SETACCIARE IL NOSTRO BUIO PRIVATO. Marco Sbrana

Appunti su Nottario, di Marco Ercolani

Tutto quello che è interessante accade nell’ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini (Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline)

La notte ci prende, viene la paura. Non abbiamo più madri da far accorrere, né padri da chiamare perché ci raggiungano al capezzale e ci salvino. È un macigno il cielo colore del petrolio, e non sembra valere la pena di vivere. Nessuna stella in cielo, la bruma che offusca.

Marco Ercolani apre il suo Nottario (I Quaderni del Bardo, 2023) – antologia di aforismi scritti tra il 2015 e il 2021 – con un esergo che riporta Handke e Starobinski. La vita scivolerebbe via, è Handke, se Marco Ercolani non scrivesse; scrivere, è Starobinski, trasforma l’impossibilità di vivere in possibilità di dire. Coerente sarebbe aggiungere ai due Pessoa: che scrive quello che sente perché così facendo abbassa la febbre di sentire.

È nella notte che fa anchilosati gli arti, il letto come polo di gravitazione dal quale non si riesce a emergere, che la prosa apodittica di Ercolani batte il suo primo colpo di martello in quella che è una dichiarazione di poetica:

L’arte: un nuovo universo la cui illusione persuada più del mondo reale.

Ché, dice Borges nell’Aleph, accettiamo di buon grado la realtà forse perché intuiamo che niente è reale.

Gli aforismi di Ercolani si collocano nelle zone grigie che separano l’autobiografia, la folgorazione epifanica e la critica letteraria. Fa seguito, infatti, a questa sentenza che racchiude sei anni di ricerca, un frammento su Nanni Cagnone e la compossibilità della poesia. Financo nella critica testuale più classica, Marco Ercolani, soggetto scrivente che scaturisce dalla langue poetica, parla di sé. È nella discussione sull’aut aut come oltrepassamento dell’infanzia (nell’infanzia non si rinuncia: è il regno della compossibilità) che emerge un Io travolto dalle incombenze di un adultità non desiderata, e che ricerca, all’interno del tessuto poetico, “la fortuna dell’insonnia”, perché, dice nell’aforisma successivo, “gli occhi sprofondati nel sonno, inafferrabili: vedono nuvole”. Chiari gli echi: Kafka e Céline. Non è necessario, per l’uno, uscire dalla stanza; per il francese (l’ouverture dell’opera magna – Viaggio al termine della notte), il viaggio “possono farlo tutti” perché “basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita”.

Il soggetto lirico di Ercolani, fin dalle prime battute di questa autoantologia, è nella lontananza costitutiva che ricerca la verità, trasmissibile attraverso l’arte. Nello sprofondare laddove si perde il senso dell’orientamento – tanto quanto il senso di appartenenza a una società che lascia ai margini chi non viene perdonato – Ercolani ritrova se stesso, e scolpisce la sua arte non per “erigere un monumento più duraturo del bronzo”, ma per quell’incontro – fosse anche il solo, fosse anche l’ultimo – con la verità. Dalla verità, una volta raggiunta – già ci dicono i greci –, non puoi più evadere. Una speciale vertigine che concede (anche e forse solo) l’esperienza estetica.

Benché nella vertigine di chi ha, nell’essere “paroliere”, raggiunto l’orgasmo, infila la prospettiva della morte. Scrivere della gioia è credersi immortali, dice Ercolani, che poi prega per fuggire dai lettini assicurati dai lacci. Partoriti nelle grida, venienti al mondo in un pianto che sembra presagire orrori futuri, il destino si chiude in un anello e si torna, con dolore, a gettare gli ultimi ansimi in un ospedale.

Il giusto congedo. Non essere carne d’ospedale, consegnata a mani estranee e aghi ostili. Dileguarsi prima.

Ma come sfuggire alla burocrazia della morte? al corpo che si ammala e, sciancato, strascica pantofole sul linoleum chiazzato di candeggina? Forse con l’atto di estrema pietà per noi stessi.

È dunque, quella di Ercolani, una ricerca di stampo esistenzialista, che richiama il dolore di Sartre – scrittore più che fenomenologo –, di Camus, di Gadamer, di Heidegger, di Jaspers, con la causticità e la disperazione e le ossa scheggiate di Cioran, che grida dalla colpa primordiale di essere sbucati, con quel gran dolore di cui sopra, da una voragine di carne, da un varco di terminazioni nervose, urlando.

