ENRICO MARIA’, “NUZIALE”. Marco Sbrana

Enrico Marià

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Enrico Marià e Nuziale – Il canto che fa le veci dei cani latranti

Quando la carne ferita e la ferita psiche non hanno bisogno di dirsi con chiarezza, ma parlano, pulsano nei significanti musicali del poetare, siamo di fronte a un’opera creativa all’altezza dei grandi. Nel tessuto verbale dei versi di Enrico Marià non ci sarebbe bisogno di ravvisare significati, com’è il significante tanto saturo foneticamente da bastare al lettore per accusare la fitta al cuore, la rottura della scapola, l’incrinamento della vertebra. È nel verbo, nel significante, prima ancora che nell’immagine evocata, che Enrico Marià parla di noi. Traduce in versi i nostri movimenti convulsi durante le notti da pitbull, quando addormirsi è fatica ma stare svegli è dare corda alle ossessioni, alla morte che ci vive dentro, insondabile dimensione, non clinicizzabile, solo esistente come patina membranosa ad avvolgerci le iridi, col mondo deformato dalla morte che ci portiamo appresso, dai plurimi cadaveri che ci trasciniamo in quello che non è certo incedere, che certo non è cammino, ma è lo strisciare di certe lumache che si lasciano dietro parti di loro, parti di bava, morendo lentamente, smettendo. Tutti traduce Marià, se stesso compreso.

Nuziale, edito per La nave di Teseo (2025) si apre con l’esergo di Cortàzar. È Marià che parla attraverso il grande poeta e romanziere. È Marià che prega le maschere di cera degli dei affinché il volto ipocrita che mostriamo al mondo ci venga estirpato, finché non saremo tanto nudi da non poter fare altro che gridare il nostro vero nome, e non il destino che i padri ci hanno scritto sulla nuca.

È qui che vengo a perdonarmi

dove i caprioli si incastrano

nelle reti di protezione

subendo per liberarsi

l’amputazione delle zampe.

Le poesie di Marià, così come ne La direzione del sole, non hanno titolo. Forse, immagino, perché il corpus poetico raccolto è un unico guaire, un unico essere resuscitati, suddiviso in frangenti che appartengono allo stesso disegno.

Notiamo l’attenzione alla metrica, l’alternanza tra perfetti novenari e ottonari, con gli accenti sulla quarta oltre che gli ictus su ottava e settima.

Laddove per liberarsi dalle catene serve amputarsi le gambe, il poeta viene a perdonarsi. Ché c’è qualcosa da espiare, e quel qualcosa lo espieremo muovendo nei colori del mondo trascinandoci i nostri osceni moncherini. Lì ci perdoniamo, quando il sacrificio di un arto deputato al cammino il cammino permette. Il tema del dolore psichico, dell’espiazione, della mano che trae dal terreno un cadavere che nel terreno era infossato. Perché quel cadavere ha ancora da vivere, e deve vivere. C’è l’obbligo morale di esserci, che è anche l’obbligo estetico di chi è bello e – Nietzsche – tragico.

E poi c’è l’infanzia che noi, “figli dei cani”, non abbiamo mai avuto. Quel nugolo di anni che si muovono come moscerini vorticanti idioti attorno al neon. Inintelligibili nella loro forma individuale, i moscerini della nostra infanzia, pure, nell’insieme, disegnano il trauma di chi è stato abusato, di chi non è stato perdonato, dei bimbi a cui è stata tolta la voce e che, in seguito, per parlare, come Marià e tanti altri nostri consimili, hanno dovuto ad hoc costruirsi un linguaggio. Come Joyce: il padre alcolista non gli ha dato parola; Joyce, la parola, l’ha edificata. Così Marià. Che scrive:

Premio ultimo

donami indietro

trasparente a mia madre

perché per intossicazione

del corpo violato

nessuno sguardo può

l’amare come i bambini

che so amati, solo,

da certe angolazioni.

Più facile sarebbe stato, è Marià, se nostro padre ci avesse dato più baci. Ci avesse voluto meno identici a lui. Non ci avesse apposto la museruola affinché non potessimo mordere, laddove mordere era l’unica urgenza di noi, di noi lettori di Marià che viviamo come Marià, che da Marià ci sentiamo tradotti, di noi – di nuovo – figli dei cani.

