(POESIE 1955-1959)

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O duri giardini…
O duri giardini
del fanciullo disteso,
quello che ispira pianto
se alle fontane i deboli suoi fiori
portiamo già corrosi
dal colore di buio;
quello che danza sulle nostre gote
entro sfere di lacrime veloci;
quello che chiama gli amici
con liste di bronzo;
il fanciullo della neve,
quello che corse sui ponti di legno
privati di un asse; quello che tacque
dal sonno alla roccia; e dorme
stringendo un tempo
che muta tuttavia dei suoi colori,
giallo o piú grigio o rosa
o quella somma impavida di buio
che separa gli esseri uccisi.
Come sarà? Come sarà il suo corpo,
quello che non si volta e ancora intatto
manda fiori di inverno dal dipinto?
Compatto? O scopriremmo i soli occhi
crudi di asteria?
Voi dovete capire la maceria
della madre aggrappata ai suoi violini
di ruggini e ringhiere;
non dovete mostrare
fanciulli, in queste sere dell’autunno;
non dovete implorare
il volto senza scosse della donna
che grida: «addio alle foglie rosse»! –
Sfere danzano a lungo sulle gote
del tempo fatto madre. Sfere vuote.
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Ballata del mimo nero
Per venticinque inverni ho ucciso un fauno,
in un bosco di marmo uno ogni inverno;
soffrendo come un uomo dimezzato,
nella vena piú triste.
Per venticinque liste di stagioni
ho ucciso il fauno amato,
che foglie dilatava nei suoi occhi,
autunni di fango e di mare,
capro dai piedi gialli che fuggiva
l’anima, assai leggera dentro il bosco.
Per venticinque inverni ho trascinato
uomo, morte e animale,
come enormi strumenti,
cercando fango e mare in occhi alterni;
ma non conosco uomo
o morte od animale
diversi dal fauno ucciso;
scendono tutti nel viso,
non terreno né astrale,
del chiuso mondo umano;
e lungamente esistono, anche vecchi
piú delle vecchie corde polverose.
Per venticinque inverni,
un fauno tra le cose
ha spinto casse di vento.
Come su una terrazza di orologi
confitti in pavimento,
uomo, morte e animale
hanno invocato vento dalle casse
contro i libri crudeli,
contro gli alberi acuti,
contro i neri strumenti chiusi a chiave
nel cuore dimezzato.
Non sono l’uomo,
non sono la mia morte,
non so lasciare indietro il mio animale;
con piedi gialli, batto un pavimento
di casse e di orologi.
Potrei spezzare un vento e un tempo mio,
quest’essere minuscolo
fra corde polverose,
trasognando,
crescere nel mio capo dimezzato;
ma contro le mie cose,
uomo, morte e animale che ho imitato,
lungo inverni o per ore, dentro il viso,
spingono un fauno ucciso,
un mimo nero,
lo zero fatto amore.
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Radici
Pensare, trasformare, riportare
al disordine vero,
la vastità apparente:
ecco le umiliazioni. Esse hanno
strascichi polverosi,
radici nel sole, guizzi ventosi
di cose che fanno traccia
provando respiri piú acerbi;
e non dicono nulla,
non scoprono piú nulla,
fingono a volte di servire,
di aderire alla terra, di imitare
le cose che sanno
e i profili che vanno contro il cielo;
e aspettano
un treno melodioso senza luci
sotto cui gettarsi
per una prova da nulla,
con guizzo ventoso, per uccidersi
precocemente sole
davanti a quello che non si scopre.
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Da un terrazzo
Vieni sul controluce
limato dalle rondini.
Lampeggia, simulata
entro il rosso segnale
dell’aereo che plana,
non dall’eterno, e sfuma
su piste indistinguibili.
Sbalzati sulle punte
che, all’estrema plaga
d’erbe, vorticheranno
in eliche. Tu vìola
l’irreversibile
dei voli, trasformando
quegli agitati venti
del salire, in accordo
muto, calante, acceso
del tramonto di te.
