DISCORSI. Pietro Zino

– Chi siete?

– Greci.

– “Coloro che esportano la democrazia”, si sente dire da queste parti.

– Non so a cosa ti riferisci.

– Perché siete qui?

– Siamo finiti fuori rotta, gli Dei ci hanno traditi.

– Sei un bugiardo. Perché parli solo tu e gli altri tacciono?

– Loro sono abituati così. Eseguono i miei ordini e basta.

– E adesso che si fa qui dentro tutti insieme? Questa grotta non è attrezzata per ospitare uomini piccoli come voi.

– Abbiamo bisogno di viveri e provviste prima di imbarcarci.

– Cosa mi darete in cambio?

– Il nostro silenzio.

– Spiegati meglio.

– Non riveleremo a nessuno di essere stati su quest’isola.

– E se non vi liberassi?

– Vedo che hai un occhio solo. Quando ci scateniamo siamo come uno sciame di insetti che colpiscono da tutte le parti. È così che annientammo Argo, che di occhi ne aveva cento. Saresti tu, se mai, a non poterti liberare di noi.

– Prendete quello che vi serve e andatevene subito, allora.

– Io e i miei uomini non abbiamo tutta questa fretta di rimetterci in mare; un po’ di riposo ci farebbe bene. E poi con quella mola lì possiamo dare una bella affilata alle spade.

***

Spogliatoio della terna arbitrale nello stadio Santiago Bernabeu di Madrid, dopo la finale di Coppa dei Campioni.

Stasera il tuo è stato un arbitraggio sontuoso, José! Preciso e impeccabile nelle decisioni lo sei da sempre, ma l’eleganza e il modo in cui ti rivolgevi ai giocatori avevano qualcosa di veramente ispirato. Ti ho potuto osservare con attenzione da bordo campo; dopo tutte le partite che abbiamo arbitrato insieme, a questo punto te lo posso confessare: sei il migliore.

Non sono per niente d’accordo. La partita è filata via liscia, non c’è stato bisogno di fare quasi niente. Avrei preferito un gioco spigoloso, a tratti cattivo e poi, se il risultato fosse rimasto in bilico fino alla fine, mi sarei inventato un rigore e un’espulsione contro gli olandesi. Volevo a tutti i costi che perdessero.

Scusa, non capisco.

È esattamente come ho detto. Io e te siamo spagnoli, e i nordici non li sopporto. Come l’Ajax di questa sera; per non parlare poi dei tedeschi. Ha vinto il Milan, una squadra italiana. Loro sono latini, come noi. Quasi quasi quando esco, fermo un tifoso e mi faccio dare la sua sciarpa.

Sei impazzito, per caso?

No, non credo; almeno non ancora. Semplicemente sono stufo di essere arbitro: vale a dire imparziale, ragionevole, di buon senso, per bene. L’arbitro è colui che entra in campo pulito e ben pettinato e, al termine della gara, è più o meno ancora così. L’arbitro migliore è quello che non incide, quello che non si vede. Questo ci viene ripetuto da quando abbiamo iniziato questa professione. Ma io un mestiere ce l’avevo già, ero e sono un manager commerciale. Quando decisi di diventare arbitro lo feci, in qualche modo, per misurare il mio senso del dovere, la mia propensione verso una giusta causa. Ma a partire da adesso non sarà più così. Voglio diventare l’arbitro più scorretto, anzi il più corrotto che sia mai esistito!

Abbassa la voce. Ci sono i membri degli organi federali al completo nello stadio; se qualcuno passa e ti sente siamo rovinati.

“Sulla terra saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genìa è indistruttibile, come la pulce di terra”. Hai mai letto Nietzsche?

Spiacente, ma le mie letture si limitano a Tex. Comunque, io adesso esco di qui e vado a cambiarmi in un’altra stanza; quando sarai ritornato in te avvisami.

Stai tranquillo, non dovrai più sentire questi sproloqui. Ho deciso che quella di stasera è stata la mia ultima partita.

Ecco, questo è lo sproloquio più grosso fra tutti che ho sentito finora. Forse te ne sei scordato, ma l’anno prossimo ci sono i mondiali. Quando saprà che vuoi ritirarti, la nostra federazione ti costringerà a cambiare idea a costo di fare intervenire la guardia civil.

