L’ARTE DEL RAGNO. Chiara Daino

Immagine di Louise Bourgeois

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«E con la sigaretta spengo – ogni pianeta»

«Una forma di resistenza ai meccanismi dell’utile, del produttivo, del consumo, in quanto inconsumabile, invendibile e eternamente fuori dal tempo e dalle mode»: la definizione di poesia di Luigi Metropoli è sostanziale a queste trentasette poesie di Chiara Daino, dal titolo L’arte del ragno. Ogni poesia è dedicata a un ragno reale, ma questo è solo un dettaglio compositivo, perché ogni poesia è una scheggia autobiografica del passato e del presente di Chiara, un bagliore derisorio di “biologia ritmata” che ha la forza dirompente di uno “schiaffo al gusto del pubblico”.

L’arte della sovversione non appartiene alla storia della letteratura. Ma la linea borderline dello sberleffo traversa questo divertissement, dove follia, invettiva, rancore, pulsione omicida, tenerezza, citazione, sarcasmo, si fondono in intrico di disperata freschezza, e rendono tutta la composizione un’opera buffa, dove il comico è un velo che appena separa dal tragico, e offre agio all’autrice per studiare con erudita competenza i suoi piccoli mostri ragneschi.

Qui Chiara ci parla di sé con versi incisivi:

«[Fumo a cancrena, eccetera.

Carne da Prosa! Blablabla]

Non è bisogno ma necessità…

Disimparo un cervello ingordo

e bacio per evirare il silenzio

Sono una bimba contrariata

che ninna il mare capovolto.

E nemmeno il diavolo

mi vuole al suo tavolo».

Daino, o erompe o non è. Se osservassimo che scrive con toni violenti, con ritmica rock, faremmo un’osservazione tautologica: lei sa bene che qualsiasi scrittore autentico usa il suo stile come uno stilum acuminato e la sua lama infilza con piacere poeti molli e diligenti, intelletti pensosi e prevedibili.

Il suo atroce rispetto della lingua le fa inventare librini come questo, “libri brevi” e non “librini”, dove il gioco linguistico, quando c’è, non è mai onanismo da postavanguardia (“la lingua è un gioco, la palla è un verso”) ma veleno letale in cui, come nelle più cruente tragedie shakespeariane, intingere la lama per l’ultimo duello. Ogni duello di Chiara, ogni combattimento poetico nell’universo dei ragni, nasce sempre da una sete di libertà e di vita incontenibili che il mondo (“l’immondo”) le nega: per questo, da sempre, Daino grida e si batte, corpo e carta, sempre scorticata e presente sulla scena del suo teatro da cui i sipari sono felicemente/infelicemente spariti, benianamente padrona dei suoi riflessi e delle sue maschere. Forse alcuni lettori di questa plaquette la liquideranno come un oggetto superfluo, che non riescono né a definire né a inquadrare. Ma l’inutilità è il sale/sole della bellezza. Chi vuole può uscire e non leggere. Chi resta e legge, eviti di incasellare L’arte del ragno in un genere letterario. Esiste un genere mai generico che è la specie umana, la sua inalienabile dignità, difesa dal poeta fino all’ultimo sangue, dal poeta contro l’uomo che la mortifica e offende. Sarà questa la “strategia del ragno” che le poesie di Chiara ci mostrano nel loro nodo indissolubile come beffarda provocazione?

«Sono poeta della rivolta

o manuale di psichiatria?».

La risposta è nella domanda. E nella forza sperimentale del poeta, in quello che lui vorrebbe. Come scrive Peter Handke: «Voglio leggere qualcosa che non esiste, però è influenzato da ciò che esiste: e precisamente in tutto e per tutto – soltanto allora avrei modo di sperimentare tutto ciò che esiste» (M.E.)

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Il ragno classico


Io ho mangiato Amore.

*

O De “Il ragno pavone”

Sei lo zenit puro della noia purissima;

sei il regio nadir d’una regolare boria!

Maschio o femmina: è solo etichetta.

