Ora la vedi, Taala; un secondo dopo è come se non esistesse o non fosse mai esistita. Credi di scoprirne la forma, di percepirne il calore, ma è come un animale in fuga: è già scappato oltre, e sul terreno restano solo le tracce. Non sopporta definizioni, lei. E soprattutto, appena cominci a descriverla, le parole diventano troppe o troppo poche, le frantumi, le mastichi, ti si sbriciolano in bocca. Alla fine non restano che poche sillabe da pronunciare e la città è ancora tutta là – favolosa e irraggiungibile. Qualcosa di regale e di straordinario, con strade lastricate d’oro e palazzi di cristallo. Ma chissà cosa è accaduto. Siete gentili a ospitarci. Ci rimboccate le coperte, ci sfamate, ci dissetate. Ma cosa è successo? Non ricordo.
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Qualcuno che volesse fuggire da qui? Non ne so niente. E poi, perché avrebbe dovuto fuggire? Chi lo facesse non potrebbe raccontare nulla di strano, perché non c’è proprio niente da dire.
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Le cronache non lo riportano e le leggende non lo celebrano. La storia lo ha certamente dimenticato. Ma Taala è stata, per due millenni, la capitale del deserto di Khasch. Dominava l’altopiano, a tremila metri di altezza, con vie sospese tra palazzi sottili, case di cristallo, piazze circolari, giardini pensili, templi di rubini, miniere d’argento. Poi venne coperta dalla sabbia e nessuno parlò più di lei. Adesso Taala è una città nuova. Cinta da un cerchio di fortificazioni estese per decine di chilometri, ha novantanove strade, centosedici scalinate e quattordici piazze. È tutta fatta di acciaio e di vetro. Lunghi cavi ruotano in tutta la città seguendo un disegno elicoidale e le case gettano le fondamenta su quei cavi. Potrei paragonarli a delle lance o a delle onde che d’improvviso si metteranno a vibrare, coinvolgendo l’intera città in una danza sismica che tende le case e curva le strade.
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Qui non sono mai scoppiate rivolte e non si ricordano casi di infanticidio o di stupro. Le quarantasei leggi che regolano la democrazia della città non sono mai state violate. Chi ha avuto l’ardire di farlo, è stato allontanato da Taala e ora sicuramente farà razzie nel deserto, trasformato in uno dei tanti predoni che lanciano invettive contro la città perfetta. E allora perché devo essere chiuso in una corsia d’ospedale? Per quale colpa? Nessuna delle tue domande ha un senso oggettivo, né i vostri esami si discostano da una rozza verifica empirica. Non eravamo disidratati o moribondi quando siamo stati ritrovati nel deserto: questo ti sconcerta. Ma le risposte razionali sono così evidenti: buona tolleranza al clima, sistema immunitario funzionante, adattabilità. Cosa ne sai del nostro patrimonio biologico? Nulla. La nostra storia e la nostra mappa genetica sono un mistero per voi, come per tutte le razze del pianeta. Un esempio fra tutti: parliamo correntemente la vostra lingua. Ma lo faremmo anche se ne parlaste un’altra. Noi riusciamo a imparare l’alfabeto e le regole di ogni nuova lingua in un tempo che, per le vostre capacità di apprendimento, è semplicemente incredibile. Ma siamo noi che dovremmo stupirci della vostra ignoranza, e non voi della nostra intelligenza.
