a cura di Lucetta Frisa


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Io, io cavallo, l’animale vivo, il corpo, il selvaggio. Io, nel cavallo come nella scrittura. Assieme all’indomabilità, l’equilibrio, l’ignoto, il mai compreso. L’attenzione estrema verso il mondo. Tra panico ed esultanza. Ciò che in me è cavallo. Preda fuga solitudine gregge. Ciò che in me resiste, si ostina e rischia. Ciò che in me se ne va per riunirsi dopo.
Se sono a cavallo sono di colpo nel cuore delle cose, senza impacci, intera. Sbarazzata degli ostacoli secondari, dei nodi sterili. Nel vivo del soggetto. Mi raggiungo, in un’estrema presenza a ciò che mi circonda. Nuda.
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Non solo nella testa io sono un cavallo. Lo sono sotto i piedi, anche nella terra e sul dorso, negli incavi e su, su fino alla nuca, alle orecchie, fino in fondo.
Subito il corpo è nel panico quando, dopo tutto, mi trovo di fronte l’uomo: lui non è abbastanza cavallo. Sarebbe una brusca tenerezza, nell’erba; il collo teso, come quello di un’oca bianca.
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Dentro, la parola cavallo. I movimenti, la muscolatura, nel galoppo, quel calore sotto di me. Quando tutto si compone è insieme riunito, per dare vita a quel cavallo a due teste che siamo noi.
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Ci sono dei leoni negli occhi del cavallo, nella solitudine del suo corpo di zebra. Non è l’uomo che lo rassicura realmente, anche solo per un attimo, perché cavallo è solitudine. E allo stesso tempo inseparabile da un altro nel prato. Quasi infantile, simile a un asino.
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Camminare fianco a fianco, sulla strada del ritorno, nelle orecchie il passo del cavallo che avanza, schiena calda e respiro tranquillo; camminare ciascuno con la propria stanchezza, la stessa stanchezza tra gli odori del cavallo mescolati alla pioggia. E tutta quell’acqua che cade non gli frena il passo. Lui le va incontro, indifferente. Finalmente libero, ritorna alla terra, calmo vi si rotola dentro, prima di scuotersi e rialzarsi in piedi. Come un cavallo.
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Sdraiato, il cavallo è ancora creatura viva, è ancora cavallo. Finché la testa si muove e il collo trascina il resto e le gambe volano in aria prima di rimettersi dritte. Intorno a lui vola tanta polvere.
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Il cavallo con la sella e l’altro nel prato si assomigliano. Le stesse orecchie, che fanno non si sa cosa. Nel sangue, qualcosa di insensato ci sfugge. Uno scarto improvviso, per un colore di plastica troppo vivace in un albero, c’è di che scartarsi dalla strada non rustica. Il cavallo è attento più all’esterno che a se stesso. Cosa succede quando si ferma con le quattro zampe piantate a terra, per sempre.
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Se nelle gambe qualcosa si spezza, non lo zoccolo ma un osso o un muscolo, il cavallo è finito: perché o sta in piedi o è morto. È fragile davanti al filo spinato. Eppure ha quattro zampe. Basta un rumore di treno, il cavallo è capace di rischiare tutto in un quarto d’ora e tanto peggio se, alla fine, provoca un incidente.
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Il cavallo in una gabbia accanto a un’altra gabbia, resiste e rifiuta. L’uomo è sopra di lui, insistente, curvo, piccolo, inquietante. Spaventato l’animale cede. Intorno c’è rumore, argento nelle parole, dei numeri a dire l’età, e questo è frustrante. Donne in bianco, con minuscoli binocoli, guardano i cavalli. Un fischio ed è partito, i piccoli uomini alla caccia, senza bisogno di fucili, la preda è sotto. Questo è ancora più frustrante per chi, in piena agitazione, resta ai blocchi di partenza.
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Non sono le mie, ma proseguo a quattro zampe, e seduta in sella accelero. Il cavallo ha capito ciò che non ho detto, io ho un corpo, lui galoppa e le mie mani non pesano, non pesano nulla, posate su un movimento, sopra un animale. Tra me e il cavallo, nessun lamento.