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Il sintomo
Séguita il mondo a ferirsi e a morire;
e intanto le campagne trasfigurano
ogni anima nel suo abbagliante autunno.
Si scorge, in ogni forma, un punto vuoto
e odore assale, come di ampio lago
quando nel cupo Ottobre vi traspira
la naufragata calma dell’estate.
Qualcosa non si libera; ma tiene
come a un vento d’altre plaghe,
rovesciate le foglie e quasi estinta
la tentazione lunga di apparire
anche in un vuoto delle cose sciolte.
E poi, nel fumo inerte del suo giro,
l’ultima idea d’amore che rimane.
E poi, quel senso che qualcuno è lí.
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La stazione assente
Per Viola Orlando
Se un viaggio ha radice nel gesto
di un essere che imprime le sue spalle
entro il coro fumoso dei treni;
se i vetri viaggiatori
fanno muto e lontano
ogni essere che prima ignoravamo,
ed ora tace e si allontana «in noi»;
se andarsene è privare i portatori
di addio, del raro albero umano
ove crebbe l’amore;
se il cuore fu un deserto capovolto,
dopo che un’aria sciolse la partenza;
tu fosti viaggiatrice non pietosa;
e invano comparendo in ogni cosa,
mescoli morte e presenza.
Davvero, piú nessuno ora ti aspetta.
Nei corsi tenebrosi del tuo viaggio
passano i vetri ancora,
fumosi viaggiatori al cui riparo
corre il messaggio dell’anima.
Dovunque è raro avere una risposta;
piú vivamente costa oggi capire,
se il cuore vanamente è raddrizzato.
Guardare su, vedere la smisura,
nella stazione assente,
di noi portatori d’addio
lungo un treno dagli alti vetri chiusi;
oggi non è paura.
Si dice che la carne è fatta musica
nei viaggiatori spenti;
ma qui fra le case e la pioggia,
non musica discende dai tuoi venti
anni di treno;
qui, solo un fischio vien meno,
rumore che soffia
dai viaggi della terra
nel cuore raddrizzato.
O viaggiatrice,
nel fumo che ti serra mortalmente,
nella stazione assente,
portiamo una smisura:
cose del nostro corpo fatte poesia;
e tuniche, per l’ora in cui volessi
vestire la tua carne fatta musica,
sul vetro della nostra fantasia.
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Il cammino tra le fosse della città con…
Ogni strumento batte la città
con manifeste note e note occulte;
ma nella siepe fitta di paesaggio,
ove ogni porta ora è uno specchio opaco
per aliti di nebbia, non capirti
e rumore piú grande,
mia grande persona triste.
Vorremmo non avere passeggiato
da molto tempo,
per divenire « noi» la passeggiata;
vorremmo che le cifre sullo spazio
di lunghe pareti, cattive
come gli alberi comuni
e i profili di amore e malattia
che l’aria ci trasporta accanto,
non animassero il cammino alterno
dell’anima, sul tronco ora diritto,
ora contorto, come il rammentare.
«Hanno dipinto gli alberi – tu dici –
lassú; ma è sempre piú Gennaio;
e le stagioni, poche,
nel tempo meno gaio,
piú poche si fanno ogni giorno.
Pensa, quattro stagioni
per tanti giorni quanto è duro un anno.
Novanta giorni: che inverno è oggi?
Novanta giorni: che primavera è oggi?
Novanta giorni: che estate è oggi?
Novanta giorni: che autunno è oggi?»
Vorremmo non avere le stagioni,
o chiedere allo specchio,
dove l’anima acuta è solitaria:
«Che stagione è oggi, animale di aria?»
Ho paura del tetto comune; meglio
qui tra le fosse esistere, che alcuni
nel lucido mattino
scavano muti.