Già, i mondiali… beh, allora sarà il caso di restare un altro annetto.

Vedo che ti è tornata la ragione. Adesso usciamo e andiamo a mangiarci il gazpacho che fanno alla taberna che c’è qui dietro allo stadio. Josè, questa è una giornata memorabile.

Josè Maria Ortis de Mendibil (1926-2015) è stato un arbitro spagnolo. Considerato uno dei più affidabili fischietti internazionali, nel 1969 diresse la finale di Coppa dei Campioni fra Milan e Ajax finita 4 a 1 per i rossoneri.

***

Alle prime luci dell’alba, nei pressi del santuario di Poseidone Ippio a Colono due filosofi si scambiano il saluto.

– Dimmi, ti hanno sempre considerato un filosofo?

– Sì, ma a differenza di quanto i più sono portati a pensare, non mi è mai piaciuto farne un vanto; perlomeno non al cospetto della comunità, ecco.

– Eppure eri famoso già ai tempi in cui tutti ti ricordano al fianco di Socrate.

– Questo non posso negarlo. Però, le volte che riuscivo a fare un salto al mercato di prima mattina per incontrare gli amici, alcuni dei quali non sapevano proprio niente di filosofia, e insieme si rideva e si scherzava… beh, quelli rimangono i ricordi più belli della mia vita.

– E al ritorno a casa ti dedicavi anima e corpo ai tuoi scritti?

– Sì. Però, sai, lo facevo con animo leggero, quasi per divertimento. Oggi il lavoro che dà serenità è considerato disonorevole; i sapientoni che passano le loro giornate barricati all’interno dell’Accademia se ne vergognano.

– Ti confesso che ciò che sto sentendo è sorprendente.

– Arrivo a dirti che scrivere le Sentenze era l’aspetto meno filosofico della mia vita. La parte più filosofica consisteva nel vivere semplicemente come la maggior parte di coloro che incrociamo tutti i giorni nell’Agorà o per le vie di Atene. Allora era così; oggi non più.

– Noialtri filosofi ci sentiamo i membri più degni della città, ma forse soltanto perché abbiamo alle spalle una carriera che ci rende tali o, per dir meglio, crediamo che basti a renderci ciò che siamo.

– Questo che hai appena detto è il punto vero della questione, mio caro amico. Noi, parlando delle nostre opere, siamo abituati a dire: ‘il mio libro, il mio commento, la mia storia’. Siamo convinti che tutto ciò che di buono accade fra queste mura sia merito nostro; esordiamo sempre con la frase “a casa nostra”.Io, invece, sono convinto che i veri protagonisti della nostra città non siamo noi, ma la gente umile.

– Se potessi spiegarti meglio…

– Intendo dire che in tutto ciò che diciamo e scriviamo a comparire, prima di noi stessi con le nostre opinioni e i nostri ragionamenti, sono gli uomini a cui ci rivolgiamo e ai quali, consapevolmente o meno, rendiamo omaggio con i nostri scritti; saggi o sciocchi che siano poco importa. Mi auguro che non accada ma, se le nostre opere fossero tramandate alle generazioni a venire (lasciamo ai sofisti la prerogativa di costruire futuri maestri di cultura e di virtù), spero che i nomi dei personaggi che vi si trovano siano considerati quanto meno al pari dei nostri e di quelli dei luoghi che li hanno ospitati. Se ciò avverrà, credimi, sarà di giovamento a tutti.

***

Il Pittore – Anche stanotte non ho dormito.

Il Critico d’arte – Così hai potuto lavorare. Se ci pensi bene, la tua insonnia cronica è manna dal cielo. Un altro al tuo posto ha necessità di dormire, quindi non ha a disposizione tutto il tempo che hai tu e, di conseguenza, la possibilità di creare a ciclo continuo. I tuoi dipinti li puoi sfornare come il pane che esce dal forno.

