PAROLE CON ALTRO ESSERE. Raffaele Orlando

(POESIE 1955-1959)

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O duri giardini

O duri giardini

del fanciullo disteso,

quello che ispira pianto

se alle fontane i deboli suoi fiori

portiamo già corrosi

dal colore di buio;

quello che danza sulle nostre gote

entro sfere di lacrime veloci;

quello che chiama gli amici

con liste di bronzo;

il fanciullo della neve,

quello che corse sui ponti di legno

privati di un asse; quello che tacque

dal sonno alla roccia; e dorme

stringendo un tempo

che muta tuttavia dei suoi colori,

giallo o piú grigio o rosa

o quella somma impavida di buio

che separa gli esseri uccisi.

Come sarà? Come sarà il suo corpo,

quello che non si volta e ancora intatto

manda fiori di inverno dal dipinto?

Compatto? O scopriremmo i soli occhi

crudi di asteria?

Voi dovete capire la maceria

della madre aggrappata ai suoi violini

di ruggini e ringhiere;

non dovete mostrare

fanciulli, in queste sere dell’autunno;

non dovete implorare

il volto senza scosse della donna

che grida: «addio alle foglie rosse»! –

Sfere danzano a lungo sulle gote

del tempo fatto madre. Sfere vuote.

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Ballata del mimo nero

Per venticinque inverni ho ucciso un fauno,

in un bosco di marmo uno ogni inverno;

soffrendo come un uomo dimezzato,

nella vena piú triste.

Per venticinque liste di stagioni

ho ucciso il fauno amato,

che foglie dilatava nei suoi occhi,

autunni di fango e di mare,

capro dai piedi gialli che fuggiva

l’anima, assai leggera dentro il bosco.

Per venticinque inverni ho trascinato

uomo, morte e animale,

come enormi strumenti,

cercando fango e mare in occhi alterni;

ma non conosco uomo

o morte od animale

diversi dal fauno ucciso;

scendono tutti nel viso,

non terreno né astrale,

del chiuso mondo umano;

e lungamente esistono, anche vecchi

piú delle vecchie corde polverose.

Per venticinque inverni,

un fauno tra le cose

ha spinto casse di vento.

Come su una terrazza di orologi

confitti in pavimento,

uomo, morte e animale

hanno invocato vento dalle casse

contro i libri crudeli,

contro gli alberi acuti,

contro i neri strumenti chiusi a chiave

nel cuore dimezzato.

Non sono l’uomo,

non sono la mia morte,

non so lasciare indietro il mio animale;

con piedi gialli, batto un pavimento

di casse e di orologi.

Potrei spezzare un vento e un tempo mio,

quest’essere minuscolo

fra corde polverose,

trasognando,

crescere nel mio capo dimezzato;

ma contro le mie cose,

uomo, morte e animale che ho imitato,

lungo inverni o per ore, dentro il viso,

spingono un fauno ucciso,

un mimo nero,

lo zero fatto amore.

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Radici

Pensare, trasformare, riportare

al disordine vero,

la vastità apparente:

ecco le umiliazioni. Esse hanno

strascichi polverosi,

radici nel sole, guizzi ventosi

di cose che fanno traccia

provando respiri piú acerbi;

e non dicono nulla,

non scoprono piú nulla,

fingono a volte di servire,

di aderire alla terra, di imitare

le cose che sanno

e i profili che vanno contro il cielo;

e aspettano

un treno melodioso senza luci

sotto cui gettarsi

per una prova da nulla,

con guizzo ventoso, per uccidersi

precocemente sole

davanti a quello che non si scopre.

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Da un terrazzo

Vieni sul controluce

limato dalle rondini.

Lampeggia, simulata

entro il rosso segnale

dell’aereo che plana,

non dall’eterno, e sfuma

su piste indistinguibili.

Sbalzati sulle punte

che, all’estrema plaga

d’erbe, vorticheranno

in eliche. Tu vìola

l’irreversibile

dei voli, trasformando

quegli agitati venti

del salire, in accordo

muto, calante, acceso

del tramonto di te.