Ma allora il pensiero che tu,
fra mille anni possa occulta servire
a una città, per ricordare il tempo
delle grandi persone tristi
che dipinsero gli alberi in Gennaio
e vollero stagioni
per tanti giorni quanto è duro un anno;
il pensiero di te chiusa nell’aria
di una polvere acuta
che d’amore si tinge,
al brivido costringe di parole
forti come ogni cifra lungo i muri,
acute come un’anima allo specchio
se vivamente coglie solitaria
la sua grande natura:
animale di aria
che un alito già spande.
Ho paura dell’albero comune,
ora contorto, ora diritto;
timore d’essere oscuro mi prende
qui nella poesia,
poiché chiaro è il mio viaggio
con profili di amore e malattia.
La casa del filosofo è lontana,
chiusa in novanta inverni;
anche il muro del critico distante,
stringe il colore
di un albero dipinto.
Nel cammino tra fosse di città,
ora sospinto con profili eguali,
solo un uomo rimango, al «tuo» specchio,
mia grande persona triste;
e provo l’avventura
d’ogni anima acuta e solitaria,
se fisso la natura
del mio animale di aria.
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Quasi una calma
Si canta per non essere. E tu canti.
Spirali che attraversano il tuo viso
per lunghe trasparenze, digradando
nel mare assente
di ciò che non accade;
fili di storta vita, che vanno
dalla memoria al sogno;
volubili e tenaci spirali
che hascono in parole dolorose;
notte di cose allungata negli occhi
ora socchiusi, ora sepolti;
e poi il silenzio e la separazione
ed ora la stranezza,
quasi una lima che toglie,
che rode fra volti notturni.
Spirali per un mondo impolverato,
abitudine e musica e umore,
nulla che se ne va, nulla fasciato
di calma, nulla che scopre il suo dorso,
allunga la sua mano,
depone il suo monile di carne
fra certi suoni e certi alberi;
qualcosa che dirada indefinibile
ed è fra cose sole, ormai sfinite.
La notte e Dio che ride pazzamente.
Si vibra per non vivere. E tu vibri.
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Lettera della morta magia
Per Viola Orlando
O cari,
nelle stanze passate che abitammo,
vagano insieme, ancora trascinando,
i due neri cavalli del corteo
che a me distesa in un mondo di zinco
aperse la morta magia.
Non lettere di ossa
vorrei potervi scrivere; non crude
immagini del vecchio paradiso,
che trema come il vecchio
carro del mio Novembre
uscito dalla nebbia sopra i viali
dell’argento infelice.
Pensate, noi scriviamo
anche sotto la pioggia.
Parole che durano un anno
scendono sopra i fiumi;
perché noi ritorniamo al mondo vero,
rozzi dei nostri lumi frammentati
entro un rozzo pensiero:
le lettere infelici viaggeranno
anche sotto la pioggia.
Pensate: i nostri gomiti,
sull’argento infelice
chiedono il mondo e aspettano che piova.
Se vi dicessi: il tremito del carro
sotto i cuscini di viole, continua;
tremano i miei capelli sopra il fiume
di viole;
e direzioni vagano nel sogno.
Se vi dicessi: i quadri che portate
nei vostri viaggi,
non sono per la vostra fantasia;
o cari, o ladri del mio viso,
di uccidere quel tremito ho bisogno;
spingete altrove il vecchio paradiso,
aiutate la morta magia!
Se vi dicessi: un’orbita
chiude l’amore, ma non serba traccia.
Se vi dicessi: ho teso le mie braccia
sull’argento infelice,
ma il tremito è di nebbia;
verreste e nelle case che abitammo,
per aspettare il carro delle viole,
i due neri cavalli del corteo
che portano cuscini di magia?
O cari, non tremate se una lettera
di ossa
dimentica la vostra fantasia.
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Parole con altro essere
C’è polvere sbandata, che riesce
a simularsi in forme, affilandosi
con una ragnatela; e questa pende
in angoli alti e oscuri di soffitta,
o interstizi di muro. E basta un soffio
(una magía che varia, od uno sguardo
che salga quasi a tocchi
di cuore), perché quella ragnatela
oscilli, quasi pendoli e divenga
una cosa
nitidamente viva, anzi importante,
quasi come un altro essere soffocante.