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Devi classificarmi, lo so. E il mio silenzio ti disturba. Ma parlare, nelle circostanze in cui mi trovo, è umiliante, perché non sono libero. Sono oggetto di esperimenti, caso clinico, cavia. Non ho nulla contro di te: tu cerchi di fare il tuo lavoro. Ma ascòltami. Io vivevo in una città incantata. Era una vera e propria oasi. Ricordo la pace di certi pomeriggi, l’aria mite e il cielo azzurro, la finestra spalancata sulle colline profumate. E quel senso di salute, di benessere, di pazienza. Mi sembrava di essere al centro della mia vita. Tutto risuonava in modo esatto. E le cose erano belle, colorate. Non c’era niente di più sereno che abitare a Taala. La curva delle strade, la geometria delle case, l’assenza di vento: era splendido. Non capisco come qualcuno possa ricordare cose diverse. Avrei altri mille esempi: ragazzi felici, scuole spaziose, parchi, giostre, feste, concerti. Mi sembra persino strano parlarne: Taala è stata l’esperienza decisiva della mia vita. Ed essere qui, ora, a doverla difendere dall’interpretazione assurda di alcuni estranei, a cercare addirittura di persuaderli che Taala era una vera città e non un mio delirio personale, mi sembra penoso. Dovremmo entrambi prenderci un aperitivo nel centro di Taala, sotto il grande orologio di vetro, e chiacchierare di cose piacevoli. Forse mi dirai: «Ma io non ho visto nessuna città». Allora io ti risponderò: «Perché, quando non ti vedi dormire, significa che non esisti?».
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Ricordo solo che, dove abitavo io, c’era una bellissima distesa di sabbia, un grande lago azzurro e un cielo nitido, accecante. I leopardi guardavano fissi le gazzelle. Ma quelle non fuggivano e quelli non le inseguivano. Si spiavano con attenzione. Le praterie erano colme solo d’erba. Il silenzio non era mai opprimente. E, quando il sole tramontava, la sabbia mandava un profumo piacevole, d’acqua appena sgorgata, che aveva il potere di ipnotizzarci. Qualche viaggiatore – lo rammento bene – per esprimere inesprimibili sensazioni bisbigliava: «Taala».
Oggi bisbiglio i nomi dei miei farmaci. Felison. Flunox. Sonar. Nottem. È l’unica felicità che mi rimane. Sono stato strappato dal luogo che amo. Ripetendo questi nomi e ingoiando le pastiglie, talvolta affondo nel sonno. Taala, allora, ritorna intatta – un paradiso. Un cerchio perfetto. Ricordo quello che amavo: le fontane zampillanti, il soffitto di rubini, le pareti di cristallo. E noi che, giorno dopo giorno, diventavamo più belli e leggeri, vivendo giorno dopo giorno con la stessa, rasserenante dolcezza. Anche un incidente mortale sofferto da un essere amato ci sembrava solo uno dei modi in cui si esprimeva il destino. Non ci sentivamo infelici. Provavamo un sentimento profondo e definitivo: che ogni rabbia fosse futile, ogni rivolta inutile. Ci stavamo abituando alla bellezza della rassegnazione.
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Per farti capire meglio la mappa della città, immagina delle strade mobili e curve come nastri. I nastri si infilano tra pareti d’acciaio, e sono percorsi da macchine affusolate, simili ad elicotteri. Al di sopra dei nastri-strade palloni aerostatici galleggiano, sostenendo schermi piccoli e grandi, dove scorrono immagini e notizie che arrivano da tutti i paesi, trasmesse in tutte le lingue ad altezze diverse della città. I palloni, sorretti da fili invisibili, se ne stanno sospesi tra i tetti dei grattacieli e qualche volta, sospinti dal vento, arrivano a incunearsi nelle strade più piccole. Può capitare che, uscendo di strada, tu veda, davanti agli occhi, un volto enorme e sorridente, una donna che nuota succhiando il gelato, un orso polare, una calza trasparente, delle bolle di champagne, un bicchiere lanciato nel vuoto. Intanto, alle pareti dei palazzi, salgono e scendono ascensori mobili formando delle scie elicoidali. Dal basso della città e da tutti gli altri quartieri, vengono spesso, a grandi folate, nuvole di fumo. Il sole resta nel cielo molto a lungo, e le giornate, sotto un cielo caliginoso, sono interminabili. Talvolta, camminando, mi imbattevo in grandi strutture di metallo, come lamine piatte, solcate da ascensori che ricordano nidi di insetti. La sensazione che quelle strutture, fitte di uffici, negozi, gallerie, supermarket, fossero sottilissime, era impressionante: e la percezione di uno spessore quasi inesistente si associava alla certezza che fossero collegate a cavi o cinghie invisibili. Se cavi e cinghie avessero preso a oscillare, mossi dal vento, non sarebbe stato sorprendente vedere quelle strutture muoversi, galleggiare, oscillare, e approdare in altri luoghi, come grandi cespugli.
