di una nota biografica ritroviamo qui quella ricerca dell’identità tramite la creazione di una propria lingua che è tema centrale, lo si è detto e lo si è visto, nella poetica di Ingeborg Bachmann. Ritroviamo la sfida all’ignoto, lo sguardo rivolto all’irraggiungibile, atteggiamenti mai disgiunti dall’ascolto attento, quasi maniacale delle voci più oscure e profonde del proprio essere. In questa prospettiva, chi scrive appare senza alternative, perché accontentarsi della lingua della semplice, quotidiana comunicazione significherebbe mancare il proprio obiettivo, perdersi, sottrarre dalla propria scrittura l’intensità e la violenza della vita «perché la vita non risiede in ciò che è possibile comunicare» (ivi, p. 162).
La grandezza di uno scrittore – per passare al secondo esempio –si misura pertanto sulla sua capacità di reinventare la realtà tramite il linguaggio. L’oggetto del testo di Bachmann, un saggio radiofonico trasmesso il 9 dicembre del 1953, è questa volta il romanzo America di Kafka: «La separazione tra realtà e irrealtà, che negli altri due romanzi viene eliminata, qui è ancora avvertibile, ma anche in questo libro di Kafka la realtà non funziona. Il suo ‘non funzionare’ è percepibile solo grazie alla lingua, che è pura e chiara e rende giustizia in modo quasi pedante a ogni minimo dettaglio; sì, la magia dell’opera di Kafka non sarebbe assolutamente comprensibile senza il fenomeno particolare del suo linguaggio e senza quel suo particolare modo di descrivere le cose». Un risultato che attribuisce all’opera un’eloquenza in grado di rendere pressoché inutile ogni altra frase, ogni altro commento: «Agli scrittori si rende giustizia nel silenzio, perché quando tutte le interpretazioni sono passate di moda e tutti i commenti sono stati esauriti, la loro opera si spiega in virtù di quella verità inesauribile cui deve la propria esistenza» (ivi, pp. 172-173).
Non sono poche dunque, e non sono facilmente sintetizzabili, le riflessioni sulla lingua e di conseguenza sulla scrittura contenute in A occhi aperti. Vale ancora la pena di ricordare quelle dedicate al rapporto tra musica e parole, due realtà un tempo, ricorda Bachmann, capaci di profonde e continue connessioni, oggi destinate a rapporti più sporadici. Ma per la scrittrice parole e musica sono linguaggi ancora profondamente legati, forme differenti di una stessa voce, di uno stesso spirito: «Una frase di Hölderlin dice che lo spirito può esprimersi soltanto ritmicamente. Musica e poesia, dunque, hanno il passo dello spirito. Hanno ritmo, nel senso primario, costitutivo. Per questo sono in grado di riconoscersi l’un l’altra» (ivi, pp. 105-106). La musica, dice Bachmann, si imprime come un marchio nelle poesie che ama, le antiche e le nuove verità possono essere risvegliate dalla musica, «e ogni lingua che esprima queste verità – la lingua tedesca, quella italiana, la francese, tutte! – grazie alla musica può tornare a contare sulla propria appartenenza a un linguaggio universale» (ivi, p. 107). Anche quando si sofferma a ricordare la figura di una straordinaria artista come Maria Callas, Bachmann non perde mai di vista il discorso sulla lingua, sulla fisionomia delle parole; la grandezza della cantante sta, a suo giudizio, nella capacità di pronunciare una parola in modo «da non far mai dimenticare neppure per un momento, a chi non abbia completamente perduto l’udito per insensibilità o per snobismo, a chi non sia sempre a caccia di nuove sensazioni del teatro lirico [-], che l’Io e il Tu esistono, che esiste il dolore ed esiste la gioia» (Hommage à Maria Callas, p. 193).
Forse è il momento di chiedersi quale impulso, quale forza segreta abbia spinto Bachmann a interrogarsi sulle possibilità del linguaggio, sui rapporti tra la parola e il silenzio, sugli eventuali legami e sulle differenze con altre forme espressive, a ricercare con tanta ostinazione un idioma proprio e inconfondibile. In buona sostanza, a scrivere. A metterci sulla buona strada sono alcuni passaggi del Discorso in occasione del conferimento del Premio Anton Wildgans tenuto a Vienna il 2 maggio del 1972, un anno prima della tragica scomparsa della scrittrice. Ne possiamo leggere la versione dattiloscritta, fogli che, ci informa la nota al testo, «presentano numerosi errori di battitura, parole cassate, correzioni apportate a mano, lacune e probabilmente non corrispondono alla stesura integrale del discorso pronunciato» (ivi, p. 267). Siamo insomma su un terreno precario, non privo di insidie. Ma sul quale prendono forma folgoranti dichiarazioni, l’attestazione della necessità vitale, ineluttabile, della scrittura. Dice Bachmann: «…io esisto soltanto quando scrivo, quando non scrivo non sono niente, sono completamente estranea a me stessa, come divergente da me, quando non scrivo». Scrivere, prosegue, è una condizione unica, che non trova riscontro in altre espressioni artistiche: «Ma quando scrivo, Voi non mi vedete, non c’è nessuno a osservarmi. Potete vedere un direttore d’orchestra mentre dirige, un cantante mentre canta, un attore mentre recita, ma nessuno può vedere cosa significhi scrivere. È uno strano, singolare modo di esistere, asociale, solitario, dannato; soltanto ciò che si pubblica, i libri, diventano sociali, associabili, trovano una via verso un Tu, verso una realtà disperatamente cercata e a volte raggiunta» (ivi, p. 247).
Scrivere è un impegno totalizzante, una realtà che ci attende anche quando tentiamo di ignorarla: «Io conosco soltanto la mia scrivania, che detesto, ma non la abbandonerei certo se le arti persuasive esercitate nei miei confronti non fossero così astute come lo sono state questa volta le Vostre; ci inducono ad alzarci, sollevati almeno per un istante; ma basta un attimo per capire che è stata una fuga, che abbiamo ceduto a una lusinga e subito vorremmo tornare alla nostra galera»(ivi, p. 248). La scrittura si qualifica, finalmente, come un gesto che sfugge alla volontà, di cui è impossibile decifrare la logica: «Ma chi ci costringe? Nessuno, naturalmente. È un atto compulsivo, un’ossessione, una dannazione, una punizione»