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Che furia nel partire di colpo quando il cavallo, davanti, galoppa. Aperti sulla lontananza, i suoi occhi si gettano in quali braccia, in quale grembo.
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Lui attende ai box ma cosa attende, le pillole, un cavaliere? Di sicuro è un’altra cosa, il petto piantato contro la porta, e occhi e orecchie nella stessa direzione. Lui, il cavallo, aspetta, aspetta che gli si apra.
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Solo in mezzo agli altri, ma che siano cavalli veri e lo lascino in pace. Anche se libero, vuole stare tranquillo, libero di girare in quadrato, seguire le piccole linee che ha tracciato per terra, i suoi reperti, il suo territorio: che venga dimenticato.
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Non grida, il cavallo, non è volgare, anche se addobbato in tre colori per i festeggiamenti umani, più modesto di quello tutto dorato che si tiene dritto in piedi per essere grande. Se un bambino è appollaiato sulle spalle di qualcuno, ai bordi della sfilata, non guarda direttamente né i colori né l’oro ma guarda solo il cavallo.
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Il suo corpo bene accompagnato, in ogni movimento prima dell’ostacolo, tanto che niente al suolo li fa scendere entrambi. Il cavallo e il suo cavaliere. Senza tirare, le mani si raccolgono in un ritorno-atterraggio. Gli occhi davanti conducono il corpo, mentre le due andature dolcemente ricominciano a comunicare.
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Un rumore qualunque, forse degli uomini o le loro macchine, la paura sorprende e si propaga da un corpo all’altro. Al ritorno rassicurarsi che il cavallo ci sia, l’inquietudine è animale.
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Con le orecchie tese, il cavallo spaventato di dover condividere il suo uomo, per gelosia morde il fianco dell’altro cavallo. Il semicerchio che fa al galoppo crea una barriera molto evidente per quell’escluso morsicato.
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Il collo in atteggiamento di offerta e la testa in una curva, che il resto prolunga, con le mani dell’altro corpo. Al cavallo, si applica l’equilibrio.
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Malgrado il cavallo stia dietro, ciò che bisogna fargli portare di peso, la tentazione di mandare tutto al diavolo, il traino e l’uomo a traino, rischiando il dramma.
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Il cavallo spia, attaccato, tutti i pericoli contro cui non potrà niente. Dritto in piedi come un albero.
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Spesso camminando a granchio, perché c’è troppo ignoto dietro la schiera degli alberi. Non resta che avanzare, superare l’ignoto, e tutto provvisoriamente sembra rientrare nell’ordine.
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Che importanza ha il catrame sulla strada del ritorno, per il cavallo bisogna rientrare a casa al più presto. In testa ha delle carte per la sua geografia privata, e i panorami non contano.
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Il corpo controvento e a testa bassa per fare fronte a tutte le sfumature del freddo. Raccolto, arrotondato, il cavallo sotto la pioggia conosce la terra e le sue tempeste. Si ferma e attende, attende che tutto questo si fermi.
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Non fidandosi dei ponti di legno il cavallo non cede, incaponito finché l’uomo non accetta di scendere. Allora tranquillamente, quasi a occhi chiusi, posando gli zoccoli uno dopo l’altro il cavallo cammina, facendosi accompagnare per un tratto pericoloso.
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Un pollo in pancia, la giumenta vigila come il guardiano del faro. Nessun problema a toccare, non si sa dove e in che modo, le carezze restano sotto sorveglianza ancora per qualche mese. Peccato per l’uomo che avrebbe voluto essere testimone di tutte le cose importanti. Dormirà indubbiamente, la notte che vedrà barcollare nell’erba quattro zampe di giraffa. Il giorno dopo, fiera e possessiva: la cavalla.
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Nitrendo in lungo e in largo perché l’altro se n’è andato via da solo, il cavallo non è tranquillo. Che importanza ha l’erba verde! Calpestando sulla terra lo stesso itinerario, finisce per tornare sempre nel luogo della separazione, col timore di aver smarrito quello che adesso non è più visibile.
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Il cavallo è testardo, si rifiuta di salire su quello che con le ruote lo condurrebbe a un altrove di cui ignora tutto; allora fa l’asino, indietreggia e resiste, biforca e fa arrabbiare gli uomini, costretti a cercare una corda con la forza insufficiente delle loro braccia.
