
In Esattamente altrove, sua ultima raccolta edita per DiFelice Edizioni (2025), Eliza Macadan conferma la sua voce poetica intensa e visionaria, capace di muoversi tra lirismo intimo e affondo civile con una fluidità che non cerca spiegazioni, ma verità emotive e simboliche così da apparire, questa raccolta, come un viaggio obliquo nel tempo e nello spazio, dove il privato e il collettivo si specchiano l’uno nell’altro, evocando un altrove che è però sempre anche un qui, un adesso.
I versi sono costruiti come frammenti di epifanie, talvolta dolorose, talvolta lievi, ma mai gratuite e il dettato poetico si snoda in un equilibrio delicato tra lirica contemplativa e sguardo politico, alternando testi più lirici, intimi, a squarci durissimi che portano in primo piano la realtà storica e sociale: “le armi fanno rumore/ e vendono bene le propagande”, scrive, in una lucida messa in scena del presente. Ma, attenzione, non si tratta qui di denuncia o cronaca, ogni immagine, anche la più dura, è calata in una dimensione poetica che resta sospesa tra sogno e allucinazione e lo sguardo poetico di Eliza Macadan è uno sguardo che accoglie il mondo anche quando fa male, che prova a restituire senso al caos, anche solo per un istante, e versi come “Un sogno si sogna da solo/ prima del sonno la ragione/ vacilla alla fine del tunnel” sembrano affiorare da un dormiveglia collettivo, quello di un’umanità spaesata, smarrita.
Nel mondo poetico di Eliza Macadan, il paesaggio interiore viene poi modellato da una lingua che è al tempo stesso carne e preghiera: “La mia lingua è terra,/ la mia mano destra un salmo”. L’amore, la memoria, il dolore e il disincanto convivono in versi che sembrano affiorare da un tempo sospeso, da un’eco che vibra “alla fine del mondo” o “nel ventre del cielo”. E il richiamo alla croce e ai “rosari di vite”, e l’ambivalenza di quel “non sai/ se è per salire /o per cadere” ci proiettano in una mistica laica, dove la fede è nel legame umano, fragile e fortissimo.
Il ritmo della raccolta è spezzato, talvolta franto, come la realtà che racconta, un ritmo che si direbbe permeato da un respiro frammentato, irregolare, ma vivo: ci sono versi brevi, quasi aforistici, immagini in cui convivono “carri armati” e “salmi”, “uccelli al sole” e “blocchi di pietra nel centro/ di un villaggio”. Il linguaggio è mobile, a tratti rarefatto, a tratti concreto fino allo shock, come nei versi “lacrime sangue sudore sul fronte deserto/ dell’Est in atto l’ultimo test”.
Eliza Macadan riesce a costruire una poesia in cui la parola non spiega, ma accompagna, suggerisce, apre varchi: “scivoliamo adagio verso” – verso cosa? La fine, l’inizio, il mistero? Non c’è risposta definitiva, ma il lettore viene condotto per mano in questo attraversamento lirico che è insieme intimo e universale.
Una raccolta, Esattamente altrove, di una luce che abbaglia senza accecare e che prepotentemente invita alla veglia, all’ascolto, e anche alla cura: un gesto poetico che si àncora con forza e fiducia alla parola, anche quando tutto sembra ormai destinato a dissolversi.
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Ti ho incontrato alla fine del mondo
passavano accanto a noi uomini e angeli
alcuni avevano costumi neri
altri un pezzo di cielo sulle spalle
ci siamo guardati nei cuori tra parole mute
il tempo non è tempo non temere
qua e là cadono piogge stelle e cantano
uccelli al sole tengo la tua mano tieni la mia
scivoliamo adagio verso
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La lingua è tutta terra,
gli occhi, macchie di cielo.
E questa notte è rigida,
l’equilibrio tra noi.
Quale stella è nostra,
quale settimana,
quando ti avvicini a me attraverso il cielo
e sbirci la mia biancheria intima,
che disegni proprio come ti piace.
La mia lingua è terra,
la mia mano destra un salmo,
il mio pensiero
ti allontana o ti avvicina.
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Da una verticale di legno
fiorito fino al blu
tieni terra e cielo
solo Tu
senza travi,
con solo chiodi
Noi ora
senza guardare in su
porgiamo schivi rosari di vite
colate da candele affrettate
qui quando metti il piede
non sai
se è per salire
o per cadere
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Carri armati sulle scie dei cuori
schiantati granate scoppiano
qualcuno piegato
sul mappamondo tira
un respiro profondo conta
morti feriti detriti
nella voragine del tempo incastrato
fiumi fumanti montagne
stelle filanti giorno e notte
spalla a spalla intonano
l’inno con parole di morte
un sogno si sogna da solo
prima del sonno la ragione
vacilla alla fine del tunnel
con il libro aperto in mano
un Mosè di pietra dalla barba incerta
stende la faccia del mondo su un pezzo di lino
lacrime sangue sudore sul fronte deserto
dell’Est in atto l’ultimo test