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Talvolta, a Taala, si fantasticava di un possibile assedio, solo per provare a noi stessi che neppure la fine della città avrebbe potuto renderci infelici. Ma perché ci sia un assedio ci vogliono luoghi da assediare, città chiuse da mura, porte da varcare, ponti da minare. Taala non è mai stata niente di tutto questo. Chi dice che fosse una città minacciata o un deserto di sabbia o un inferno metropolitano, è un bugiardo. Magari parlerà di apparizioni e di mostri. Ma mostri io non ne ho mai visti. C’erano scale, botole, corridoi, e io, diversi anni fa, vivevo in una stanza buia. Qualcuno ti riferirà – se non l’ha già fatto – di uomini-albero, di bambini a due teste o a tre mani. Ma si tratta di fantasie perverse e trascurabili, di assurde menzogne. Ciò che sentivo, dietro tutte le pareti, in tutti gli angoli della casa, era la sensazione che brulicasse sempre qualcosa di nuovo e di bello, portato da una brezza profumata. Un uomo alto, che passeggiava spesso nei giardini di Taala, mi salutava, ogni giorno, con un cenno solidale e affettuoso.
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Perché non posso tornare laggiù? Cosa mi trattiene qui? Per quanto tempo dovrò essere giudicato un folle che racconta le sue visioni? Non sono io il responsabile, se i vostri occhi non hanno saputo vedere. Bastava spingere lo sguardo appena più in là e l’avreste vista. La perfetta Taala, abitata da funzionari onesti e cittadini democratici. Un luogo ordinato, tranquillo, con leggi giuste e costumi civili. Almeno, prima che arrivaste voi. Prima che noi pensassimo il vostro arrivo. Certo, in tutte le cronache si riporterà la verità ufficiale: voi ci avete salvati. E magari, in qualche archivio telematico, conserverete la memoria dei sopravvissuti, il catalogo di tutti i nomi e il peso di tutti i corpi. Ma i selvaggi siete voi. Noi non avevamo bisogno del vostro intervento. Eravamo felici tra quelle mura di vetro. Camminavamo per vie regolari e ci era noto il senso della pietà. Avremmo scoperto facilmente le complessità della matematica, il disordine degli astri, la potenza dei numeri, le strategie della scrittura. Avremmo vissuto la pienezza della follia e la gioia dei rituali, e la morte ci avrebbe stupiti quanto la vita. Ma non sapremo mai quello che avremmo vissuto. Con sciocca intempestività ci avete interrotti nel pieno delle forze, nel mezzo del nostro lavoro. Siete arrivati. Ora prendiamo pastiglie, soffriamo d’insonnia, sembriamo pazzi, come tutti gli sconfitti.
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Sì, abbiamo rischiato di perdere la ragione, quando qualcuno ha cominciato a dubitare. Da allora abbiamo preso l’abitudine di sognare cose malinconiche – la fine della città, la scomparsa dei suoi abitanti, il deserto. Ed è quello che i soldati hanno visto, catturandoci: questo triste sogno. Ma niente di quello che hanno visto è vero. Non si sono accorti che, a pochi metri dai loro occhi, cristallina e simmetrica, regnava la nostra vera città.
