Benevolenza cosmica di Fabio Bacà. Una nota di lettura.

Immagine di Jean Mirò
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Londra. Non si capirà mai del tutto quale sia l’occupazione del protagonista Kurt. L’essenziale, sì: statistica. Ha faldoni di statistiche su tutto. Il mondo ridotto a percentuali. Dopo la diagnosi di un tumore – benigno – al nervo ottico, si chiede perché mai un giovane punkabbestia gli ceda il posto sulla metropolitana e perché, nonostante la ressa, il seggio resti vacante, come se fosse per lui.
Terapia di coppia, poi, con Elizabeth – scrittrice di successo. Un altro perché lo assilla: un tassista si ostina: è il suo ultimo giorno di servizio, non vuole far pagare la corsa a Kurt. Incomprensibile per un uomo – Kurt, appunto – che della razionalità ha fatto religione. Altro evento: proprio nel momento di crollo di tutte le altre azioni, quelle di Kurt si impennano e nel giro di un giorno ottiene quasi centomila sterline. Ho ricordato il Seymour Glass di Salinger, la sua “paranoia all’incontrario”: non è che tutti cospirano perché io sia felice? La notizia del commercialista sull’impennata quasi sovrannaturale delle azioni induce Kurt a ricordare il motivo per cui si avvicinò alla statistica, ossia il teorema di Kerner sugli eventi insoliti, tra cui – per forza – si annovera la morte del fratello del nostro. Di Eric. E dell’amico Simon. In una folle gara di velocità tra un aereo e una moto, si staccò la ruota del velivolo, uccidendo Simon cui piombò in pieno sterno, e costringendo Eric a un atterraggio di fortuna presso il lago, dove morì tra acqua e metallo.
Le fortune di Kurt aumentano: sopravvive a un colpo di fucile perché il fucile si inceppa, per dirne una. Donne sembrano sempre volerglisi concedere. Tale Lucia – psichiatra/sciamana – dice che a Kurt è legata una persona. Karmicamente legata (e la cosa, al razionale Kurt, puzza, lui che è ingolfato di statistica). A questa sta accadendo l’opposto: sfortune atroci. E forse la persona in questione è Richard Joyner, attualmente detenuto con l’accusa di tentato omicidio (per avvelenamento): il bersaglio era Kurt. Che scopre in fretta: nessun omicidio in programma contro di lui. Quando il protagonista si introduce nell’abitazione di Joyner, la figlia gli dice che il veleno è tale solo se preso in grande quantità; altrimenti, è medicina.
Joyner era effettivamente sulle tracce di Kurt: ma solo per arrivare a Elizabeth, nella speranza che la scrittrice scrivesse la sua biografia (a stessa ammissione della figlia, Joyner non è del tutto sano, forse è stato il licenziamento).
E allora? Cosa sta succedendo? Sicuramente una cosa: Kurt sta per diventare padre. Elizabeth è incinta di tre mesi e mezzo. Neanche il tempo di gioire, che Kurt ha un incidente. Coma. Durata: cinque mesi e mezzo. Gli basta guardare la figlia negli occhi: è lei, pensa Kurt, la persona che si vendicherà della benevolenza cosmica. Sì, perché nei nove mesi la bimba ha rischiato di morire a cadenza preoccupante, con tre aborti sventati per miracolo. Gliela farà pagare, quando nascerà. Tramite relazioni con tossicodipendenti. Tramite sesso non protetto, ironizza un riappacificato Kurt.
Avrei potuto dire di più della trama; è sempre necessario, malgrado la crescente preoccupazione dello spoiler. Mi sono trattenuto. Bacà è un corpo estraneo. Marchigiano, ha come genitori i postmoderni. Pynchon, sì, Wallace, anche; ma soprattutto Bolano e Cortàzar. Si può collocare la produzione – per ora costituita da Benevolenza cosmica (Adelphi, 2019) e da Nova, nel solco del realismo magico, che in letteratura è il discendente diretto del postmodernismo. Quei viaggi – che sono sempre, sempre ricerche – a cui abituavano Cortàzar e Bolano; quelle feritoie nel mediocre reale a rivelare scorci di meraviglia; i personaggi surreali di Pynchon, caricaturali, ma a tal punto da risultare credibili nello spazio diegetico, ora preoccupanti ora ridicoli, sempre veri anche nel gioco metaletterario del “Lettore, so che sai che è finto”.
