
Paul Klee, Animali che recitano una commedia
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Una mosca ha bisogno di una parete bianca perché la si possa vedere bene; poco importa se una volta lì è più vulnerabile. Lo spazio che la circonda appaga il suo essere, ne giustifica la presenza nel mondo.
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Fra tutti il gallo è l’animale più prossimo al mito: il suo canto giunge fino a noi dalle onde del Diluvio.
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Il miagolio del gatto che avverte del suo ritorno nel cuore della notte scuote lo spirito che veglia nel sonno, conducendolo fuori dalla camera da letto.
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Il vecchio gallo è ancora signore del pollaio, nonostante le penne sul dorso comincino a diradarsi e il canto si sia fatto più roco. Non vede rivali e perciò non si preoccupa, ma non si accorge che laggiù, accovacciato in un angolo, un pulcino ha imparato il suo verso e lo ripete per ore, ostinatamente.
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La presenza dell’anima zavorra il corpo, ne rallenta i movimenti. Un gatto fa piroette e acrobazie a piacimento.
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La figura bistabile dell’anatra-coniglio come le strisce sul manto della zebra: confondono i predatori.
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Il volo ad alta quota di un rapace ha un che di necessitato, come di imposto da una volontà superiore ed estrinseca a quella dell’animale. Le ‘ruote’ disegnano dei cerchi concentrici, tanto perfetti nella loro esecuzione quanto prevedibili, al punto che un occhio appena un po’ esperto è in grado di anticiparne le traiettorie. Tutt’altra cosa è, invece, il volo delle rondini, soprattutto quando si esibiscono in piccoli stormi: riempiono il cielo con un reticolo di linee così fitto da non potersi in alcun modo districare.
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Il gallo silvestre di Leopardi non ha nulla della selvaggia bellezza del gallo cedrone. Scherzo della natura, «sta in su la terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo» posizionandosi in un contesto ibrido, che ne fa qualcosa di familiare e mostruoso al tempo stesso, cui si somma il grottesco di una lingua straniante della quale fa uso «come un pappagallo». Se uno è il signore della montagna, l’altro è soltanto una invenzione letteraria, anche se pienamente riuscita.
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Platone nel Fedro dice che «uno», quando riesce a vedere la «bellezza terrena», pare che voglia cambiare il suo stato e trasformarsi in un «pennuto […] agognante di volare». Ma ciò risultandogli impossibile, finisce per sembrare soltanto uno che è «uscito di senno» agli occhi degli altri. All’opposto, gli uccelli inquadrano dal basso un punto che sta più in alto rispetto a loro e lo raggiungono in un attimo, senza alcuno sforzo.
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Gli abitanti dell’isola di Rottnest, nell’Australia occidentale, considerano il quokka «l’animale più felice del mondo». In realtà non si direbbe dal momento che, appena avverte una presenza ostile nelle vicinanze, questo marsupiale non più grande di un gatto abbandona il cucciolo che ha con sé, nella disperata speranza che il predatore concentri l’attenzione soltanto sul suo piccolo.
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Il tempo, nella sua dinamica eterna, decompone ogni cosa. Una piuma già si sfrangia sul terreno quando chi l’ha perduta è ancora sul ramo o vola libero in cielo; i mari e le montagne appaiono immutabili soltanto a uno sguardo umano. L’universo ci avvolge senza che ce ne accorgiamo.
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Il pesce che ha abboccato si dimentica di avere abboccato un attimo dopo che è stato slamato.
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Nelle passeggiate solitarie c’è sempre un cagnolino che sbuca da un cancello aperto e abbaia fino allo sfinimento.
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L’universo è tanto grande che, se uno schiaccia un insetto, non si accorge di nulla. Il problema è che molti fingono di averlo fatto inavvertitamente.
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L’afasia di cui è vittima Lord Chandos la si vede riflessa nell’insetto che, prigioniero in un innaffiatoio colmo d’acqua, «remiga da una sponda oscura all’altra», o «in un cane al sole».
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«Masticare, digerire tutto, questo è davvero da maiali! Dire sempre di sì: questo solo l’asino l’ha imparato», afferma Deleuze. Ogni ‘sì’ deve contenere in sé il ‘no’ della ribellione.
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Quando un moscerino entra nell’occhio si comincia a tormentare la palpebra sperando di rimuovere quanto prima l’intruso. Se i tentativi riescono vani, allora aumenta l’irritazione e non soltanto dell’occhio, al punto che si vorrebbe avere in tasca un coltellino.
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Nei pomeriggi assolati capitava di trovarsi lungo le sponde di un laghetto che serviva per l’irrigazione dei prati. Si setacciava con lo sguardo l’erba alta e, non appena si scorgeva un rospo, lo si uccideva. A volte, però, le anime di quegli anfibi sventurati comparivano nei nostri sogni per vendicarsi come Shiki, i vampiri che si nutrono del sangue degli abitanti di Sotoba.
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Kafka sembra non provare simpatia verso il «cagnolino di città», il «disgustoso cane da grembo», talmente debole e insignificante che «basta soffiargli sul muso» per allontanarlo.