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Taala era sempre troppo bella. Le case più alte, col soffiare del vento, vibravano con suoni acuti, come violini; quelle più basse con suoni gravi, come voci di contralto. Le porte continuavano ad aprirsi sui corridoi e le finestre a spalancarsi sui terrazzi. Niente era delimitato, tutto si specchiava in tutto. Se guardavi l’angolo di un muro, ecco che smetteva di essere un angolo ma diventava un posto pieno d’aria, proteso verso l’orizzonte. Le cose più chiuse sembravano dilagare ovunque, disperdersi come musica. Le finestre si polverizzavano. I soffitti non c’erano più. Una leggerezza straordinaria. Ma qualcuno ci accusava di parlare con troppa disinvoltura di quella leggerezza. Le aperture di Taala erano le crepe delle bombe – dicevano – e sarebbe giunta l’ora che noi ce ne accorgessimo, finalmente, e ne denunciassimo l’orrore. Ma che colpa avevamo, noi, se non provavamo quel sentimento di orrore? Eravamo felici, e basta. Ma qualcuno volle esserlo più degli altri: cominciò a parlare della sua gioia, a descriverla nei minimi dettagli. Qualcosa di impercettibile e di sgradevole, che non ci aspettavamo. Tutte quelle inappuntabili, scrupolose, noiosissime descrizioni ci fecero provare un senso di sazietà. Alla fine, furono in molti che lasciarono Taala e il suo progetto. E ricordarono solo il deserto, le strade strette, la nebbia, la sabbia. E la sensazione che il vento potesse tornare.
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Avevamo costruito un mondo di numeri e i numeri erano precisi e le architetture che corrispondevano a quei numeri perfette: Taala era il risultato di quelle formule. Finché un giorno, per chissà quale caso del destino, una corda da bucato si ruppe, cadde un lenzuolo, un uomo si sentì soffocare, agitò forsennatamente le braccia, scoppiando in lacrime. Da allora, la certezza che sareste venuti fu inevitabile. Era solo una questione di giorni. Qualcuno disse: «È il caso. Tutto, in qualche modo, deve finire». Ma lo disse senza serenità, con una certa rabbia silenziosa. Attaccandoci e depredandoci, avete visto tutti come vivevamo, come erano soffici le nostre strade. Tappeti ovunque. Taala era questo. Una città-tappeto, fatta di lana e di seta. Non saprei dire quando è nata questa usanza: ma sicuramente qui, davanti alle porte, alle case, ai negozi, ci sono solo morbidi e splendidi tappeti che smorzano il suono dei passi. Altri tappeti sono dentro le case. Altri sono appesi alle finestre. Rossi, blu, oppure bianchi. Il dettaglio, in fondo, vi ha agevolato: siete potuti irrompere in silenzio, senza che ci accorgessimo di nulla. Ci avete preso di sorpresa, nel silenzio del sonno. Avete avuto fortuna: se aveste atteso qualche giorno, magari, invece di queste case ci sarebbe stato un obitorio, un mercato, oppure un magazzino di utensili. Siete stati tempestivi nell’agire, ma io non lo sarò nel risponderti.
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È inutile nasconderlo. Proprio ora, poi, che non c’è più niente da fare. Avevamo un progetto, ma mi è impossibile descriverlo nei dettagli: sono legato a un patto che ho giurato di non tradire mai. So che i lavori si stavano svolgendo nel migliore dei modi. Sotto i miei occhi nascevano architetture di acciaio e di vetro, stazioni e aeroporti, parchi, cinema, grattacieli. Qualcosa di bello e di utile. Uffici a orario continuato. Musei aperti. Feste. Concerti. E ora sono qui, come un alienato, a rispondere al tuo povero tentativo di classificare quello che è stato il mio universo. Se proprio vuoi tentare di capirlo, immagina un numero infinito di fotografie, capaci di collezionare in modo plausibile l’intera rappresentazione di un mondo. Immagina un film interminabile.
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Non comprendo le tue domande. Soprattutto non capisco cosa vorresti capire. Facevo una passeggiata nel deserto, oltre Taala, prima di tornare nel mio palazzo, quando sono stato arrestato, insieme ad altre persone. E adesso sono ricoverato. Sono un paziente in osservazione, come dite voi. La realtà è che sono chiuso in una corsia psichiatrica. E questo significa una cosa sola: tu pensi che Taala sia un delirio, o al massimo un miraggio. Al contrario, Taala è una città moderna, una metropoli dove si studia come guarire i tumori e le malattie, come conservare intatta la vita. E, al centro della città, una splendida fontana continua a zampillare. È bella e geometrica, Taala. Vuoi altri aggettivi? Armonica, mite, rilassante, luminosa. È un luogo che ricordo con gioia. I tuoi interrogatori sulla nostra razza e sui nostri pensieri sono solo ridicoli. Cosa pretendi da me? Cosa vuoi che dica, per obbedirti, perché tu mi lasci libero?