L’incomprensibile, dunque, ma nell’estremamente ordinario. L’asetticità (si parla di uno statistico) è straniante se applicata alla vita, perché preleva l’emotività. Ne riesce un grottesco che sulle prime diverte e che, con l’incalzare di una trama ben orchestrata, inquieta. Si ricordi il capolavoro di Kaufman Synechdoche New York: nulla di straordinario, si è solo rotta una tubatura; nulla di straordinario, le feci hanno solo un colorito strano. Insomma, nulla di straordinario, ma c’è qualcosa che ci puzza. Kafkiano, Bacà, nella gestione dei tempi comici: teatro gestuale come quello dei funzionari sepolti nella polvere del praghese, e comicità nell’analisi fredda lucida distaccata di Kurt, nel filtro intellettuale che appone per osservare la qualunque. La paratassi è sobria, così sobria e concettuale da produrre nel lettore – di nuovo – straniamento, qualcosa di unheimlich: ci si chiede cos’avrà mai di strano questo Kurt. L’estensione del dettaglio è il trucco che Bacà usa per stranire senza mai uscire dai confini del realismo. La vertigine provocata dall’analisi che estende ed estende l’infinitesimo instilla la domanda che percorre tutti gli scritti del già citato Bolano: So cosa sta succedendo, ma cosa sta davvero succedendo?
La prosa analitica – che ricorda a tratti anche Morselli, non insolito al fantastico (nel suo caso erano ucronie – apprezzate solo postume) – è l’iper-razionalità di un uomo che, di fronte alla fortuna insostenibile, si pone l’eterno Perché? sul mondo e la vita, che stavolta – e in questo l’originalità di Bacà – non scaturisce dal grave ma dalla botta di culo. Rimane il problema del motivo, della causa prima. Come spiegare il mondo? Perché non lo capiamo? Il flusso degli eventi è indeterministico, e quindi non posso conoscere una particella per il solo fatto che, al fine di conoscerla, devo illuminarla (così Heisenberg). Eppure, io – umano, troppo umano – ho bisogno di credere che ci siano nessi karmici, rapporti causali, statistiche che mi illudano (e spesso, infatti, Kurt ammette che tutte le statistiche sono manipolate: tale il caos). Non meno importante della questione epistemologica è, in Benevolenza cosmica, l’aspetto psicoanalitico. Freud diceva che il piacere è tale se prevede rischio (banalizzo): quale vita grama quella dove il piacere è sicuro, quale infelicità se l’istinto di morte è inappagabile. La felicità non è felice, questo è Freud; e l’infelicità non è infelice. Perversioni nel nostro inconscio, e contorcimenti che non possono ammettere che la vita prosegua nel solco di un eterna beatitudine, che è l’atarassia dei non più vivi, una prospettiva che atterrisce il nostro Kurt. Nel suo bisogno di soffrire un altro po’. Il finale già preso in esame sospende la risposta al Perché? e riaccende la domanda sul davvero: Cosa sta succedendo davvero? La figlia e Kurt sono legati karmicamente? La sfortuna del feto era proporzionale alla fortuna del padre? Non c’è modo di quietare il fermento del nostro interrogare il cielo zitto. Alienati nel metropolitano, nelle reti di segni, ci chiediamo a volte se la domanda – addirittura – sia mai stata posta. E lì, credo, Kurt si rallegra. Nel dirsi che la risposta è: Non c’è la domanda, la calma e la resa al fiume di Eraclito. Insomma, Wittgenstein. Forse dovremmo assumere un atteggiamento meno impegnato emotivamente, sembra dire Kurt, nel nostro spasmodico interrogare; perché non possiamo davvero parlare di destino karma vita e dio, e di quello di cui non possiamo parlare – ammoniva Wittgenstein nell’ultima, celeberrima, proposizione del Tractatus – bisogna tacere. Tacere e, come Kurt, baciare. E sentire il primo rutto di nostro figlio.
*Marco Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole a Milano, dov’è nato. È nella redazione di Zona di disagio e Evidenzialibri. Cura la rubrica settimanale di cinema per Odissea di Angelo Gaccione e collabora con il blog Scritture di Marco Ercolani. Ha scritto un romanzo sui disturbi mentali e una raccolta di poesie di prossima pubblicazione. Cura il blog di cultura e critica cinematografica Carrello a seguire.

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