Marco Ercolani, Sindrome del ritorno, Il Convivio editore, Tivoli 2025.

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Wakefield è il racconto di Nathaniel Hawthorne in cui l’omonimo protagonista si assenta per venti anni dalla moglie (come Ulisse da Penelope: 10 anni di guerra + 10 di viaggi) e un bel giorno, senza nessun preavviso, ritorna. Wakefield non fugge lontano, però, non viaggia, non affronta battaglie o incantesimi, non incontra ninfe, maghe, dee, ciclopi, né si dà alla bella vita. Trova alloggio nella via adiacente alla sua casa e da lì spia la moglie e gli effetti della propria assenza, in una condizione di esilio volontario.
Quando la sua morte è data per certa e la moglie è rassegnata alla vedovanza, una sera, rientra tranquillo dal suo ventennale esilio, come dopo l’assenza di un giorno, e ritorna a essere un marito affettuoso fino alla fine dei suoi giorni. Del resto, non ha pretendenti da sterminare.
Storia vera, tratta dai giornali, Hawthorne non spiega come, di che cosa viva il Nostro Eroe. La sua analisi si sofferma su alcune caratteristiche morali: Wakefield non è un eccentrico, è un uomo pigro, abitudinario. All’inizio vuole solo assentarsi per qualche giorno, massimo una settimana, per soddisfare l’innocua curiosità di vedere che cosa succede. È interessato, in particolare, a osservare la reazione di sua moglie. Poi, proprio per la sua pigrizia e abitudinarietà, rimanda. Settimana si aggiunge a settimana. Le settimane diventano mesi, anni. Gli anni si accumulano uguali.
Si traveste, assiste al suo funerale, vede se stesso morto come Mattia Pascal. A differenza di Mattia Pascal di Pirandello, però, non si allontana, non cerca di cambiar vita.Resta dov’è sempre stato, lì accanto. Osserva il cambiamento fisico di sua moglie e non si accorge del suo.
Ecco, Marco Ercolani, con questa Sindrome del ritorno, con questo ennesimo esperimento/operazione chirurgica di immedesimazione con un personaggio topico della letteratura, colma le lacune di Hawthorne, taglia e ricuce e scava, scava, scava.
Dove siamo? A casa di chi?
A un certo punto leggiamo: «per te non esiste il regno dei cieli ma la repubblica delle nuvole.» (p.45). Ma chi è questo te?
È senz’altro Wakefield ma è soprattutto Ercolani. Vicino a casa ma lontano, a pochi metri ma da una distanza incalcolabile, nel mondo e fuori del mondo, proprio come Wakefield che vuole stare vicino alle cose e alle persone a lui care ma a una distanza indelebile, infinitamente parallela, Ercolani studia il mondo, lo esplora con uno sguardo perturbato, senza rimorsi o rimpianti.
Niente aldilà, inferni, paradisi o purgatori, l’autore rimane con i piedi sulla terra, ma con la testa tra le nuvole, anzi, come dichiara in questo splendido aforisma, nella repubblica delle nuvole. Ercolani, la sua scavatrice/bisturi, cioè la sua scrittura, esplorano i confini, perlustrano le forme, la sostanza, le strade, le case, i prati, le foreste, le creature, i pensieri, le crepe, le parole, le cose di questa vasta, evanescente/potente repubblica.
Sogni, ricordi, evocazioni, ossessioni, visioni, epifanie, profumi, sapori, luoghi, paesaggi, città, linguaggi, scritture, Artaud e la psichiatria, Kafka e Praga, Genova e l’Osteria degli Archi, Seurat, Michaux, Van Gogh, Giacometti, Bacon, Musorgskij, Magritte, Marsiglia, Barcellona, Pisa e il suo Trionfo della Morte, Milano e la Basilica di Sant’Ambrogio, Marrakech, i suoi vicoli densi di odori, colori, suoni… subiscono e alimentano la consistenza, il dinamismo, l’imponenza, la solennità, il potere metamorfico, costruttivo e distruttivo di immagini e significati, delle nuvole, cioè della scrittura, come agire ed effetto di questo agire. Le immagini e le percezioni della memoria sono smembrate come quelle di un prezioso ma consumato arazzo e vengono in continuazione richiamate e ricostituite dallo scrivere.
È una volontà di estraneazione, ma di uno speciale straniamento ricostruttivo a imporsi, a dominare, che decolla da un altrove, vicino ma lontano, e si espande lungo assi riconoscibili ma imprevedibili. A pochi centimetri, a una distanza abissale. Ad altezza d’uomo, da una finestra che si affaccia sulla strada da un sotterraneo. Che cosa si può vedere? Le gambe dei passanti, le caviglie, i piedi, le scarpe. Il resto del corpo, impostato dalla realtà, è affidato all’immaginazione. Lo straniamento è un percorso che parte dalle forme del reale ma ha bisogno dell’immaginario di un sottostante (i ricordi personali, le letture, l’arte, la letteratura) per salire, per completarle, in un viaggio avventuroso di scoperta di se stessi, di perdite e di acquisti, di trasalimenti, di seduzioni.
«E alla fine, nella tua scrittura, sarà assente anche la fastidiosa gravità delle braccia, delle gambe. Sarai, in tutto e per tutto, chi continua a volare, anche se chi ti vede non ti vedrà mai staccarti da terra. Ma tu lo sai: ti sei già staccato. Tu ne hai scritto. Il tuo piccolo delirio è diventato seme per nuove parole, per altri racconti. Tu, ora, sei realmente Wakefield. Le tue case sono l’unica casa.» (p. 84).
Dopo 20 anni Wakefield/Ulisse ritorna a casa, l’unica vera casa, la dimora di Penelope, ed è come se fossero passati 20 minuti. Dopo 20 minuti (ma potrebbero essere anche 20 ore o 20 secondi o 20 giorni), anche Ercolani ritorna a casa ma, con questa Sindrome, curata e coltivata dalla sua penna erratica e puntuale, è come se fossero passati 20 anni.
