
Immagine di Chiara Romanini
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I vuoti lasciati dalle rovine li si riempie di cadaveri.
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L’abisso che così tanto temiamo e che a volte ci opprime può avere maggior peso del suo orlo, che calpestiamo da sonnambuli per tutta la vita?
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L’oblio come una pesante zavorra scaricata dall’alto sull’umanità.
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Soltanto nelle storte di un alambicco i pieni e i vuoti sono sempre bilanciati.
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Sono vertebrati gli uomini, i gatti, gli alberi che con i loro rami spogli puntano verso il cielo. Sono invertebrati le nuvole che li sovrastano, le menzogne, la legna che sta per diventare cenere. Inorganica è invece la polvere, alleata del tempo.
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Si dice che gli egizi, prima di partecipare a un’orgia, ponessero nel luogo convenuto qualche macabro emblema che ricordasse la fugacità della vita.
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I quaderni in cui si trovano raccolte le citazioni dai libri che si sono letti diventano, con il passare del tempo, il magazzino delle provviste dal quale si potrà attingere durante i frequenti periodi di carestia.
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La penna raspa il foglio e le parole ne contaminano la superficie, fino al punto che neppure l’anima resta integra.
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Alle volte la solitudine consente di leggere un dialogo avvertendone distintamente le voci.
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Non si discute con chi ha fede: lo si lascia cuocere nel suo brodo.
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La calligrafia avvisa che il tempo dello scrivere male va archiviato.
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In ultima istanza, la scrittura si può ridurre al binomio nero/bianco.
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Il corpo che sta di qua, l’anima che se ne va di là. La volontà di ricongiungerli deve farsi in quattro.
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Il passato si stende come un velo sopra il presente, come quello che ricopre le poltrone nelle stanze dove da anni nessuno mette piede.
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Si è in attesa del sogno che riporti alla luce i luoghi bui del passato.
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Ci fu chi diceva che le fave intorbidano l’anima, ma erano tra i pochi alimenti che offrivano i luoghi montani durante l’inverno.
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Per riprodurre il visibile è sufficiente la perizia di un fotografo, ma un dipinto ha il potere di rendere visibile fin nel profondo il mondo che c’è dietro.
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Dei graffiti rupestri sappiamo a sufficienza, ma che si può dire di un’orma impressa sul terreno milioni di anni fa: horror vacui?
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Il vuoto creato dai Tagli di Fontana rompe il pieno della tela.
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È raro che gli oggetti di una casa si trovino liberi dalla schiavitù di essere utili.
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In giapponese gutai significa ‘concreto’, inteso come libertà di movimento nel caos della materia.
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La tendenza odierna è quella di evitare accuratamente i luoghi intricati e profondi del pensiero, le sue zone tropicali.
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Almeno davanti al baratro l’invidia dovrebbe fare un passo indietro.
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Se è vero che non si possono risolvere i problemi con un colpo di bacchetta magica, lo si potrebbe fare con un colpo di pistola.
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Andrebbe accolto il suggerimento di Nietzsche, che invita a mettere da parte il risentimento per la leggerezza della nuance, «la migliore conquista della vita».
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Se prima di andare in battaglia gli indiani si dipingevano il viso con i colori di guerra oggi, tuttalpiù, lo si spalma con la schiuma da barba.
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Si deve entrare in un libro come si entra nell’acqua, tuffandocisi.
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Così come anche il giardino più protetto e curato non può restare a lungo immune dall’aggressione delle piante infestanti, altrettanto accade per le società colpite dal processo di industrializzazione. McDonald’s e smartphone necessiterebbero di periodiche potature.
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Quando si sente dire da qualcuno: “non mi reggo in piedi”, ci si allarma pensando che possa essere qualcosa di più di una semplice stanchezza passeggera. I più apprensivi hanno addirittura davanti agli occhi la targhetta identificativa appesa al piede di un cadavere.
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La vecchietta pia e zelante aggiunge un’altra fascina di legna alla pira del supplizio: sancta simplicitas!
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Si rimane aggrappati al sesso e ai divertimenti come i naufraghi al relitto della nave.
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Circa l’uso delle citazioni vale il nietzschiano «si prende, non si domanda da chi ci sia dato».
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Il tempo dello scrittore è quello che gli serve per portare a termine il libro. Quello del lettore è tutto il tempo che viene dopo.
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Gettate in una discarica insieme ad altri rifiuti, due marionette guardano stupefatte il cielo stellato. “Non conosco la via giusta; dice la più giovane. Non fa niente; nemmeno io”, risponde l’altra, che per lungo tempo aveva fatto divertire gli spettatori.
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La nuvola spinta dal vento sottrae per un attimo al sole la dittatura del cielo.
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L’occhio dovrebbe contenere inchiostro per vedere con più chiarezza la scrittura.
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Da quando gli ha sottratto l’uomo il Paradiso terrestre ha preso le distanze da Dio.
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Solitudine e fascinazione – qualche volta la fascinazione della solitudine – permeano la scrittura.
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«Non siamo alla fine, bensì all’inizio di un’era di civiltà». Con la fermezza e il coraggio che gli appartenevano, quell’inizio Scheerbart non ha voluto attenderlo; da lì in poi nessuno ha osato più sperarvi.
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Il planetario è una rivisitazione al ribasso del cosmo.
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Il rabbino che doveva trascrivere la Torah sapeva bene a quale rischio lo esponeva quel compito: se avesse omesso o aggiunto una sola lettera, avrebbe distrutto il mondo intero.
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Nella cabala antica Mî (“Chi?”) allude al Dio nascosto e imperscrutabile. Nel buddismo Zen Mu indica il “Niente”, il “Nulla”.
