
Nota di lettura per: Francesco Macciò, L’alba e la cenere, Robin editore, collana Le Giraffe, Vignate 2025.
Nel 2025 Francesco Macciò pubblica, per Robin editore, un volume di racconti, L’alba e la cenere, che si articola in tre parti: Primum non nocere, Secundum docere, Tertium invenire. Il libro racconta le vicende, reali e immaginarie, di un professore di lettere che traversa il mondo della scuola e le sue contraddizioni, mescolando fiction e autobiografia, e mette in luce la necessità di un dialogo maturo fra insegnante e allievo, dove l’insegnante ha un primo e fondamentale compito: “deve imparare a leggere i testi, farli respirare nel loro tempo, e anche nel nostro, non soffocandoli con inutili griglie di lettura”. E osserva: “La letteratura inquina, contamina, ma rimescola le carte lasciando spazio alle mosse successive. A questo pensava il professore, con l’intenzione non di amplificare la propria voce, ma di azzerarla per ricomporla nella voce di un altro”. Il suo intento è uno solo: “Non pretendere nulla dai testi all’infuori di quello che essi contengono”. Dopo alcune acute riflessioni su Gabriele D’Annunzio ed Eugenio Montale, il libro si conclude, nella sua terza parte, con un “quasi apocrifo” di Fernando Pessoa, Nuvens, davvero eccezionale nel percorso narrativo di Francesco Macciò e di questo stesso libro, quasi che l’autore avesse voluto uscire dal suo “corpo” di insegnante per vivere nella voce di Pessoa un magnifico “altrove”:
«Se non fosse per queste nuvole enormi che offuscano il cielo, direi che non c’è nulla di misterioso nell’idea di esistere, anche se avere mille volti nitidi come il cristallo o indefiniti e inafferrabili è il solo modo di esistere. Ecco il punto di arrivo di ogni creazione artistica. Il poeta deve moltiplicarsi in ogni ora scomposta, in ogni momento inenarrabile della propria vita, entrando nelle vite degli altri e ricomponendosele a pezzi nei registri vigili e segreti della memoria. Non è di Pessoa questa voce che vi parla, è soltanto una voce che si solleva dalla polvere, semplicemente il suono di una voce che è davvero di Fernando Pessoa quanto più spinge parole nella bocca di altre persone. Se non fosse che non c’è nulla di crudele nel sonno, direi che la crudeltà più ostinata del sonno è quando esso si assottiglia e dileguandosi ci obbliga ad appartenere a vocaboli, a cifre numeriche, a tratti di matita, ad avere un volto, un nome, quel solo volto reale che, esistendo, nega la vita. Possiamo destarci con un gesto che imita la vita, immaginare, in questa finzione, la finzione di una vita reale e ritornare nel sonno quando le cose cigolano dentro ingranaggi irreparabili, diventano corpi, altri corpi indistinti e dolenti nell’universo. Dobbiamo accettare ogni giorno questa falsificazione, questa irriducibile mancanza. Ecco il punto di partenza. Ogni giorno rappresentiamo centinaia di sensazioni che non siamo, migliaia di congegni manomessi che non conosciamo, e abbiamo appreso in desistenza, sul confine tra il sonno e il sogno, che le parole dette da altri sono più vere di quelle che percepiamo dentro di noi. Le parole dette da altri… Forse questo scritto non mi appartiene, neppure questo termine “forse”, una probabilità di esistenza in agguato dietro le lenti terse dei miei occhiali. O forse chissà che questa non sia la sola via di appartenenza, di esistenza. Casa, ditta di import-export, ditta di import-export, casa, e a casa un baule colmo di carte vergate a mano, di fogli dattiloscritti… Non sono solo ora, non sono più solo. Ci sono reti attorno a me, reti di nuvole, lentas nuvens… nuvens brancas… Nuvole lente, nuvole bianche di antenne e di suoni: centinaia di piccole antenne occulte nel baule del mondo, migliaia di suoni emessi da un’orchestra misteriosa, che mi avvolgono nella prolissità estenuante della mia inesistenza. Ma non sono solo, si compongono nomi, affiorano volti qui davanti a me con i loro corpi e le loro anime. Alberto Caeiro. Álvaro de Campos. Ricardo Reis. António Mora. Bernardo Soares…Álvaro de Campos è l’euforia della libertà, lo specchio delle “magnifiche sorti e progressive”, così irrevocabili nei loro cedimenti e nelle loro derive. Álvaro è un poeta marittimo, si è laureato a Glasgow, prima in ingegneria meccanica e poi in quella navale, o forse ha abbandonato ingegneria meccanica per frequentare i corsi di ingegneria navale, chissà. Un poeta ingegnere, un nevrotico cantore della civiltà moderna e dei suoi inganni, delle sue trappole. So che è alto qualche centimetro più di me, magro, sbarbato, con i capelli lisci e la schiena che tende a incurvarsi. Non credo sia del tutto casuale se ci incrociamo ogni giorno per strada, qualche volta anche a passeggio lungo il fiume. Un incontro sempre faccia a faccia: l’uno va dove l’altro viene. E anche questo non mi sembra del tutto casuale. Appena mi vede a qualche metro di distanza, Álvaro estrae dal taschino della giacca il suo monocolo, lo incastra nell’orbita dell’occhio, mi fissa attraverso la lente come fossi un’entità estranea e lontana. Saluta e tira dritto. […] Nuvens… lentas nuvens… nuvens brancas… Non c’è niente di vero e niente di falso in ciò che vediamo; forse, però, la realtà è uno specchio che distorce più della finzione. O forse è vero il contrario, chissà. La finzione nasconde la realtà, inghiotte la materia, la riflette in una nuova forma come in una galleria di specchi deformanti. Molte persone vivono vite plurali e straordinarie, s’imbattono in personaggi immaginari, più veri di quelli reali, incarnati anch’essi nei paradossi irriducibili dei loro sogni. Passeranno come ogni cosa. D’altra parte, anch’io vivo sepolto in una smisurata estensione di me,in queste vite insistenti e inesistenti che prendono forma e mi accerchiano. Ma sono stanco, sempre più stanco di esistere in questi nomi, in questi volti che mi si stringono addosso come pali aguzzi di un recinto, come alberi mastodontici in un intrico di radici strangolatrici. Passerà la notte, passerà anche l’alba. Eppure, soltanto così, perdendomi in ciò che suppongo di essere, posso ritrovare me stesso. Ogni cosa, tra il sonno e il sogno, occupa uno spazio enorme, un universo che svanisce nel nulla, per rinascere ogni giorno in un’ora assurda tra il raziocinio e l’affetto. Un’ora di rovina e di pietà. Un’ora incredibilmente morta».
