DOPPIA LETTERA. Comoglio, Ercolani

Marco carissimo,

il tuo Sindrome del ritorno non è una raccolta di frammenti come tu scrivi in apertura del libro. Pensare a questa tua opera in questi termini significa non coglierne il nucleo e la vita che abita ogni parola di questo volume. Sindrome del ritorno è adesione profonda al tuo sé interiore e ogni parola, ogni sguardo, che sia alle nuvole o al sandalo che compare in sogno, vivifica il tuo sé interiore ed è qui, in questo e su questo vivificare, che la sindrome del ritorno si regge e costruisce. Perché “sindrome del ritorno” non è altro che scavare nella propria dimensione esistenziale vivendo in modo sincronico ciò che è e ciò che è stato in modo da poter rinnovare costantemente il proprio essere, la propria coscienza. Si avanza e al contempo ci si riprende per vivificarsi senza sosta, perché “le mani posate sui fogli ancora vuoti” abbiano quello scatto, quella presa di coscienza, che le mette in moto, che le fa diventare quello strumento/destino che disvela l’inganno e anche l’abisso della realtà che ci circonda e che, dopo averli disvelati, ritorna su se stesso, per imbracciare “quel fucile rosso, mezzo disegnato sul muro” e uccidere con questo fucile “le nevrosi, i numeri, gli odori, i rumori, le sciocchezze di sempre”. Ritorna, si è detto, su se stesso. E ritornare su se stesso equivale ad agire. E agire è vivificarsi, poter essere contro o a favore, poter scrivere, potersi concentrare sui dettagli, anche quelli di un sogno. È potersi stupire. E nello stupore, inteso come qualcosa che sconcerta e sbalordisce, tutto si tiene e lega, si fa sintesi e unità.

Ecco, la sintesi e l’unità. E il ritorno/vivificarsi ne è radice radicale. Senza il ritorno la coscienza si sgretola, l’io si sgretola, il mondo si sgretola. Ma, soprattutto, la parola si sgretola. Da qui la necessità della sindrome del ritorno perché la parola e il proprio sé possano eternamente generarsi e rigenerarsi, possano eternamente sperimentare e sperimentarsi nella loro struttura fisica e psichica, nella loro corporeità fatta di nodi e grumi, di sogni emblemi ed enigmi che marcano tempo e spazio, etica ed estetica, in uno slancio che plasma, individualmente, certo, ma poi anche collettivamente e quindi storicamente, gli infiniti conflitti e contraddizioni che abitano e animano il sé e la parola.

Per questo, Marco, non siamo qui di fronte a dei frammenti ma ad un’opera che è tessitura solida e compiuta, e che da dialogo intimo, interiore, si espande per diventare ed essere testimonianza di tutte quelle dinamiche dilanianti o astruse, imprevedibili o folli, che segnano a fior di pelle l’umano sentire, e che segnandolo lo rendono però anche libero di riconoscersi, e di tornare eternamente su se stesso per essere e vivere. Per continuare a vivere.

Con un forte abbraccio,

Silvia

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Silvia carissima,

hai ragione, non ho scritto un libro di frammenti. Ma, per me, dire “frammento” è dire una totalità ridotta all’essenza, è la presenza stessa della poesia. La poesia non guarisce chi si ammala, non trasforma il mondo, non lo guida a magnifiche sorti progressive: è disarmata, nuda, vinta, ma ha sempre qualcosa da dire ancora perché il suo regno è quello dell’indicibile, degli “infiniti conflitti e contraddizioni che abitano e animano il sé e la parola”. La poesia nasce quando il discorso logico sparisce e ci consegna allo stupore di parole che, trattenute per un istante, per un istante trascritte, nostre e mai solo nostre, imprudenti, infelici, rivoltose, amorose, ricche di infinito, di pericolo, di bellezza, sono esattamente quello che abbiamo e quello in cui ci riconosciamo. La poesia è l’esperienza di sentirsi dentro le cose con il rigore di un linguaggio sospeso in una realtà “fatta di nodi e grumi, di sogni emblemi ed enigmi che marcano tempo e spazio, etica ed estetica”. Ma questa sospensione non è arabesco del linguaggio o estasi mistica: è attenzione morale a una lingua che ci permetta di guardare dentro e attorno a noi senza impressionismi consolatori, senza vezzi linguistici, senza paesaggi rassicuranti. Guardare. Dormire. Poi svegliarsi, in stato di allarme e combattere la dittatura dell’ovvio non solo con la poesia in versi ma con il pensiero poetico, essenziale per “continuare a vivere”. Sindrome del ritorno è costruire un’oasi nostra, che sia casa da cui partire e casa in cui tornare. Luogo di “tessitura solida e compiuta”, ma anche luogo dei nostri frammenti, abitati dal demone di un vento che distrugge, incessante, e plasma, ininterrotto. La radice, così penso e sogno, di noi stessi, è il vento, e ogni scrittura è una lezione di vento. Le “mani posate sui fogli ancora vuoti” non smettono mai di scriversi, di scriverci.

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