C’è polvere sbandata, quotidiana,
che sta per « diventare»; ma si perde.
C’è polvere di tagli,
di margini umiliati, di non miti
trasformazioni.
C’è polvere di limiti,
bocche di aspettazione
che stavano per farsi
respiro di risposte;
e tempie di pensiero
che stavano per farsi
battito dell’aiuto;
e il rovescio di questo. C’è squittio
delle cose che misteriosamente
potevano
essere piú che parola e coraggio
nel fondersi.
C’è polvere di chi non s’accorge,
di chi s’astiene con sforzi sconosciuti,
poteri che non agiscono e silenzi
che piú amorevolmente dell’amore
operano.
Oh, trascurare queste cose calme
ed inspiegabilmente invadersi.
O caro, altro essere con parole,
la mia anima è così poco incantata,
così poco aiutata da un lasciarsi
andare
— chissà cosa potrebbe,
dove potrebbe estinguersi -;
la mia anima è cosí poco paurosa;
cosí
ferocemente adulta di ripari,
di svolte salvatrici; cosí ingiusta
nel forte e impercettibile suo assillo
del non dire piú nulla;
la mia anima è cosí poco insicura
e infinita,
che le basta la sua solitudine
per vagare.
E a volte se ne astiene.
E ha scelto
parole, per attrarre
durevolmente
il vecchio infinito nel nuovo;
e il rovescio di questo; e lo squittio
di sbandata memoria che fa Aprile,
sbattendo la sua forbice là dove
la rosa di una giusta indifferenza
profuma i ponti della tua città.
(1 maggio 1958)
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Rosa e fumo
Non posso diventare, eppure esprimo
un viaggio, capovolto in questo puro
firmamento di terra, sopra liste
ferrigne, in dondolío sfuggenti, elise
da svolte ove laggiú dura una valle.
Rosa e fumo alle soste, e allineati
fuochi su irraggiungibili crinali:
anche lassú, qualcosa dura il tempo
del suo guizzo, fiammeggia ora in acumi
che l’arco del mio treno indietro sperde.
L’iride prolungata dei vagoni
irrompe in altro verde, in altro oscuro,
sceglie nei monti il taglio per cui invadere,
firmamenti di arrivo, le stazioni.
Dietro, le corruzioni della scia,
i rifiuti, le forme da evitare.
Piú indietro, irriducibile, altro mare,
quella febbre, increspata, di stagioni.
(13 febbraio 1959)
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Montecavo
No. Non basta il trascinío che spasima
nel vento soffocato sotto i colli,
né l’aspra avidità di spazio, il salto
che bramano le cose dilatate
in massi a picco;
per garrire nel gioco che un abisso
spalanca in noi, bandiere avviluppate.
Non basta l’affiancarsi di solari
fantasmi, a quelli in fuga per le rotte
dell’anima chiamata a un viaggio (filtra
ogni paesaggio il suo richiamo astuto)
e nulla basta, a quello che si screzia
fuggevolmente, eppure con durezza
degli attimi, su rami d’impazienza.
La mano che rompe nel sole
il corporeo suo attacco; e la parola
che si deforma in vento
per cadere piú in là del mattino;
e l’impeto degli occhi che si stempra
nell’anelato mondo dei confini;
s’intrecciano
con altra inerzia, che non basta a sé,
di cielo, d’impossibile che irrompe.
(5 aprile 1959)
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Mattinata
Pericolo è credersi accorti,
pazienti, già infilati nella cruna
di qualche abilità, mossi per una
forza che pare guidi anche se scaccia.
Come allaccia, il pericolo di storti
pensieri! Come smorza la falcata
velocità di passi che una folla
sommerge in sé! (Piú vivo, piú sbattente
è il verde, duro insetto tra il fogliame.)