Il Pittore – Perché parli così? Se non ti sei ancora reso conto della mia situazione, allora è arrivato il momento di dirtelo. Ho già provato due volte ad ammazzarmi. L’assenza di sonno costringe a uno stato di coscienza insopportabile; è come vegliare sul proprio cadavere. Voi ogni mattina avete a disposizione una nuova possibilità, un nuovo orizzonte, per squallido e meschino che sia. Noi, invece, non stacchiamo mai; usciamo all’alba come una lastra di metallo esce dalla pressa. Siamo prigionieri nel vortice del presente: giorno e notte affrontiamo sempre lo stesso inferno.

Il Critico d’arte – Scusami, a volte non so davvero perché dico certe cose.

Il Pittore – Dipingo da quando ero poco più che un bambino, eppure non ho ancora risolto uno solo dei problemi legati alla mia pittura. Astratto e figurativo, anziché trovare i giusti accordi, si scontrano continuamente. C’è come un muro che li divide, lo stesso che scorgono i miei occhi spalancati nel buio della camera da letto. È però in parte vero ciò che dicevi prima; l’insonnia mi permette di dipingere incessantemente e spero di morire prima che questa fiamma che ho dentro si spenga.

Il Critico d’arte – Se è così, allora continua a lavorare soltanto per te stesso. Io so per esperienza che, appena le operesi vendono, appena si dice di qualcuno che è sulla strada del successo, è finita, non resta più niente. Quelle si svuotano, perdono il loro universo e si allontanano inesorabilmente da chi le ha create, non gli appartengono più. Della fiamma cui tu accenni non si trova neppure la cenere.

Il Pittore – Farò in modo che ciò non mi accada, stanne certo.

Due giorni dopo questo incontro, il 16 marzo 1955 Nicolas de Staël si gettò dal balcone della sua casa di Antibes. Di lui Cioran scrisse che “le opere degli ultimi anni testimoniano una febbre, una apocalissi interiore che esigeva il coronamento della morte”.

***

Recanati, estate 1987. Lo scultore Valeriano Trubbiani ha appena concluso l’allestimento delle sue opere in occasione del centocinquantesimo anniversario della morte di Leopardi.

Povero uccellino dai tratti dolci e dall’anima indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta. Catene opprimenti lo configgono al suolo, lui come questi enormi ruminanti, i cui musi costretti in museruole d’acciaio protendono verso l’alto le loro sofferenze. Legati a corde robuste, esseri alati oscillano sospesi alla torre; i loro occhi cerulei come quelli del poeta trasbordano nel verde metallico del cielo, tratteggiato di nuvole bianche disposte in linee sottili.

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La finestra della mia stanza che affronta i venti … Monotona dolcezza della vita patriarcale. Da mio padre mastro ferraio che riparava zappe, erpici e falci ho imparato un mestiere che poi mi è stato detto essere arte; le prime sculture le realizzai nella sua officina. Avvolto nell’aria impregnata dall’odore del ferro, tra le scintille delle saldatrici elettriche smontavo telai di finestre, che poi combinavo con oggetti raccattati nelle discariche e lungo i fossi di Macerata. “Macchine belliche” hanno chiamato quelle prime sculture, come questi topi e queste rane posti gli uni di fronte alle altre per darsi battaglia; e pazienza se Leopardi non se li è immaginati così. Io la sua testa me la immagino come un vulcano che sta per esplodere.

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Avevo accettato di partire … Mai mi ero piegato a sacrificare alla mostruosa assurda ragione. Nel 1963 partecipai alla Biennale di Parigi dove vidi per la prima volta le opere di Christo, che mi mettevano allegria e Pierre Boulez che ripeteva come un mantra “Schonberg est mort!”. Io tra me dicevo “Che ci faccio in mezzo a questi qui”. Di libri in vita mia ne ho letti pochi, ma quei pochi mi sono rimasti dentro. Quando lessi i Canti Orfici, pensai subito che la vita raminga di Campana fosse simile a quella di un “nevrastenico” come me. Anch’io sono stato sballottato per anni da una clinica psichiatrica ad un’altra e quando ero là dentro e mi capitava di guardare oltre le sbarre di una finestra tutto mi era indifferente, tutto era come il pantano dopo una nevicata e allora, anche se solo per un attimo, provavo il sollievo di chi è sereno e senza brutti pensieri.

