
Oreste Ferdinando Nannetti
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PARTE 7, DIARIO DI LILITH

Adesso è il momento del tempo che separa il passato dal futuro.
Dicono che il muro sia più spesso di una casa, più lungo di una strada sterrata. Che sia più violento del dolore, più profondo di tutte le solitudini. Che sia più vero del motivo per cui lo edificammo, e che camminando in tondo nella coscienza non si possa trovare che il muro. Che sia la tua verità contro la mia, il tuo grido silenzioso contro il mio grido silenzioso, tutta la medesimezza di eguali che si fronteggiano per raggiungere la cima. Che sopra vi fosse il cielo ma molti di noi non riescono più a trovarlo, almeno non un cielo terso, azzurro, illuminato dai bagliori del sole e attraversato da nuvole passeggere. Che salendo in cima al muro si veda il mare, che se ne avverta l’afrore e che gli uditori sopraffini possano sentire il suono della risacca. Che in cima vi sia una parete riflettente e che ciascuno possa guardarvi attraverso e riconoscersi senza riflesso. Che sia il nostro senso di soffocamento, affogati dalle voci degli altri. Che sia forclusione, desiderio deviato, spietata indifferenza. Che sia mille volti e ciascuno somigli al giorno in cui abbandonasti il sentiero e ti lasciasti cadere sulla sabbia, senza cibo né acqua, interamente spazzato via dal vento. Le abrasioni dei granelli che graffiano la pelle resteranno ancora a lungo e poi arriveranno le carogne, gli avvoltoi, le arpie. Che avrà i nostri occhi, prima di crollare e lasciarci deserto.
L’avanzamento è inesorabile.
Ho costruito la casa nella coscienza. Ho fabbricato un fantasma e sono il residuo della mia fabbricazione. Madre, tu mi hai partorita dal tuo ventre folle, tu tornerai nella casa. Affinché la casa viva è necessario riavvolgere la freccia del tempo e per riavvolgerla è necessario che io torni all’origine, riavvolga l’infinito. Avevo tredici anni, a Margherita di Savoia, abitavamo a Roma ma le estati erano consacrate all’origine, il sud era l’origine. Avevo tredici anni e salii nell’auto di quattro ragazzi conosciuti in spiaggia. Mi portarono nella casa. In un cerchio di otto candele. Mi diedero una stella di mescalina sublinguale. Allora vidi il muro per la prima volta. Nelle otto candele otto donne vestite di bianco danzavano e si bruciavano le vesti. Io le inseguivo nella fiamma e il fuoco aveva il volto di mia madre. Nella madre rivivevo la nascita e nel nascere morivo. Dentro il mio occhio un caleidoscopio di vetro rifrangeva infinite me che si alzavano e vomitavano. Vomitavano otto volte e smettevano e rivomitavano otto volte. Fuori dal corpo mi vedevo divisa. Ottomila Lilith di cartapesta si sgretolavano sotto i polpastrelli. Carne della mia carne. Polvere alla polvere. Questo precipitare ossesso. Fui oceano e diventerò deserto. Mi abbandonerai ottomila volte e ci vorranno ottomila anni per trovare l’origine. Io cerco l’origine epifita. Sono pianta carnivora e mi cibo dei resti della coscienza.
Gli officianti indossavano cappucci viola. Non erano più quattro ma otto. Mi legarono mani e piedi. Mi incisero otto volte la carne, i seni, i fianchi, l’addome, le cosce, i piedi, le mani, la vulva, la fronte e bevvero il mio sangue. Carne della mia carne. Ripetevano: legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo.
Allora vidi il muro. E vidi la feritoia. Sotto i miei piedi strisciavano otto serpi. Sopra i capelli s’inerpicavano otto rami. Le serpi raggiungevano profondità telluriche, erano radici vive di una quercia secolare. I rami erano mani e lambivano il cielo. Nell’albero crescevo e mi moltiplicavo.
A quale velocità si muove il tempo? Alla velocità di un secondo al secondo.