Pericolo è lo sciame dei suoi transiti
cupi; ma nello specchio di te insonne,
anima, a volte indugia avvertimento
di cammini, rasentarsi di paure,
quel trattenersi ingenuo che hanno i morti
dietro spigoli d’ansia, inappagati
del freddo ieri in cui piove la vita.
Pericolo che vibra nelle dita
di molte siepi rovesciate in su
dal vento che si fa scacciapensieri.
(9 maggio 1959)
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La dolce ora non scocca…
La dolce ora non scocca. Il ventilato
disordine degli alberi non sbanda
oltre la forma pendula. Scrutate
consistono in mistero le benigne
cose, gli sprazzi, i trepidi legami
dell’uso, attiva urgenza d’altro sogno,
le chiamate terrestrità d’amore
nelle inquiete anime strette,
nelle inette solitudini. Stinge
altro giorno, linguaggi si disfanno
e, come ignote, pendono manie
chissà dove nel sonno — il chiuso fiume,
la cupola, le persone imperfette
che annodano fili di mondo,
la cesoia che tocca nella siepe
di questa vibrazione, che sfoltisce;
la pioggia che si muove segretissima
e non pare che giunga o forse… oh, dove
pendolerà la dolce ora, la lunga?
(1 giugno 1959)
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La mano che si stringe…
Là mano che si stringe in mezzo al cielo
serra nubi e cristalli,
a specchio dei legami
terrestri; e per ventate,
confusi, gonfi, opachi battimenti
sprigionano l’autunno.
Cova nel mare un riposo
alto di voci, un’arca lunga affonda
e risale con le foglie del mare,
trafiggono grotte i riflessi
d’aperto autunno chiusi sotto il mare.
È dunque spinta altrove
l’anima; e chiama somiglianza
di cose, i tagli inferti dall’autunno
allo spazio, dal mare a quel nitore
che libra in sé pigrizia della luce
eppure slancio, ampio gioco di inni
delicati, avvio di schiume
a generarsi in urto… promontori
spezzano il sogno; e il mare ricomincia,
è l’avido, e piú, autunno
dei flussi che s’inebriano
contro l’autunno terrestre,
lotta e amore di sonanti filari
in cui azzurro traspira,
ànsimo vuoto contro vuote stelle
d’autunno, lassú.
(30 settembre 1959)
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Raffaele Orlando è morto a trentatre anni il 25 giugno 1962, mentre si correggevano le bozze di questo libro [L’annaspo, Einaudi 1963]. Pareva che vi fosse ancora una speranza di farglielo palpare, vedere, annusare da vivo, di fargli provare quello ch’è forse l’unico piacere degli scrittori, e che spesso dura solo un istante, un istante intensissimo. E invece no. La morte che aveva fissato ad Orlando un singolare e atroce appuntamento, è stata esatta anche in questo […]. Fisicamente drammaturgo, e poeta in ciò che più rivela i poeti (cioè nell’ossessivo amore per le parole), Orlando cerca affannosamente d scoprire il rapporto più vero fra parola e dramma, poesia e azione, per poi giungere a quella coincidenza fra azione e contenuto morale in cui la pietà per le persone diventa giudizio. Sono sicuro che vi sarebbe arrivato, e ben presto […] E invece no. Siamo qui a parlare di lui come vi fosse ancora un futuro, e invece no, è passato. Speriamo che, come ogni cosa autentca, non sia passato invano.
Ruggero Jacobbi (dalla prefazione a L’annaspo)
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Raffaele Orlando nasce a Menaggio il 2 gennaio 1929. Nel 1960 entra a far parte del Piccolo Teatro di Milano, come assistente di Giorgio Strehler. Collabora con lui a diversi spettacoli come L’Egoista, L’eccezione e la regola, Ricordo di due lunedì. Scrive due drammi, Il sintomo e L’annaspo. Lascia poesie inedite, pagine di diario e appunti per un dramma dal titolo Discorso della pianura. Muore il 25 giugno del 1962 a Gardone Riviera.