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Ora sono qui insieme a Leopardi, dove lui è nato ed è vissuto come dentro una gabbia. L’ho voluto rappresentare così in questa litografia, lo sguardo che indaga da dietro il portone del suo palazzo, l’inferriata ancora sollevata ma pronta ad abbassarsi con un movimento improvviso e pesante, irrevocabile. Sulla ringhiera del balcone è appollaiato un uccello, il cui sguardo sembra ammiccare di sotto; il collo è proteso, le ali stanno per aprirsi. Volerà via, oppure si lancerà verso una preda già rassegnata? La mia mente però non è capace di restare per troppo tempo ferma a pensare, cerca sempre un pretesto che la allontani dai soliti vecchi fantasmi.

***

– Anche oggi Witold mi ha chiesto con insistenza di procurargli del veleno o una pistola.

– E tu che hai fatto?

– Per distrarlo ho provato a raccontargli la storiella che fece scattare nella mente di Cartesio l’idea su cui si basa il discorso del metodo, cioè quando vide il suo gatto rubargli gli occhialini dallo scrittoio.

– Ha sempre amato la filosofia, soprattutto adesso che si trova in questo stato. Dice che è l’unica cosa che abbia il potere di mobilitare lo spirito umano.

– Proprio così. Sono giorni che non parla d’altro.

Rita, la moglie di Gombrowicz – Pensate che ieri ha voluto a tutti i costi tenermi una lezione su Kant, nonostante faticasse terribilmente a respirare. Ogni qualvolta interrompeva il discorso per riprendere fiato, pensavo non sarebbe più riuscito a proseguire. Pur soffrendo in modo indicibile, era molto lucido nel suo argomentare. Ricordo le parole che ha detto alla fine, mentre la bocca gli si storceva per il dolore. “La nostra coscienza si pone dei problemi e alla filosofia tocca tentare di risolverli. È fatale”. Quest’ultima frase l’ha pronunciata come per farla ricadere appositamente su di sé, come fosse una sentenza.

– Adesso dov’è?

La moglie – È da ore che segue la diretta dello sbarco sulla luna. Quando mi sono alzata dalla sedia per venire qui mi ha afferrato per un braccio e, senza distogliere lo sguardo dallo schermo, mi ha passato questo foglietto.

– Vuoi leggercelo? – “Se Copernico ha fermato il Sole e fatto muovere la Terra, adesso comprendiamo che tutte le scoperte e le conquiste non sono solo fatti esteriori ma rivoluzionano completamente la concezione della coscienza, della relazione tra soggetto e oggetto, dunque dell’uomo e dell’universo”.

Il 24 luglio 1969 lo scrittore polacco Witold Gombrowicz moriva nella sua casa di Vence, poche ore dopo il rientro di Apollo 11 dalla missione lunare.

***

Papa Damasio – Ti ho nominato mio segretario perché tu potessi avere libero accesso alle Sacre Scritture, non per vederti oziare nei porticati o perché passassi ore appiccicato a questi antichi rotoli.

Girolamo – Con tutto il rispetto, Santità, sapete bene che avrei preferito continuare a esercitare il mio ufficio sacerdotale. Ora che mi avete affidato la traduzione e il commento anche dell’Antico Testamento, non ho più tempo per nient’altro.

Quello che chiami ‘altro’ sono Omero e Cicerone, vero? Credi che, mentre dormi o sei a spasso nel chiostro, io non legga tutte le pergamene che tieni qui?

So di essere prima di tutto un buon cristiano.

Se ti accosti ai libri mondani rinneghi la vera fede.

Allora dovrete fare in modo che mi allontani da questi che per voi sono ‘libri mondani’.

E come, secondo te?

Risarcendo nella giusta misura il tempo che passo chiuso in questa stanza.

Come osi parlarmi con tanta impudenza!

Non è impudenza la mia, Padre Santo, ma accortezza. L’altra notte ho sognato di essere al cospetto del trono divino e la voce che da lì proveniva mi diceva che, se apprezzo più gli scrittori pagani di quelli cristiani, è anche a causa di colui che non paga abbastanza i miei servigi. Ho ragione di pensare che il castigo del quale sarò fatto oggetto possa coinvolgere anche voi. Non credete che un accordo tra noi due ora qui possa rendere meno impervia la strada per il Paradiso?