E come Beckett, intervistato su ciò che rimane all’artista (di esprimere nessun potere, nessun desiderio, nessun mezzo, ma solo l’obbligo), scrive Ercolani, che l’unico modo per non arrancare morti nel mondo è reinventare il mondo e – alla stregua di Fellini – dire perché si deve dire benché nulla da dire si abbia.

Presso metà libro, a ripresa (in gergo cinematografico: payoff), della sentenza che apre il testo, una dichiarazione cristallina sulla forma dell’arte, che riporto:

I sintomi, nella malattia mentale, sono la scrittura deformata che il terapeuta deve decifrare e trasformare, interprete e testimone di quel caos, chiarificando il senso di una storia e la forma di un dolore. L’arte, come il più complesso dei sogni, è la costruzione lucida e logica di un altro mondo simile all’antimondo del delirio, composto dalle stesse parole e dalle stesse immagini ma orientato da una persona che non ne è vittima. Quando l’ossessione si libera dal sintomo diventa l’immagine o la parola che conserva la concentrazione di quel dolore, ma non ne è più sopraffatta.

Chi ha piantato il seme dell’infelicità? Quando abbiamo iniziato a zoppicare? Riprendendo Freud nel suo principio di morte, quella lotta intestina tra il bene e il male, vinta da quest’ultimo nel nostro coartarci a immetterci sempre e comunque e da sempre nell’orrore che più patiamo, Ercolani dice:

Siamo da sempre costruttori dei nostri incubi

ricalcando con efficacia quei lampi (quei dardi che uccidono i borghesi) emessi dai testi di Cioran.

Dietro ogni incubo c’è il nostro volto che ghigna e ci deride. E ci vuole morti. Ercolani ha abbastanza vita alle spalle, abbastanza testi alle spalle, per saperlo. Ma nulla può contro il suicidio che impiega una vita a farsi.

Nella vivisezione di se stesso, ritroviamo Beckett (Fallisci ancora, fallisci meglio): così Ercolani:

Resto fedele al mio mandato: che comporta l’abbandono, non inerme ma risoluto, al mio predestinato fallire.

L’ironia che talvolta esce con la testa a guardare fuori dal terreno dove si incava, e che subito viene abortita, un altro Beckett, quello di Finale di partita. Sembra dirci Ercolani quello che arrivano a teorizzare i due protagonisti della pièce: che la vita è come quella barzelletta che ci hanno raccontato talmente tante volte che adesso non ci fa più ridere.

Con un aforisma che ha l’andamento del poetare, mi avvio alla conclusione:

Letti vuoti, dove nessuno ha dormito. Lettere scritte da chi non conosceva il sonno. Mentre dormo, si dissolve la terra precedente. Sempre futuro, il nulla.

Nottario è un testo che richiederebbe esegesi più che recensioni. Ci limitiamo a dire che, nell’oscurità dei suoi aforismi ermetica – in cui riecheggia la forza del contemporaneo poeta italiano Enrico Marià (per l’affanno del corpo, per la frantumazione dell’anima) – apre fenditure nella notte che esso stesso genera. Leggere Nottario è esperienza che elude il buon senso comune e il senso cronologico e il rapporto causale. È la fantasmagoria sofferente che abbiamo davanti in certi romanzi (quasi tutti, invero) di Cartarescu. Laddove il senso non è afferrabile, significante cantato e significato come immagine trascendente ogni sforzo di comprensione emergono nella loro forza brutale non per farsi capire, non per illustrare (il che sarebbe pedagogico e quindi inaccettabile), ma per suggerire, per sussurrare all’orecchio segreti scordati l’indomani, mediante folgorazioni liriche che sospendono il lettore, lo inducono a setacciare il testo come un medico che analizzi il cervello di un paziente. Nella doppia funzione di medico e paziente, Marco Ercolani ha svelato i meandri scabrosi, le intuizioni di un momento, i pensieri partoriti su di un treno che oltrepassa il mare e le oscenità che serba la notte, non per capirle ma, generosamente, per regalarle; ne riesce un atto di tanta sincerità che ci si domanda se ancora Ercolani, domani, avrà la forza di dire il vero, dopo che tanto di vero ha detto. Gli è rimasto qualcosa da dire? Per comprendere Nottario si impiega una vita; per comprendersi in Nottario, Ercolani impiegherà una vita.

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Marco Sbrana (26/03/2003) è studente di scrittura creativa presso la scuola Mohole di Milano. Ha scritto un romanzo e una raccolta di poesie finora inediti. Collabora con le riviste “Zona di disagio” e “Evidenzialibri” per le quali si occupa di letteratura e cinema.

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