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Era sempre circondata dal deserto. Ma quanto era difficile vederlo! C’erano giorni in cui sembrava che ci fossero solo strade, poi le strade sparivano, e allora affiorava. Dapprima un biancore lontano, uno scintillìo indistinto. Poi vedevo piante aguzze nascere dal bordo dei marciapiedi, come rampicanti. Uccelli dal becco a rostro trivellavano la sabbia per trovare acqua. Altri si caricavano sulle ali la sabbia del deserto e poi si alzavano in volo. Ricordo insetti piccolissimi e luminosi, che guizzavano sulle rocce. Ricordo, sulla pietra dei muri, grandi pesci fossili.
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Betulle. Erano tutte betulle. Una macchia bianchissima. Qualcosa di splendido, di felice, di magico. E perché ora mi trovo qui? Dove sono finiti quegli alberi? Dove sono andate le meravigliose betulle che circondavano la città come una siepe bianca?
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Al centro c’era una chiesa, molto grande, con un campanile bianco. Dalla chiesa si irradiavano novantanove strade, curve come i raggi di una stella. I palazzi, interamente coperti di specchi, scintillavano. Le strade si moltiplicavano, ma sempre in perfetta armonia. I palazzi erano costruiti in una lega di metallo che sembrava l’intreccio di una rete: quella rete aveva proprietà riflettenti, e ogni palazzo duplicava il precedente e il successivo attraverso piccole sfaccettature di cristallo, che emanavano aloni dorati. Tubi al neon sospesi sulle terrazze proiettavano luci verdi, con immagini di foreste. Cupole di vetro smerigliato ricoprivano vere e proprie gallerie. In ogni galleria c’erano gioiellerie, studi legali e finanziari, con schermi accesi in ogni punto della volta, a riferire le oscillazioni del denaro e le mutazioni del clima. In ogni galleria c’era un giardino, con diversi bambini che giocavano. Ascensori e scale mobili collegavano un ufficio all’altro. Non c’erano più porte ma rettangoli trasparenti, che si aprivano o si chiudevano, rivelando scrivanie, telefoni, segretarie, impiegati. I rumori erano brusii appena percettibili. Ci si sentiva liberi di passeggiare. Talvolta si usciva dai palazzi e si vedeva, oltre il giro delle mura. qualcosa. Poteva essere una lamina che scintillava: una striscia azzurra, sfavillante, di un bagliore bianchissimo, che sembrava metallo fuso. Talvolta pensavo fosse solo un riflesso. Comunque, non c’erano differenze fra riflesso e realtà. A Taala, se andavi d’accordo con un amico e camminavi con lui, strada per strada, tutto era giusto e bello: la città esisteva solo per te, armoniosa, simultanea, felice.
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Ricordo un uomo. Vagava spesso per le vie della città: era un balordo, un mentecatto. Si diceva che, negli anni della giovinezza, avesse abitato in Europa. Che si fosse drogato e avesse fatto saltare banche ed aerei. Un terrorista intelligente, un perfido assassino. Ma non c’erano prove contro di lui. A Taala camminava avanti e indietro per le strade, in pieno giorno, con uno sguardo dolente e sconsolato, colmo di disprezzo. Quegli occhi erano atroci: disturbavano l’equilibrio della città. Perché non aggrediva nessuno? Perché non rubava? Lo avrei denunciato, la polizia sarebbe arrivata, lo avrebbero arrestato e portato via, quello sciocco balordo! Che sollievo!
*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Taala, Greco & Greco edizioni, Milano 2002.

Immagine di Pietro Casarini