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A prima vista la scena appare serena: un gruppo di ragazzini gioca a rincorrersi in uno spiazzo davanti alla chiesa di un villaggio della Cornovaglia. Tre di loro stanno chinati intorno a un cagnolino bianco e nero, lo accarezzano e gli danno piccole pacche sulla testa e sul dorso. L’animale non sembra sentirsi particolarmente a proprio agio; si acquatta come a volere evitare le attenzioni che costoro gli rivolgono con così tanta insistenza. Chi ha visto il seguito di Cane di paglia sa bene come andranno a finire le cose.
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Se accade di imbattersi in una serpe acciambellata al sole sul selciato davanti all’uscio di casa, il primo impulso è quello di scacciarla con una scopa. Se però ricompare il giorno dopo, torna in mente un antico detto popolare che dice che, quando si spara a un serpente con il fucile, questo si rompe.
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Una coppia di lepri e una famigliola di volpi condividono il medesimo spiazzo ai margini del bosco. Durante il giorno regna la calma, ma al calare dell’oscurità ha inizio l’eterna battaglia per la sopravvivenza.
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Il nostro orecchio può captare una grande quantità di suoni tra loro diversi, ma non possiede buone capacità di selezione. Il verso rauco e profondo di un’anatra selvatica udito in lontananza può essere confuso con il muggito di una mandria.
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Gli «esili levrieri» sono quelli che promettono senza mantenere, che mentono senza ritegno. Per costoro Nietzsche ha «pronte le sue pedate».
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I poemi epici hanno questo dalla loro: che ogni azione compiuta dagli umani è indirizzata dal volere divino, nel bene o nel male. Nel male per Mesenzio, che sta per affrontare Enea e confida al suo cavallo il fatale destino cui entrambi vanno incontro. Questi, allora, piange amaramente.
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I piccioni se ne stanno allineati l’uno accanto all’altro sul filo che collega due tralicci, come i bersagli del tiro a segno di un vecchio luna-park.
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Tutte le volte che si giocava a nascondino in cortile, uno di noi spariva e non ritornava nemmeno per la conta. Era là con la faccia incollata alla rete del pollaio e lo sguardo rapito dai goffi movimenti dei pennuti, “Fabio delle galline”.
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Qualora si trovi un insetto capovolto, si cerca di rimetterlo nella posizione naturale. Ma non ci si deve scordare del tempo in cui si proseguiva oltre, o peggio.
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Nulla di più irreale che quei documentari dove i tempi degli animali sono dettati da quelli delle riprese.
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– La lepre correva a zig-zag, per questo l’ho mancata! – Ripensando all’episodio, ora il vecchio cacciatore benedice la sua cattiva mira.
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Drôlerie. Come quelle figure bizzarre che appaiono talvolta nei manoscritti medievali: centauri in lotta con la propria coda, che termina in una testa di drago o di serpente. Tre pesci, raggruppati a formare un triangolo, con le teste in comune e un occhio al centro. Geometrie teratologiche, le si potrebbe chiamare.
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Ruminare, come in genere fanno gli animali da pascolo, non conviene, perché vuole dire stare sopra le cose per troppo tempo e i pensieri, anche quelli che all’inizio possono dare conforto, alla lunga diventano stucchevoli e molesti. Meglio trangugiare alla svelta come fanno i carnivori, e sperare che tutto esca il più rapidamente possibile.
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Liberarsi da «tutta la massa brulicante dei libri», come suggerisce Nietzsche. Abbandonare per un po’ di tempo qualsiasi genere di lettura e fare come quelle lucertole che, sotto una minaccia incombente, lasciano che la coda si distacchi dal resto corpo, sapendo che presto o tardi si riformerà.
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Nietzsche ci dice trattarsi di un «animale marino» quello che «si stende al sole rotondetto, felice». Viene da pensare ai castori o alle lontre, che costruiscono i loro rifugi con pazienza, ramo dopo ramo e li assemblano con il fango neanche avessero a disposizione calibri, mattoni e cemento.
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Grande è la sorpresa quando, lungo un sentiero di montagna, ci si imbatte all’improvviso nel teschio di un mammuth. La cavità dell’orbita oculare è perfettamente posizionata sul profilo sinistro della fronte; appena al di sotto si apre una larga fenditura che arriva fino alla mandibola (probabile segno di cruente battaglie) e da lì si estende, ancora perfettamente conservata, la zanna ricurva. È necessario qualche istante per accorgersi di aver scambiato la radice di un albero per un magnifico reperto fossile. Ma, del resto, una specie capisce sempre quando sta per estinguersi.
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Federico Tozzi scrive un libretto e lo intitola Bestie. È composto da sessantotto racconti brevi o brevissimi, in ciascuno dei quali, quasi sempre alla fine, compare l’immagine inattesa di un animale. La fauna è piuttosto variegata: oltre venti uccelli, una quindicina di insetti, un numero imprecisato tra cani, gatti, topi, capre, cavalli e rettili, un pesce rosso e un liocorno. Quest’ultimo è «color di carta bianca», uscito «da qualche favola vecchia» e in grado di poter essere addirittura ammaestrato.