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Il sintomo

Séguita il mondo a ferirsi e a morire;

e intanto le campagne trasfigurano

ogni anima nel suo abbagliante autunno.

Si scorge, in ogni forma, un punto vuoto

e odore assale, come di ampio lago

quando nel cupo Ottobre vi traspira

la naufragata calma dell’estate.

Qualcosa non si libera; ma tiene

come a un vento d’altre plaghe,

rovesciate le foglie e quasi estinta

la tentazione lunga di apparire

anche in un vuoto delle cose sciolte.

E poi, nel fumo inerte del suo giro,

l’ultima idea d’amore che rimane.

E poi, quel senso che qualcuno è lí.

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La stazione assente

Per Viola Orlando

Se un viaggio ha radice nel gesto

di un essere che imprime le sue spalle

entro il coro fumoso dei treni;

se i vetri viaggiatori

fanno muto e lontano

ogni essere che prima ignoravamo,

ed ora tace e si allontana «in noi»;

se andarsene è privare i portatori

di addio, del raro albero umano

ove crebbe l’amore;

se il cuore fu un deserto capovolto,

dopo che un’aria sciolse la partenza;

tu fosti viaggiatrice non pietosa;

e invano comparendo in ogni cosa,

mescoli morte e presenza.

Davvero, piú nessuno ora ti aspetta.

Nei corsi tenebrosi del tuo viaggio

passano i vetri ancora,

fumosi viaggiatori al cui riparo

corre il messaggio dell’anima.

Dovunque è raro avere una risposta;

piú vivamente costa oggi capire,

se il cuore vanamente è raddrizzato.

Guardare su, vedere la smisura,

nella stazione assente,

di noi portatori d’addio

lungo un treno dagli alti vetri chiusi;

oggi non è paura.

Si dice che la carne è fatta musica

nei viaggiatori spenti;

ma qui fra le case e la pioggia,

non musica discende dai tuoi venti

anni di treno;

qui, solo un fischio vien meno,

rumore che soffia

dai viaggi della terra

nel cuore raddrizzato.

O viaggiatrice,

nel fumo che ti serra mortalmente,

nella stazione assente,

portiamo una smisura:

cose del nostro corpo fatte poesia;

e tuniche, per l’ora in cui volessi

vestire la tua carne fatta musica,

sul vetro della nostra fantasia.

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Il cammino tra le fosse della città con…

Ogni strumento batte la città

con manifeste note e note occulte;

ma nella siepe fitta di paesaggio,

ove ogni porta ora è uno specchio opaco

per aliti di nebbia, non capirti

e rumore piú grande,

mia grande persona triste.

Vorremmo non avere passeggiato

da molto tempo,

per divenire « noi» la passeggiata;

vorremmo che le cifre sullo spazio

di lunghe pareti, cattive

come gli alberi comuni

e i profili di amore e malattia

che l’aria ci trasporta accanto,

non animassero il cammino alterno

dell’anima, sul tronco ora diritto,

ora contorto, come il rammentare.

«Hanno dipinto gli alberi – tu dici –

lassú; ma è sempre piú Gennaio;

e le stagioni, poche,

nel tempo meno gaio,

piú poche si fanno ogni giorno.

Pensa, quattro stagioni

per tanti giorni quanto è duro un anno.

Novanta giorni: che inverno è oggi?

Novanta giorni: che primavera è oggi?

Novanta giorni: che estate è oggi?

Novanta giorni: che autunno è oggi?»

Vorremmo non avere le stagioni,

o chiedere allo specchio,

dove l’anima acuta è solitaria:

«Che stagione è oggi, animale di aria?»

Ho paura del tetto comune; meglio

qui tra le fosse esistere, che alcuni

nel lucido mattino

scavano muti.