Sono diventata Lilith e per Lilith intendo Lilith. Il tempo mi vince e mi vivo nell’adesso che scorre. Marco incarnava la rivolta sociale, io la rivolta metafisica. Avevo bisogno della fisica per metaforizzare l’assurdo. Io ero l’assurdo, la simultaneità impossibile. Ero una terra senza spazio che sugge le radici all’albero. Sorbivo l’eterno. Mi separavo dal corpo, ero il futuro. Nella stanza periclitante io ritrovavo lo specchio vuoto, m’indovavo nell’assenza. Vuota di specchi, resistetti alla tentazione di attraversarli. Ogni superficie riflettente è una mancanza. Io non so se fui messa nera o sacrificio. Quel che so sono i nomi che diedi a Dio. Volto. Specchio. Assenza. Perché io sono io e non sono te? Perché il big bang? Cos’era lo spazio prima di iniziare? Dov’era il tempo prima di scorrere? Chi era Dio prima di Dio? E dov’era Dio prima di essere genesi? Il tempo mi atterriva e infinitamente mi rivoltavo nel tentativo di riavvolgere. Mio padre mi abbandonò e fu Dio e fu Satana. Obis Quis Contra Nos. Sono l’assurdo. L’improbabilità di nascere dal silenzio. Sono il silenzio. Il coniglio. La ragnatela. La serpe. Sono il tessuto e il tessitore. E nell’assurdo mi vivo rovesciata nei corpi di chi non mi appartiene. La mia metafisica è fisica dei quanti. Sono molecolare. Quantica.
Quello che nessuno sa è che la fisica è poesia. La più pura, e perciò devastante, poesia. È possibile che l’adesso si muova a ritroso nel tempo? Io abitavo il rovescio. In ogni mio corpo ho provato a riavvolgere.
La bellezza della relatività sta nel rispetto a cosa
Quando mio padre se n’è andato non ho provato dolore, non ho provato rimpianti. So di essere stata iniziata alla luce. So di essere stata vinta dalla vita. E la vita alberga in me, e io sono il tempio della vita. I miei studi di fisica erano l’unica deviazione rispetto al muro. Non abito che il muro ma c’è un fuori. E con Heisenberg posso dire di aver creato il muro a mia immagine e somiglianza e di averlo chiamato ventre, seme, madre, eroina. Quel che sto cercando di fare è rompere i sistemi di riferimento. Il fattore di dilatazione del tempo, ovvero l’espansione temporale che si verifica quando si mettono a confronto intervalli di tempo in due sistemi di riferimento diversi si chiama gamma. Non essendo un’astronauta ho dovuto trovare un sistema di riferimento altro sulla terra. È la casa. Nella casa il tempo scorre in modo diverso. Ogni ora nella casa è un anno sulla terra.
Ogni atomo della casa è un’orchidea tigre. Fiore del grano. Magnolia. Iris. Narciso. Io sono questa orchidea tigre. Fiore del grano. Magnolia. Iris. Narciso. L’afrore dei fiori mi rimanda alla vulva. Sono nata con il desiderio di tornare. L’utero è una casa senza muri. La casa è un muro senza utero.
Riavvolgendo la freccia si ottiene un cerchio infinito. Se attraverso due specchi mi moltiplico. Sono una legione di insetti. Provengo dall’oltretomba della casa. Sono la casa ma sono anche la filiazione. Mio padre è un deserto. Io lo seguo tra i granelli. Lo sbriciolo tra le dita. Divento padre. Abbandono Dio. Sono la colpa. Se riavvolgo qui, altrove srotolo. L’indietro è un avanti senza tregua. L’adesso è ovunque e altrove. Per capire la casa devi essere la casa. Ascoltare il silenzio. Ringraziare. Trasfigurare. Suggere l’assurdo.
Dirac definì lo spazio vuoto come un mare di elettroni con energia negativa riempito fino all’orlo
Nessuno sa perché la casa sia lì. Nessuno sa se sia lì. Nessuno sa chi sia stato ad aprire i portali. Si parlò di un asteroide. Si parlò di un meteorite. I più bigotti parlarono di Satana. La casa non esiste per tutti. Esiste solo per chi può vederla. Per chi non teme di entrarvi. Quando sono tornata al sud ho cercato la casa. L’ho cercata a Margherita di Savoia, ho chiesto consiglio a Maharhan, non si era sempre chiamato così, è il suo nome religioso come Lilith è il mio. I nostri nomi religiosi ci precedono. I nostri nomi ci nominano. Il nominare ci sbrana gli occhi. Siamo fuliggine di fuoco, ombra che scorre. Voglio tagliare le ombre e vivere il vuoto. Solo il nulla è. Oltre il me e il te vige la legge dell’esserci. Noi ci esistiamo e in questo esistere franiamo l’identico. Le stesse condizioni di partenza danno un’asse infinita di possibili. Il possibile è la morte del reale. Il reale è la condanna del possibile, il reale è il pasto nudo che mangia sé stesso e trasfigura in due specchi a N dimensioni. L’infinito mi annienta e frammenta. Solo l’eroina mi accoglie, torno nell’utero. E resto devastata dal padre. Sono una madre senza vulva, un padre senza seme. Sono devastazione pura, schizo che frange nell’oltretomba dello specchio. Maharhan mi ha accompagnata nella vecchia comune Maharshi Ramana, la ricordavo e l’ho trovata facilmente. Abbiamo cantato in sanscrito per otto giorni e dopo otto giorni Maharhan ha detto: La casa è ovunque tu voglia, ovunque tu possa pregare. Sono andata nell’uliveto vicino Canosa. Ho trovato la casa. Una donna tentava di impiccarsi a un ramo. Ho acceso otto candele e ho visto la sua morte. Il ramo si è spezzato. La donna è rimasta in vita. Le ho detto: Mi sei debitrice. Le ho chiesto di portarmi un tredicenne maschio. Ho atteso e ho radunato sei donne.
