AVAMPOSTO NEL BUIO. Viviane Ciampi

La sindrome del ritorno: nota di lettura di Viviane Ciampi

Immagine di Ettore Frani

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La sindrome del ritorno è un libro liminare, scritto da chi ha scelto di non tornare, da chi ha deciso di non occupare più il centro della scena, non per rifiuto, ma per eccesso di visione.
Marco Ercolani attraversa l’esilio con passo silenzioso, e fa del frammento l’unica forma abitabile.
Qui ‒ come in molti altri suoi libri ‒ nulla si conclude: ogni pagina è un avamposto, un appunto necessario, un passo nel buio, un frammento di palinsesto interiore.

Il protagonista guarda la propria vita da lontano, come un Wakefield contemporaneo ‒ da cui il libro prende spunto ‒ e annota ciò che resta: sogni, ossessioni, silenzi, arte, incubi: “Perché ritornare se da qui vedi con chiarezza, giorno e notte, la casa in cui vivi, in quel punto esatto nella strada?”
Scrivere diventa portare sulle spalle un cadavere che narra: non puoi abbandonarlo se vuoi continuare a esistere, come nella storia del cadavere e del Re: “Ma il morto non è poi così morto, gli bisbiglia racconti all’orecchio.”
L’io non è più compatto, ma sparso tra i muri di Genova ‒ le pagine su Genova sono davvero singolari e struggenti degne di uno Sbarbaro o di un Campana in veste onirica, pagine che verranno ricordate. Udite udite: “Qui sei più libero. Le notti, a Genova, non sono bianche, come a Pietroburgo, o favolose, come a Praga. Le notti genovesi sono mediocri. L’aria è bassa, umida. Non consola”. E poi ancora: “Per chi vive dentro una parete sono ancora più cupe. Ma puoi voltarti. Ti giri avanti, ti giri indietro. Genova nega ogni paradiso”. Le pagine su Genova sono decisamente lontane dalle litanie caproniane, ma perturbano; lasciano intuire una città cupa, sorprendente e drammatica.

E poi penetriamo nelle vene del sogno e poi scivoliamo nella voce dei folli. La psichiatria non guarisce: ascolta, trema, fallisce: “Psichiatra è un buffo nome: ricorda il latrato del cane, l’odore della latrina, lo iato. Nomi grotteschi”. E ancora sulla psichiatria: “La tua vera definizione sarebbe psiconauta. Ma adesso non più. Ti sei volontariamente perso e non vuoi tornare dove vivi. Non galleggi più da nessuna parte”.
Ce qui s’écrit commence toujours par la perte”, scrive Blanchot, e ogni parola in questo libro nasce da quella perdita. Ercolani non cerca una lingua che spieghi, ma che ferisca con dolcezza, come una verità sussurrata all’orecchio. Cita; evoca; interroga; cammina: la scrittura è il suo modo di non soccombere. Non c’è salvezza, ma resistenza lucida.
L’opera non è compiuta, né vuole esserlo: ogni frammento è tutto, ogni pagina si fa soglia. Il lettore non può restare neutro: viene chiamato, quasi invocato a portare a sua volta il corpo narrante come il fotografo porta sulle spalle la macchina fotografica.
Là dove si tace, si scrive. E si scrive non per guarire, ma per accompagnare ciò che sparisce. La sindrome del ritorno è, in fondo, una lunga veglia sul confine. Un libro da assaporare come una voce nella notte. Perché solo la notte conosce la direzione del ritorno.

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