Ma allora il pensiero che tu,

fra mille anni possa occulta servire

a una città, per ricordare il tempo

delle grandi persone tristi

che dipinsero gli alberi in Gennaio

e vollero stagioni

per tanti giorni quanto è duro un anno;

il pensiero di te chiusa nell’aria

di una polvere acuta

che d’amore si tinge,

al brivido costringe di parole

forti come ogni cifra lungo i muri,

acute come un’anima allo specchio

se vivamente coglie solitaria

la sua grande natura:

animale di aria

che un alito già spande.

Ho paura dell’albero comune,

ora contorto, ora diritto;

timore d’essere oscuro mi prende

qui nella poesia,

poiché chiaro è il mio viaggio

con profili di amore e malattia.

La casa del filosofo è lontana,

chiusa in novanta inverni;

anche il muro del critico distante,

stringe il colore

di un albero dipinto.

Nel cammino tra fosse di città,

ora sospinto con profili eguali,

solo un uomo rimango, al «tuo» specchio,

mia grande persona triste;

e provo l’avventura

d’ogni anima acuta e solitaria,

se fisso la natura

del mio animale di aria.

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Quasi una calma

Si canta per non essere. E tu canti.

Spirali che attraversano il tuo viso

per lunghe trasparenze, digradando

nel mare assente

di ciò che non accade;

fili di storta vita, che vanno

dalla memoria al sogno;

volubili e tenaci spirali

che hascono in parole dolorose;

notte di cose allungata negli occhi

ora socchiusi, ora sepolti;

e poi il silenzio e la separazione

ed ora la stranezza,

quasi una lima che toglie,

che rode fra volti notturni.

Spirali per un mondo impolverato,

abitudine e musica e umore,

nulla che se ne va, nulla fasciato

di calma, nulla che scopre il suo dorso,

allunga la sua mano,

depone il suo monile di carne

fra certi suoni e certi alberi;

qualcosa che dirada indefinibile

ed è fra cose sole, ormai sfinite.

La notte e Dio che ride pazzamente.

Si vibra per non vivere. E tu vibri.

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Lettera della morta magia

Per Viola Orlando

O cari,

nelle stanze passate che abitammo,

vagano insieme, ancora trascinando,

i due neri cavalli del corteo

che a me distesa in un mondo di zinco

aperse la morta magia.

Non lettere di ossa

vorrei potervi scrivere; non crude

immagini del vecchio paradiso,

che trema come il vecchio

carro del mio Novembre

uscito dalla nebbia sopra i viali

dell’argento infelice.

Pensate, noi scriviamo

anche sotto la pioggia.

Parole che durano un anno

scendono sopra i fiumi;

perché noi ritorniamo al mondo vero,

rozzi dei nostri lumi frammentati

entro un rozzo pensiero:

le lettere infelici viaggeranno

anche sotto la pioggia.

Pensate: i nostri gomiti,

sull’argento infelice

chiedono il mondo e aspettano che piova.

Se vi dicessi: il tremito del carro

sotto i cuscini di viole, continua;

tremano i miei capelli sopra il fiume

di viole;

e direzioni vagano nel sogno.

Se vi dicessi: i quadri che portate

nei vostri viaggi,

non sono per la vostra fantasia;

o cari, o ladri del mio viso,

di uccidere quel tremito ho bisogno;

spingete altrove il vecchio paradiso,

aiutate la morta magia!

Se vi dicessi: un’orbita

chiude l’amore, ma non serba traccia.

Se vi dicessi: ho teso le mie braccia

sull’argento infelice,

ma il tremito è di nebbia;

verreste e nelle case che abitammo,

per aspettare il carro delle viole,

i due neri cavalli del corteo

che portano cuscini di magia?

O cari, non tremate se una lettera

di ossa

dimentica la vostra fantasia.

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Parole con altro essere

C’è polvere sbandata, che riesce

a simularsi in forme, affilandosi

con una ragnatela; e questa pende

in angoli alti e oscuri di soffitta,

o interstizi di muro. E basta un soffio

(una magía che varia, od uno sguardo

che salga quasi a tocchi

di cuore), perché quella ragnatela

oscilli, quasi pendoli e divenga

una cosa

nitidamente viva, anzi importante,

quasi come un altro essere soffocante.

