LA TRUCE VOCE CALDA DEL SOLSTIZIO. Marco Sbrana

Ho visto due angeli al bar

Una morte scosciata decisa con i chiodi

gli epigoni di Cristo stanno amandosi al bar

e muoiono di birra la rovina per schioppo

mentre smetto lumaca tra bava e vestigiali.

Gli occhi impazienti per settembre

dicono neve su cimase

che siano neve ed io cimasa

sulle cimase densa neve.

Non declino l’invito con parole

da buon cane cresciuto a bastonate

vomitare interiora e sterminarmi

come un popolo sporco di formiche

affinché mi disertino quegli occhi

per posarsi su canne mozze gli angeli

ammazzatisi a canne mozze sbronzi.

E scopano un boato

e gli invidio il crepare.

Gli occhi sul giorno

Ostinazione erculea

il dispiegarsi al giorno

quando comincia il giorno.

Non ho più gli occhi belli

ma la testa mozzata di una carpa

mi disapprova in specchi

che mi vengono al mondo la mattina.

Poi sta pure piovendo

che cosa penseranno i bimbi dell’estate?

*

Curatemi il tremore

quante belle ragazze

mi mettono paura.

Moriva di ossa strane

la rampa con il tonfo

ricordava la morte.

Suona la fisarmonica

crepassi non darei

un euro al musicista.

Quando tremo il tremare

di ridire me stesso

nei domani di sempre

prego mio nonno morto

che mi uccida sul serio

senza carne lasciare

come fa di continuo.

Nessuna faccia buffa

proteggiti dagli occhi

ho solo il sonno brutto

devo solo dormire.

*

Mi sogno mentre scopo i culi per le strade.

Le sclere di Anna

io me le ricordo

ritorte moriva

ogni settimana

circa ricordando

del padre il membro dentro.

*

Lei si dichiara nei volti degli altri

sorprende la strada

che faccio arrancando.

L’amaretto del nonno

la crostata un sapore

come i sogni stupendi

che degli occhi lo schiudersi

chiude per sempre agli occhi.

Adagio

Il pomeriggio piano.

Nel fruscio scema il traffico d’auto

retrocede l’abbaglio del sole

così la città, che torna a casa.

Nell’afasia dei vecchi che finiscono

con i soli loro occhi a testimone

il mondo allestisce morti soffuse.

La città si è votata alla campagna

ché lì si smette adagio.

Marta

La motosega trucida gli abeti

di trucioli spirali

che porta, insieme all’afa

la truce voce calda del solstizio.

Uno stupro di raggi

gli spigoli puntuti di Marta

che dorme sempre meno.

Dirige le civette

le dicono Per questo solamente

tu ne vali la pena.

Ma già ai destinatari pensa Marta

e ad uno tra il sudore e la sua insonnia

di cui dire mi ha uccisa, suicidata.

Quei previ pagamenti

di gingilli mai stati

e la via del sudore

non porta che alla doccia.

Cimitero la stanza

di falene spezzate

e cimici riverse.

Ma come fanno i pendolari a viversi

le sponde i fiumi i corpi dentro i treni?

Dove andranno i miei sogni?

Mi fermenta il Nebraska nella testa

Esistesse una casa

per riposare il petto.

L’epigrafe dirà

che Marta giace morta

come orologi mai usati ché rotti

bisnonni in bianco e nero

dirà loro Chi siete?

L’ultimo giorno viva

Marta ha visto la volpe

fuggire dai cinghiali

la volpe l’ha guardata

la volpe ha detto Marta

ma Marta era già via.

Il cadavere di Ettore

Perdevano tintura le panchine

per le tue gambe che nei nervi

già preparavano gli addii

ché queste visite sparute

rimarcano l’assenza, e non so più abbracciarti.

Cambiasti la tintura della pelle

fu bianca per confonderti vincente.

E mentre adesso vai via

ti vorrei dire che mantengo

quella promessa fatta ai frassini

Il vostro splendido gennaio

vi emuleremo a gemme, che inverno caldo, voi

dalla tintura bella, la bella morte, voi.

Tu mi parli attraverso

ma magari non ricordi

eppure, la tua bocca mi diceva.

E, adesso che nessuno mi precede

ti vivo tra i molari e la trachea.

Tale e quale a mio nonno

che la scatola di ottone

chiude alla vista di mia nonna

troppo stanca per spolverare.

Resta enorme la vita, e mi ci perdo

come ieri, ha due facce l’estate

salendomi alla lingua, tu mi dici

che a giugno occorre farsi di sole

foss’anche sopportare

restiamo noi due eroi.

Achille, porta le mie spoglie a casa.

Dato che vivi hai vinto ma sii buono.

Papà mi vuole piangere

non mi ha mai pianto

ma piangerà non visto.

La terza ora è greco

il dizionario, Achille

non ti scordare il Rocci.

*Marco Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole a Milano, dov’è nato. È nella redazione di Zona di disagio e Evidenzialibri. Cura la rubrica settimanale di cinema per Odissea di Angelo Gaccione e collabora con il blog Scritture di Marco Ercolani. Ha scritto un romanzo sui disturbi mentali e una raccolta di poesie di prossima pubblicazione. Cura il blog di cultura e critica cinematografica Carrello a seguire.

Immagini di Francis Bacon

Lascia un commento