DI PIU’

Nicolas de Staël a René Char, intimi amici fino alla tragica morte di Nicolas, pensarono diversi libri insieme (tra cui Poèmes, Paris, 1952, rilegato a mano in mille copie), ma lasciandone molti incompiuti.

Antibes, 4 marzo 1955

No, René, io non sono d’accordo con la poetica di Alberto. Stimo la sua ostinazione, ammiro la sua forza, ma non sono d’accordo con la sua scelta. Scolpire volti scabri, intagliare figure sottili, circoscrivere il mondo a figure straziate. Mi sembra riduttivo, come se volesse solo radicarsi nella terra, nella cupa, stretta terra. Povero Giacometti! In quale buco li nasconde i colori ariosi, voluti dalla luce, modellati dal vento? Io voglio di più. Io voglio il massimo. Io voglio il cielo, che vortica e rapisce l’aria.

Oggi mi butto su una grande tela, inizia a sembrarmi buona, ma avverto un senso di azzardo, come una vertigine assurda. Quel tanto di virtuosismo che sta dietro l’imprevedibile mi scoraggia, mi deprime, dovrei dimenticare di essere pittore, ma la mano segue le regole che le hanno insegnato secoli di pittura. E invece dovrebbe andare da sola, muoversi nel tempo giusto, presto con fuoco, allegretto, andante, così, a colpi di spatola, animando queste masse colorate, queste pietre squillanti che sono i colori, e facendone una gragnuola di rossi, una pioggia di blu, una tempesta di azzurri…

Per fortuna non riesco mai a dominare la situazione. Sono preda della mano, di come lei sente i colori. L’occhio è meno veloce: sono le dita a trasmettere l’ultimo brivido alla tela. Vivo ad Antibes quasi soltanto per capire la natura di questo brivido, rompere lo status quo, andare avanti. Ma avanti dove? Sono vissuto a Rabat, Casablanca, Marrakesch, ma per caso (per caos?).

Io cerco il MIO colore.

Non sono stato, non sono, non sarò l’unico a farlo. In Veronese e Velàzquez ci sono diciassette neri e diciassette bianchi. Ho contato, per me, ventidue rossi, trentadue azzurri, sedici blu. Le mie ultime tele traboccano di un porpora che la tela non ce la fa ad arginare. Con la spatola scalfisco le tele, affascinato dagli ori bizantini di Ravenna. A volte me la appoggio sulla gola, quando sanguina di tutti gli ori e i rossi possibili, e una voce mi dice: “Dai, un colpo secco! Via di qui! Perché ti affatichi? La tua firma è la tela bianca”.

No, non ne ho più voglia, risento la voce, vorrei solo uscire dal mio problema. Guardo la finestra del mio atelier. L’aria è pura, caro René. Ci sono certi scogli bianchi, laggiù, di un bianco che non potrò mai dipingere veramente, fatto di aria fredda e calda, colorata e grigia, aria di tutti i secoli. Lavoro, da pittore, come tutti i pittori: cercando il niente a cui intonare il mio suono: ma ciò che vedo rode tutte le cose, non vedo nulla che non sia in slancio, in volo. Il mondo mi lascia, mi svuota. Che strani colori oggi – così trasparenti, così puri. Un uccello volteggia dietro i vetri. Ma il mio orecchio, invece del morbido fruscio delle ali, sente un suono più sordo: è il pulsare del sangue, che batte contro le pareti delle arterie; lo sento che irrora le sue ali e temo che la mia percezione possa, per eccesso di lucidità, provocare la sua vertiginosa caduta. Ecco l’uccello sbiancato, morto. È così. Non ho più un grammo di pazienza – l’ho spesa tutta nell’ultimo rosso, tonnellate di rosso, che non le reggerebbe un pozzo con dentro il cadavere di un uomo.

Scrivimi, Renè.

Tuo Nicolas

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A Françoise de Staël, 2 aprile 1955.

Cara Françoise,

ti rimando la sua ultima lettera: «Dobbiamo lavorare, René, a un libro insieme. Non andare in ansia. Sarà un libro speciale e noi saremo tra gli ultimi a farlo. Ma beati gli ultimi, perché dopo di loro il paesaggio sarà cancellato di qualche segno in più. Una cosmologia in bianco e nero: ecco la nostra opera. Non essere oracolare, stavolta. Ho bisogno di lampi segreti per il nostro libro. Abbassa i toni. Grazie, tuo Nicolas».

De Staël è morto sfracellato. Ha voluto che tutto si fermasse, tra me e lui.

La sua lettera mi è stata consegnata il giorno della sua morte. Io non posso tenerla con me. Sono troppo vivo per conservarla. Voglio che la conservi tu, Françoise, io non potrei. Sappi che non accetterò mai più di vedere cose sue, quadri o disegni che siano. Si potevano fare grandi montagne e grandi nuvole insieme. Ma la radice del sasso si è sgretolata quel giorno, con le sue luci e le sue vene, sotto la finestra di Antibes. Ogni cosmologia si è dissolta. Sono stato dinamitato da quella morte.

Ho pianto. Non mi era mai successo per nessuno. Che i segni di Nicholas restino con lui. Non hanno più bisogno del mio commento oracolare, da impotente superstite.

Non mi mandare nulla di suo. Lo brucerei. Il lutto non ha consolazioni. La sua voce e la sua faccia mi mancano più del vento di Isle.

Con amicizia, Char.

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