C’è polvere sbandata, quotidiana,

che sta per « diventare»; ma si perde.

C’è polvere di tagli,

di margini umiliati, di non miti

trasformazioni.

C’è polvere di limiti,

bocche di aspettazione

che stavano per farsi

respiro di risposte;

e tempie di pensiero

che stavano per farsi

battito dell’aiuto;

e il rovescio di questo. C’è squittio

delle cose che misteriosamente

potevano

essere piú che parola e coraggio

nel fondersi.

C’è polvere di chi non s’accorge,

di chi s’astiene con sforzi sconosciuti,

poteri che non agiscono e silenzi

che piú amorevolmente dell’amore

operano.

Oh, trascurare queste cose calme

ed inspiegabilmente invadersi.

O caro, altro essere con parole,

la mia anima è così poco incantata,

così poco aiutata da un lasciarsi

andare

— chissà cosa potrebbe,

dove potrebbe estinguersi -;

la mia anima è cosí poco paurosa;

cosí

ferocemente adulta di ripari,

di svolte salvatrici; cosí ingiusta

nel forte e impercettibile suo assillo

del non dire piú nulla;

la mia anima è cosí poco insicura

e infinita,

che le basta la sua solitudine

per vagare.

E a volte se ne astiene.

E ha scelto

parole, per attrarre

durevolmente

il vecchio infinito nel nuovo;

e il rovescio di questo; e lo squittio

di sbandata memoria che fa Aprile,

sbattendo la sua forbice là dove

la rosa di una giusta indifferenza

profuma i ponti della tua città.

(1 maggio 1958)

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Rosa e fumo

Non posso diventare, eppure esprimo

un viaggio, capovolto in questo puro

firmamento di terra, sopra liste

ferrigne, in dondolío sfuggenti, elise

da svolte ove laggiú dura una valle.

Rosa e fumo alle soste, e allineati

fuochi su irraggiungibili crinali:

anche lassú, qualcosa dura il tempo

del suo guizzo, fiammeggia ora in acumi

che l’arco del mio treno indietro sperde.

L’iride prolungata dei vagoni

irrompe in altro verde, in altro oscuro,

sceglie nei monti il taglio per cui invadere,

firmamenti di arrivo, le stazioni.

Dietro, le corruzioni della scia,

i rifiuti, le forme da evitare.

Piú indietro, irriducibile, altro mare,

quella febbre, increspata, di stagioni.

(13 febbraio 1959)

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Montecavo

No. Non basta il trascinío che spasima

nel vento soffocato sotto i colli,

né l’aspra avidità di spazio, il salto

che bramano le cose dilatate

in massi a picco;

per garrire nel gioco che un abisso

spalanca in noi, bandiere avviluppate.

Non basta l’affiancarsi di solari

fantasmi, a quelli in fuga per le rotte

dell’anima chiamata a un viaggio (filtra

ogni paesaggio il suo richiamo astuto)

e nulla basta, a quello che si screzia

fuggevolmente, eppure con durezza

degli attimi, su rami d’impazienza.

La mano che rompe nel sole

il corporeo suo attacco; e la parola

che si deforma in vento

per cadere piú in là del mattino;

e l’impeto degli occhi che si stempra

nell’anelato mondo dei confini;

s’intrecciano

con altra inerzia, che non basta a sé,

di cielo, d’impossibile che irrompe.

(5 aprile 1959)

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Mattinata

Pericolo è credersi accorti,

pazienti, già infilati nella cruna

di qualche abilità, mossi per una

forza che pare guidi anche se scaccia.

Come allaccia, il pericolo di storti

pensieri! Come smorza la falcata

velocità di passi che una folla

sommerge in sé! (Piú vivo, piú sbattente

è il verde, duro insetto tra il fogliame.)