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Cavallo! – bambino incollato al suo tiro per la stagione delle morsicature. Fino a quando, la tolleranza di un uomo?
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Le palpebre cascanti, in una testa che si abbassa, tutto il peso sulle tre gambe dove il cavallo riposa, quale sonno non l’ha colto nelle sue notti di veglia.
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(a Raoul e Margaux)
Questa sera un cavallo è morto agganciato durante uno spettacolo di grande effetto spettacolare, mentre un tipo al microfono si scusa dell’incidente. Lo spettacolo, di grande effetto, si prolunga leggermente. La musica continua, insieme agli attori e alle luci, inoltre bisognerebbe togliere il cadavere del cavallo, dice qualcuno, mentre è già sotto una grande coperta nera.
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Le parole nella bocca di un cavallo non sono necessarie per comunicare allo steccato che si è in attesa di un uomo, per un abbraccio o per del pane duro. Tutto è ritto in piedi fino alle orecchie, immobili per un attimo. Poi le gambe, come assalite dalle formiche, danzano. Non tocca il filo, il corpo intero portato davanti.
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Che importanza ha la primavera e tutte le sue dolcezze, anche a trent’anni il cavallo bianco non si lascia avvicinare né carezzare né acchiappare. Io, sulle mie due gambe davanti a lui come davanti a uno specchio a risalire il tempo, brontolando che è finito, che la tenerezza è disponibile ma nel suo corpo la paura, la paura non se ne va.
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L’inverno non ancora iniziato è già troppo lungo per una voglia d’erba verde, proprio quella del campo accanto. Allora tanto peggio per i pali, i fili che bruciano e tanto peggio se è notte, il petto in avanti, il cavallo insolente spinge la recinzione, seguito da altri, e poi si mette a galoppare davanti a un uomo che si è svegliato, innervosito, costretto a correre dietro a chi è per metà mulo per metà pecora.
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Irrigidito, in modo imprevisto, su una strada deserta troppo affollata di creature invisibili, il cavallo vi ha visto chissà quanti predatori, trasale non appena il vento…
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Una volta trattenuto, il cavallo bianco, rassicurato, mi fa tutte le concessioni. Passare sotto di lui, prendere le gambe, allungarsi sulla groppa, circondare il collo, al limite ricevere gli insopportabili segni di dolcezza. E poi…hop, andare senza sella e senza parole: partire.
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Partire
Afferma Viviane Ciampi: «”scrivere / scrivere come se non restasse più null’altro» recita in un verso di qualchehe anno fa la poeta francese Albane Gellé, la quale non ha mai smesso di restare fedele al suo modo d’intendere la poesia pur vivendo con essa una storia d’amore appassionata e conflittuale. con l’autrice – capace d’empatia tanto da prendere il punto di vista del suo cavallo – la parola galoppa senza ingombrarsi di peso eccessivo e in questa galoppata si mette al
l’ascolto di nuove percezioni, cerca nuovi nutrimenti. e torna in mente louise Glück nella poesia Horse: “cosa è l’animale / se non un passaggio fuori da questa vita?”».
La musica concreta di questi poemi-cavallo di Albane Gellé ci porta fuori dall’immobilità del mondo con impennate improvvise. Moi, cheval e Cheval, chevaux (qui tradotti in italiano, insieme, per la prima volta), sono due libri che testimoniano il passaggio fuori da questa e dentro questa vita. l’immagine del cavallo non ha nulla di pittoresco e di simbolico: è figura viva, reale, intima, selvaggia, che la poeta fa propria con ardore, dentro una prospettiva che offre alla
lingua una nuova, libera, felice andatura. scrive Albane: «Una volta trattenuto, il cavallo bianco, rassicurato, mi dà tutte le concessioni. Passare sotto, prenderele gambe, allungarsi sulla groppa, circondare il collo,al limite ricevere insopportabili segni di dolcezza. e poi…hop, andare senza sella e senza parole: partire».
Lucetta Frisa
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Albane Gellé
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I testi sono tratti da: Albane Gellé, Moi, cheval, I libri dell’Arca, Edizioni Joker, Novi Ligure 2025.