Marià è uno Zarathustra che arranca. Che non scende dalla montagna, perché la discesa è faticosa, e le gambe, il profeta lo sa, non reggerebbero, il passo sarebbe un franare in detriti di ossa, perché di ossa e carne e sperma e sangue si parla sempre quando si ha a che fare con Marià. Fedele, in questo e in altro, a Cioran, che diceva: Tutto quel che esula da sangue e sperma è un pretesto. La poesia di Marià esautora l’orpello, abolisce il decorativismo, per giungere il più vicino possibile alla radice del male, che pure è da per sempre differita, perché iterata e scomposta nel tempo. Ma, profeticamente, Marià ci dice che dei cadaveri che si trascina avrà lo stesso sangue, il sangue intonato.

Così Marià:

Stimmate dei nomi

abiterò corpo lupo

di tutti i miei morti

il sangue intonato.

E, poi, le prime allusioni a quando fummo (perché il plurale è d’obbligo quando una voce così dolente riesce a raccogliere in sé il latrato di tutti noialtri cani) violati. Allusione leggera, che a fortiori risulta drammaticamente epifanica:

Con gli stracci e la candeggina

raccogliere il vomito dei cani

che mai, in ginocchio, mi era toccato

l’avere una cosa così bella d’amore.

Perché, dopo l’orrore inflitto, immeritato, che ci ha reso colpevoli, che ci ha ucciso, che ci ha resuscitato perché lo dicessimo, e lo dicessimo non solo per noi ma per tutti, il vomito dei cani è comunità, è una struttura sanitaria dove i figli dei cani non possono, non vogliono, non devono giudicarsi a vicenda, ma solo pulirsi con la candeggina quando uno di loro vomita il male.

E lo sa chi ha vissuto la vita guardando il cielo da finestre sbarrate. Peraltro, sempre arrugginite. Arrugginite sbarre a sezionare il cielo, a frammentarlo.

E poi Marià decide che l’allusione non è più bastevole.

La poesia si commenta da sé, e ho timore a parlarne.

Anche gli abusi

sono una relazione

e perché di mio padre

non posso rimanere incinta

è la felicità di morire

bellissima malattia

la morte privilegiata.

E poi:

Anti-luce, le linee del metadone

schiacciano sotto i denti le croste.

E sì, lo sapevo di non doverti ingoiare,

solo eri tanto buono e così mamma

non doveva le lenzuola e il pulire.

Nuziale, ad occhio attento, gode di struttura narrativa che, dopo la morte mostrata e il resuscitare, invita a un esserci che, nella sua vanità, può essere esteticamente bellissimo, e giustificante, se è vero ciò che diceva Nietzsche ne La nascita della tragedia, cioè che, intesi come fenomeni estetici, la vita e il mondo sono eternamente giustificati. L’esserci che Marià rivendica, la vita ammazzata che rivendica, la vita da non morto che Marià rivendica, si avverte tutta nella poesia che segue:

Nel disabitato qui, avere

il coraggio delle puttane

per morire l’anagrafe, il

disprezzo delle persone

che ci dovevano amare.

Ironico, sfogliando l’ultima pagina ho notato che al suo interno c’era la nuova terapia farmacologica decisa quando, in pronto soccorso, leggevo Nuziale. Ed era così bello che, in realtà, fosse Nuziale a leggere me. Delle volte ho l’impressione di non essere mai nato, ma che da morto mi abbiano tratto dalla fossa, costringendomi a un vagare zombi. Ma quando leggo, quando leggiamo, noialtri che dei cani siamo figli e fratelli, Enrico Marià, il più grande poeta che abbiamo, parla di noi, ci traduce, ci evita, come diceva Carmelo Bene, tutte le spiegazioni che ci ammazzano.

Potessi parlare tramite i versi di Marià, lo farei; di me ha già detto tutto.

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Marco Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole a Milano, dov’è nato. È nella redazione di Zona di disagio e Evidenzialibri. Cura la rubrica settimanale di cinema per Odissea di Angelo Gaccione e collabora con il blog Scritture di Marco Ercolani. Ha scritto un romanzo sui disturbi mentali, inedito, e una raccolta di poesie di prossima pubblicazione. Cura il blog di cultura e critica cinematografica Carrello a seguire.

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