Dio ha creato il mondo con tutte le Sue creature, e Suo Figlio ha corretto con il Proprio sangue i nostri errori. Mio buon Girolamo, tu hai avuto il grande privilegio di ascoltare un suggerimento dal Cielo e non è certo mia intenzione ignorarne i sacri dettami. Avrai ciò che meriti in termini di denaro non prima, però, di avermi descritto per bene le otto parti in cui è diviso lo scudo di Achille.

***

Alberto Giacometti è nel suo atelier in Rue Hyppolite-Maindron 46, a Montparnasse, in mezzo a cumuli di oggetti ammassati alla rinfusa fra quei muri scalcinati. Un giorno disse che lì è come la parte interna del suo cranio. Sotto la finestra c’è un grande tavolo con dei flaconi di trementina vuoti, mucchietti di carta, tubetti di colore secchi, pennelli in disuso. Al centro della stanza piedistalli per sculture, con sopra dei lavori in corso d’opera. In un angolo, insieme a diverse figure in ferro, sta ancora sul cavalletto il disegno di una grande testa nera e informe. Il pavimento è cosparso di avanzi di creta e di gesso, ai piedi dei trespoli che reggono le sculture. Tutto testimonia di quel suo continuo, nevrotico gesto del fare e del disfare che già apparteneva agli antichi alchimisti, capaci di separare dal piombo della materia l’oro della figura umana.

È sera. L’oscurità avvolge la stanza rendendo più opache le sculture e più sfuggenti i contorni di quei corpi inanimati quando, all’improvviso, le orecchie dello scultore captano dei suoni. Prima un mormorìo sordo, compatto come uno sciame di api, poi via via le vibrazioni si fanno sempre più articolate fino a riprodurre parole e frasi scandite nel buio fattosi nel frattempo completo.

Una statua – La vita non deve trovare nessuna giustificazione per proseguire il suo corso; non ha bisogno di nessuna conoscenza per redimersi, nemmeno della materia più semplice.

Un’altra statua – Pensare equivale a lanciare dadi. È una folgorazione che ha bisogno di uno stile non sistematico, ma aforistico; come fossero lampi.

Giacometti – Ma che state dicendo, tutto ciò non ha fondamento. E poi non vi ho ancora finite. Questa è la cosa terribile: più si lavora a un’opera, più diventa impossibile terminarla.

Pronunciò quest’ultima frase a voce bassa, quasi nel timore di essere udito. Poi si avvicinò all’interruttore e accese la luce guardandosi intorno con aria stanca. Si accostò al quadro sul cavalletto e riprese a dipingere, ostinato, concentrandosi esclusivamente sulla testa.

– Va male, così male da non esserci più speranza.

– Non è vero. Stai facendo progressi.

Puntando una lampada sulla tela, vide che la testa si era fatta più lunga rispetto a prima ed era attraversata da linee grigie e nere, circondata da un alone di spazio indefinito.

Trascorsero dieci minuti.

– Guarda bene, adesso il naso è a posto. Hai fatto un altro passo avanti.

Sforzandosi di osservare con più attenzione, notava in effetti che la faccia adesso era meno nera, i lineamenti più spiccati e dietro le spalle lo spazio andava acquistando maggiore profondità.

– Che hai? – Mi prude una guancia; sono tutti questi colpetti di pennello che mi stai dando.

Continuò a lavorare per un po’ in silenzio, e più andava avanti più si accorgeva che le orecchie, la bocca e pure gli occhi assumevano sempre più quei contorni distinti che si possono vedere in un ritratto correttamente eseguito.

– Sei matto?

Passò due o tre volte sulla tela lo straccio sporco di creta. Poi girò di colpo le spalle, aprì l’uscio e si diresse verso il caffè senza dimenticare, lungo il tragitto, di dare una sbirciata alle edicole che riportavano le edizioni serali dei quotidiani.

***

INTELLETTO – La realtà va interpretata con lucidità e chiarezza. Le cose devono essere circoscritte e analizzate singolarmente una ad una, classificate e sottoposte a leggi oggettive. Separare, distinguere e analizzare: questo è il mio compito. Di un individuo non importa il suo vissuto, ma ciò che lo rende parte di un sistema universale.

