SI PUÒ FARE

Hippolyte Bayard

SI PUÒ FARE. Dove sono riportate alcune riflessioni di Hippolyte Bayard, il vero inventore della fotografia. Parigi, 1840.

Ho molto amato i disegni di Alexander Cozens, un pittore inglese nato a san Pietroburgo. Quando guardo un suo paesaggio, in qualche museo, mi sembra di vedere una montagna ma troppo da vicino. Distinguo quelli che appaiono crepacci, dirupi, forre, versanti. Ma è tutto un nero opaco, un velo scuro. Sembrano segni tracciati in stato di sonnambulismo. Li osservo con meraviglia. In fondo è quello che vorrei fotografare: un paesaggio, un volto, un punto, che non esibisca la sua forma familiare, ma sia una rete intricata e indecifrabile come lo è l’anima durante il sonno, quando le vertigini si intrecciano alla realtà e ci si sveglia con il desiderio di mettere in luce quanto sfugge alla mente. Mettendo in luce, inevitabilmente si sfuocano i con torni, le linee, i colori, e alla fine resta solo l’inchiostro, la grande macchia scura, matrice di altre piccole macchie scure, e si aspetta che torni la nuova notte, per tornare a sognare. L’uomo vive con i suoi incubi come unico orizzonte. Ma poi, alla fine, questo orizzonte unico è solo un prisma che rifrange mille luci diverse.

Ho inventato la fotografia per trovare questa rifrazione. Il mio autoritratto è finito: Autoritratto come annegato. Si scorge la mia sagoma, sono addormentato su una sedia, immerso in una nebbia biancastra, le mani scure come putrefatte, il grande cappello appoggiato al mio fianco. Avrei voluto fotografarmi magrissimo, con un teschio fra le mani, ma poi ho cambiato idea e ho deciso di affondare il mio corpo dentro questa evanescenza. Come se fossi un bagnante sdraiato tranquillo su una sedia, ma sotto strati e strati d’acqua. Sommerso. Sotterrato dall’acqua. Eroso. Perché mi sono ritratto così? Daguerre grida al mondo che è lui il vero inventore della fotografia e io un volgare impostore. Ho voluto fargli uno scherzo: dimostrargli che, per la delusione sofferta, mi sono annegato, e fotografarmi. Ma in realtà io non scherzo mai. Io voglio continuare il mistero di Alexander Cozens: rappresentare l’invisibile. L’invisibile è necessario, il visibile volgare. Questo bianco del corpo, questo nero delle mani, questa narcotica spettralità – la fotografia – non è solo una fantasia della mente. Io l’ho realizzata fisicamente, con carta e cloruro d’argento. Si può fare.

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