Chiunque colora, contamina

purché sia colorita la leggenda!

Cambia modi, mosse, mezzi

cambia volti, verbi, vicoli…

cambia voci, messe, varianti

Ragni pavoni siete troppi e tanti!

Dirsi speciali è fumo da cuochi

e non bastano più luci

più effetti medianici

non bastano più: fritture copiate.

L’unto parla alle coronarie.

Scrivo sul serio e – non vi perdono

le parole: hanno peso, suono, accento.

E voi? Voi avete solo l’ombelico di piombo.

Io mi miglioro nel vomito

cerco un’ulcera vista mare

io sono l’equazione giusta

per la formula sbagliata…

Ritornerò a Genova

per sentirmi un po’ più sola.

*

Il valzer del moscerino

Prego, chiamami pure Amore

Angelo Tesoro Splendore. Cucciolo Meraviglia, Piccolo Fiore.

Caro, chiamami copiando qualche canzone: grazie, cantautore!

E son bella da morire donna cannone bella belinda senz’anima.

Bella stronza bocca di rosa e su di noi nemmeno una nuvola

perché se bruciasse la città sono il tuo trottolino dudùdadadà

ed eccomi contessa e tortellino; e topa toposa topona topino.

Stella stellina, polpetta e poi micina…

Tata o Patata? E quanta fantasia! Chérie? Darling? Querida?

Bimba bambola barracuda? Bestia, bestiaccia o biscottina?

Sono io la bambolina che fa no no no no no, io l’Amorillo
Mordicchio, Amoracchio, Sirocchia, Strega e Pastrocchio.

La bella mora dagli occhi di ghiaccio,

Divina, Piccola? Mostro e Ciospetto?

Principessa, Ciccipicci, Pulce, Pulcino?

Regina, Diabula, Belina? Pirulino? Sbirulino?

Zucchero, Cuoricino, Cocca, Cerbiatto. Crostatina?

Polpo, Dolcezza; Polipona? Disgrazia?
Fanciulla e Fatina, Fuffola e Farfallina!

Hey stellaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!
Teppa; Teppista, Trappola Sexy Fenomena.

«Anima mia, Vita mia, Gioia mia»

E di tuo – metti solo la noia.

*

Occhi indiretti

[Dimentico un bacio colposo e un caffè sospeso

per qualcuno che non conosco, e non giudico].

Posacenere come astronave da sbarco
Posacenere come corazzata dell’Ergo

Posacenere della saga umana – Cogito.

Sono duro d’occhio: vi fisso

e con la sigaretta spengo

– ogni pianeta.

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L’arte del ragno, Lulu, 2015.

Immagine di Alfred Kubin

Postilla

Oltre il vulcano

Chiara Daino è un punto di squilibrio nella poesia contemporanea. Dove dominano i refrains dei patetismi nostalgici e delle malinconie filosofiche, lei inveisce con la potenza sgradevole dello sberleffo etico, del sarcasmo linguistico. Non da’ requie al clima narcisistico-crepuscolare della modesta poesia dominante, comportandosi come un infelice, irritante, non empatico Gavroche. Ma Chiara è di più: è aculeo e disturbo, come quando Lenny Bruce lanciava invettive ai suoi spettatori con un beniano, indiscutibile vaffanculo; aculeo e disturbo che non si lascia ingabbiare in regole, Non dimentichiamo che ogni logica del discorso potrebbe includere anche la logica del suo opposto eversivo, per renderlo innocuo. Ma ci sono eversioni indiscusse, non rappacificate e non rappacificabili che, da Rabelais in poi, mettono in crisi, come schegge al vetriolo, la parola aurea del poeta laureato. Forse soltanto un pigro Rossini avrebbe potuto ridere con Chiara, senza comporre più un rigo di musica e senza offrirle un piatto di foisgras ma un bel whisky algerino con il quale precipitare, come Malcolm Lowry, “oltre il vulcano”. Non sempre deve accadere – il sempre è psicosi – ma quel tanto che basta, sì. Oltre il vulcano.

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