Pericolo è lo sciame dei suoi transiti

cupi; ma nello specchio di te insonne,

anima, a volte indugia avvertimento

di cammini, rasentarsi di paure,

quel trattenersi ingenuo che hanno i morti

dietro spigoli d’ansia, inappagati

del freddo ieri in cui piove la vita.

Pericolo che vibra nelle dita

di molte siepi rovesciate in su

dal vento che si fa scacciapensieri.

(9 maggio 1959)

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La dolce ora non scocca

La dolce ora non scocca. Il ventilato

disordine degli alberi non sbanda

oltre la forma pendula. Scrutate

consistono in mistero le benigne

cose, gli sprazzi, i trepidi legami

dell’uso, attiva urgenza d’altro sogno,

le chiamate terrestrità d’amore

nelle inquiete anime strette,

nelle inette solitudini. Stinge

altro giorno, linguaggi si disfanno

e, come ignote, pendono manie

chissà dove nel sonno — il chiuso fiume,

la cupola, le persone imperfette

che annodano fili di mondo,

la cesoia che tocca nella siepe

di questa vibrazione, che sfoltisce;

la pioggia che si muove segretissima

e non pare che giunga o forse… oh, dove

pendolerà la dolce ora, la lunga?

(1 giugno 1959)

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La mano che si stringe…

Là mano che si stringe in mezzo al cielo

serra nubi e cristalli,

a specchio dei legami

terrestri; e per ventate,

confusi, gonfi, opachi battimenti

sprigionano l’autunno.

Cova nel mare un riposo

alto di voci, un’arca lunga affonda

e risale con le foglie del mare,

trafiggono grotte i riflessi

d’aperto autunno chiusi sotto il mare.

È dunque spinta altrove

l’anima; e chiama somiglianza

di cose, i tagli inferti dall’autunno

allo spazio, dal mare a quel nitore

che libra in sé pigrizia della luce

eppure slancio, ampio gioco di inni

delicati, avvio di schiume

a generarsi in urto… promontori

spezzano il sogno; e il mare ricomincia,

è l’avido, e piú, autunno

dei flussi che s’inebriano

contro l’autunno terrestre,

lotta e amore di sonanti filari

in cui azzurro traspira,

ànsimo vuoto contro vuote stelle

d’autunno, lassú.

(30 settembre 1959)

**

Raffaele Orlando è morto a trentatre anni il 25 giugno 1962, mentre si correggevano le bozze di questo libro [L’annaspo, Einaudi 1963]. Pareva che vi fosse ancora una speranza di farglielo palpare, vedere, annusare da vivo, di fargli provare quello ch’è forse l’unico piacere degli scrittori, e che spesso dura solo un istante, un istante intensissimo. E invece no. La morte che aveva fissato ad Orlando un singolare e atroce appuntamento, è stata esatta anche in questo […]. Fisicamente drammaturgo, e poeta in ciò che più rivela i poeti (cioè nell’ossessivo amore per le parole), Orlando cerca affannosamente d scoprire il rapporto più vero fra parola e dramma, poesia e azione, per poi giungere a quella coincidenza fra azione e contenuto morale in cui la pietà per le persone diventa giudizio. Sono sicuro che vi sarebbe arrivato, e ben presto […] E invece no. Siamo qui a parlare di lui come vi fosse ancora un futuro, e invece no, è passato. Speriamo che, come ogni cosa autentca, non sia passato invano.

Ruggero Jacobbi (dalla prefazione a L’annaspo)

*

Raffaele Orlando nasce a Menaggio il 2 gennaio 1929. Nel 1960 entra a far parte del Piccolo Teatro di Milano, come assistente di Giorgio Strehler. Collabora con lui a diversi spettacoli come L’Egoista, L’eccezione e la regola, Ricordo di due lunedì. Scrive due drammi, Il sintomo e L’annaspo. Lascia poesie inedite, pagine di diario e appunti per un dramma dal titolo Discorso della pianura. Muore il 25 giugno del 1962 a Gardone Riviera.

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