
Sindrome del ritorno non appare come un libro compiuto: è un quaderno di appunti che l’io scrivente annota pedinando un personaggio letterario, Wakefield, creato da Nathanel Hawthorne. Wakefield lascia la sua casa dicendo alla moglie che tornerà dopo pochi giorni. In realtà non va da nessuna parte, affitta un appartamento nella strada vicina e vive lì per vent’anni senza dare più notizie di sé. In quel lungo periodo ogni giorno passa a vedere la sua casa e segue da lontano la vita della moglie. che lentamente si abitua alla vedovanza; una volta, addirittura, in una strada fitta di gente, lui e lei si trovano a tu per tu, per un momento i loro occhi si incrociano, ma la folla li separa. La donna trasale, lancia uno sguardo perplesso, si allontana. Trascorsi vent’anni, in una sera di temporale violento, mentre passa proprio davanti alla sua casa, Wakefield vede il fuoco del camino acceso, osserva attraverso le finestre il profilo della moglie e, come se fossero passati minuti e non anni, ritorna. Questo, in sintesi, è il viaggio ellittico dell’io, in Sindrome del ritorno. Un io incerto fra due case, fra due luoghi diversi, cerca un equilibrio impossibile, da interminabile psiconauta. Percorre con la sua inquietudine una città reale e immaginaria, che ora evoca Genova e ora Praga, ma nulla lo conforta e lo salva. Pur volendo fuggire dalla sua vita, si trova immerso dentro le cose, dentro le immagini che lo hanno sempre turbato. Non esce mai dal suo viaggio. E alla fine, come Ulisse, ritorna dalla sua inconsapevole Penelope, cercando, lui, creatura nata da un personaggio, cercando sempre una soluzione all’enigma: enigma vissuto dentro una scrittura che gli appartiene ma che non possiede, intrecciata secondo dopo secondo nelle pagine di un foglio senza fine, dove trovare/ritrovare la libertà trivellando ogni parola, respingendo l’assedio del nemico con l’architettura di una frase.