A questa fantasticheria “quasi apocrifa” rispondo con un mio racconto apocrifo scritto alcuni anni fa per Fernando Pessoa e che mi sembra svolgersi nella stessa “ora di rovina e di pietà” di cui parla Francesco:
«Lisbona, 21 gennaio 1934.
Io sono Antonio Nogueira, Fernando, e abito da sempre il tuo nome:Fernando Antonio Nogueira Pessoa. Eccomi racchiuso letteralmente nel tuo nome. Non so perché ma mi hai tenuto ben distante da tutti gli altri eteronimi, da Ricardo Reis a Bernardo Soares, da Alvaro de Campos ad Alberto Caeiro. Io ero diverso, per te. Da quasi 32 anni esisto (più giovane di te di almeno vent’anni): ho fatto studi di medicina, mi sono specializzato come psichiatra in dissociazioni di personalità. Appena dormi, ne approfitto e scrivo. Ma tu, del quaderno dove traccio i miei appunti, non sai quasi niente. Il segno della matita è appena visibile. So che non mi rileggi. Non mi rileggi mai […] Singolare, il mio destino, non trovi? Sono uno psichiatra nascosto nel corpo di un uomo che la società giudicherà pazzo. Ma forse proprio per questo ti sono vicinissimo. Per testimoniare che tu non lo sei, pazzo. Che hai gestito tante vite parallele perché le hai trovate infinitamente più interessanti della tua, così misera e scialba. Sei un genio segreto, Fernando. Se non fossi così segreto, chi si ricorderebbe di te? Saresti solo un impiegato originale e bizzarro, timido e impacciato, sulla soglia del disastro mentale. Ma io sono deluso. Mentre Soares può scrivere i suoi saggi e Caeiro le sue poesie, io cosa faccio? Resto dentro di te per giudicare te? Per essere io la tua rotta? Per impedirti di perdere definitivamente la ragione? Io: il tuo custode interno. Ma anche il tuo prigioniero. Gli altri eteronimi hanno un nome, una biografia, un loro destino, sognano e immaginano. Io, invece, sono un uomo che ha studiato la mente ma che non può curare nessuno essendo dentro di te, mai ricordato da te. Come faccio a lasciare il tuo corpo e il tuo nome? Ti rendi conto che, se è vero che hai costruito il teatro delle tue ombre per salvarti la vita, io, la tua prima ombra, la più sconosciuta, sono condannato a una infelicità senza rimedio? Uno psichiatra incapsulato nel corpo di un matto può anche smaniare teorie ma gli viene tolta l’unica facoltà: guarire chi soffre, uscire da sé per curare gli altri, vivere autonomo, libero. E io posso farlo? Posso davvero? Forse solo di notte, quando ti addormenti. Forse solo a notte alta, approfittando del tuo sonno pesante, potrei vagare per le strade della Lisbona vecchia invocando uno dei tanti afflitti da saudade per potergli parlare e alleviare così la sua tristezza. Che amaro destino, mio caro, unico amico, mio caro Fernando Antonio Nogueira Pessoa. Almeno, quando morrai, affidami ad altre mani. Non mettermi nel baule con i tuoi eteronimi, con gli altri tuoi intellettuali capricci di solitario. Io non sono loro. Tu lo capisci? Io non sono loro. Io sono davvero te».
In sintesi, L’alba e la cenere è un libro da consigliare a chi non cerca la struttura fissa e precisa del testo ma ama farsi rapire da una fantasticheria schumanniana, che però non tradisce il progetto di fondo inscritto nelle coordinate del libro: una lezione di educazione alla letteratura scritta da un poeta contemporaneo, montalianamente “archivista ironico dell’insensatezza della realtà del nostro tempo”.
