
…Devo, con riluttanza, finire la lettera. Guardo dai vetri e vedo che la neve, pur continuando a cadere, ha perso il ritmo delle raffiche. Resta il blu quasi nero di tante dune ghiacciate; la sconcertante certezza, ora che la neve non infuria più con il suo muto e febbrile turbinìo, che partire sarà difficile come per un corpo vivo muoversi nella pietra del muro. Comincio a capire che viaggiare ed essere fermo sono la musica e la vibrazione di un un unico accordo…
Esiste, per me, uno spazio dove tornare? Se raggiungessi la casa dove tu mi aspetti da anni, non farei morire, con la presenza del mio corpo diverso e invecchiato, il tuo desiderio di me, la tua ansia di riabbracciami? A un’ansia così forte risponderebbe questa cosa stanca che è il mio io. Forse dovrò fuggire di nuovo. Verrò da te e lascerò nell’erba del tuo giardino le tracce dei miei passi – vedendole, capirai. La mia assenza ti svelerà la mia paura. Io temo che, al nostro amoroso riabbracciarci, capiti quello che accade a tutte le cose mortali: una misera fine, un mediocre dissolversi, un disinganno. Io la rifiuto, questa fine. Continuiamo ad essere colui che torna e colei che attende – non interrompiamo la lunga finzione che ci separa…
Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Col favore delle tenebre, Coliseum, Milano 1987.