RAGIONE – Le “cose” a cui tu fai riferimento devono essere sottoposte a tutta una serie di approcci che non arrivino direttamente ad un esito preordinato, ma che conducano alla meta attraverso gradi di complessità crescenti e tramite sviluppi che siano concatenati l’uno all’altro: da A a B, da B a C, ecc.

STUDENTE – Voi siete strumenti in mano alla tecnica. Quelli che hanno permesso alla civiltà – non certo quella gran cosa che ci hanno voluto far credere che fosse – di crescere e svilupparsi accumulando sapere scientifico. Produrre e immagazzinare dati al fine di aumentare le conoscenze negli svariati ambiti della scienza: questo è stato il vostro compito dall’alba della civiltà. Così strutturata, la società che avete contribuito a creare non permette l’affermarsi dello spirito.

SPIRITO – Dal momento che sono stato chiamato in causa, mi corre l’obbligo di intervenire in questa discussione. Comunemente mi si contrappone alla materia, all’immanente o, peggio, mi si paragona al misterioso e all’esoterico. Nulla di più distante dalla verità. Già a partire dalla più antica tradizione cristiana sono stato considerato la relazione che sta alla base della divisione. Avere una posizione spirituale nei confronti del mondo significa prima di tutto sentirsi unito all’altro in una forma originaria, che precede le successive diversificazioni in ambito politico, economico e sociale. Una vita vissuta nello spirito vuol dire, in prima istanza, ritrovare l’altro in me stesso e me stesso nell’altro. L’anima va uccisa in quanto ego contrapposto al noi; il chicco di grano deve morire per farsi messe.

AKIRA KUROSAWA – Chiedo il permesso di inserirmi nella vostra dotta conversazione, dal momento che con il mio Rashomon ho tentato di mettere a fuoco la realtà analizzando un fatto alla luce dei diversi punti di vista appartenenti a svariati individui. Confesso, però, di aver capito che niente di ciò che stavo facendo avrebbe avuto senso se non nell’attimo in cui mi resi conto che il neonato che avevo esposto alle intemperie nella scena di apertura strillava per il freddo e forse anche per la fame e che la cosa che andava fatta senza indugi era di metterlo al riparo e riconsegnarlo al più presto nelle braccia di sua madre.

***

Ho sonorizzato il film muto di Yasujiro Ozu Una locanda di Tokyo. Devo dire che mi è piaciuto fin dall’inizio. Sono riuscito a creare i primi accordi immediatamente sulle immagini di quella realtà urbana, fatta di caos e disordine. Si vedono cantieri con grandi ciminiere, fili montati malamente sui tralicci, grosse bobine di legno che servivano per arrotolare i cavi dell’alta tensione e su cui ora stanno seduti a parlare i due figli dell’operaio; poi ancora oggetti di ogni sorta abbandonati tra le erbacce ai bordi di stradine polverose. L’industrializzazione si sta facendo largo, ma in modo disorganizzato, che deve lottare con la natura. Accordarsi con una pellicola così lontana nel tempo e dai nostri modi di comunicare è difficile, e sarà per questo che mi sentivo al posto di Marco Polo quando descriveva le città al cospetto di Kublai Kan: gesti, salti, versi di animali, oggetti stravaganti che tirava fuori dalla sua bisaccia, sempre con la paura di irritare l’imperatore. Che era la stessa mia di fallire. Dove credo di essermela cavata è verso la fine, quando l’uomo incontra la madre della bambina nella locanda malfamata, dove lei lavora per poter far fronte alle spese necessarie per curare la figlia malata. Ho scandito con un ritmo sincopato le molte tazzine di sakè che quello buttava giù una dopo l’altra fino ad accasciarsi, mentre la donna scoppiava in un pianto irrefrenabile. L’inferno non è qualcosa che verrà, ma è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Non possiamo cancellarlo, ma possiamo almeno interromperlo, come fa il vagabondo Kihachi che decide di rubare del denaro per farlo avere alla madre, consegnandosi poi alla polizia. “Così è stata salvata un’anima”, recita la scritta di chiusura e io non sarei stato in grado di comporre neppure un accordo in più.

Massimo Pupillo, bassista e compositore

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