Segui le variazioni del fattore gamma.
In ogni istante la casa muta. Adesso ha la forma di un ottagono perché la mia mente vi proietta forme ottagonali. La casa è un sistema di riferimento che tutti li contiene. Nella casa non esiste il principio di equivalenza e si vanifica la gravità.
Siamo moltitudini. Ragni. Ragnatele. Vipere. Vermi. Scarafaggi. Siamo l’orrore che perpetra nell’assenza. Ossa di cranio. Rane. Anguille. Pesci blu in reti rosse. Io sono questo cranio antico spezzato. Simultaneamente viva e morta. Nella casa simultaneamente vivi e muori. Sei il gatto di Schrödinger.
Mi vivo nel ventre di animali morti. Ci sono animali in ogni mattone. Muoiono e non muoiono mai. Gatti di Schrödinger. Io sono questo gatto che guarda lo zingaro frugare nel cassonetto, che guarda la bambina danzare vestita di bianco, che guarda il parroco nell’omelia, che guarda il nano rotolare sulla placenta del gatto, che guarda la colomba volare nel foro sovrannaturale al centro della casa, che divide la casa dal castello, che trasforma la colomba in corvo, che supera il cancello e s’impicca senza morire, che fa della bambina granelli di sabbia, che apre la pancia alla bambina e vi ritrova vermi, che segue la bambina oltre lo specchio ed è ingabbiato nel muro. Murata viva nel ricordo, sono turgore di cemento che frana. Per aprire i portali dell’essere bisogna assurgere al nulla. E nel nulla mi separo dal giudizio di Dio. Inseguo la bambina nel pozzo del creato. Dove le acque sono torbide e le voci si fanno confine. Ho deciso di scendere nel pozzo. Nel pozzo incontro un bambino e mi dice: Io sono il passato. Mi tocca l’addome e dice: O forse il futuro. Il padre di mio figlio: un cocainomane perso. Mio figlio nascerà in un mondo che ride o non nascerà: io riavvolgerò la freccia. Se voglio riavvolgere è per via del dolore. Il mio l’ho annegato nella madre ma il dolore degli altri brucia e pullula. Ragni. Ratti. Vermi. Scarafaggi. Il dolore è un gatto vivo dilaniato dai vermi. Dai miei tredici anni si propaga nelle donne della famiglia. Se voglio riavvolgere è per Giuliana. Scendo nel pozzo e il pozzo ha ottomila anni e ottomila volti. Un’orchidea tigre nel fondo mostra i canini. Mi sbrana e torno bambina.
Le ipotetiche particelle più veloci della luce prendono il nome di tachioni.
Nel fondo del pozzo il buio inalba, un lucore ialino effonde violento e il pozzo stesso si allaga di una luce aurorale. Io mi decompongo e mi ritrovo con massa immaginaria. Cammino nell’orchidea. Sono l’orchidea.
La notte, la notte mi supera nel morso dell’orchidea, il muro si decompone e ricompone, tutte le porte si sbarrano. L’insaziabile sapienza del buio. Io sono questo abitare che non abita nulla. E sento i gatti e vedo i gatti con gli occhi gialli e abbacinanti nella notte. Non sono vivi. Non sono morti. Sono paradossi. L’esistenza lo è. La vita che pullula, l’espandersi del big bang, l’infinitizzazione del finito. Vorrei vivere in questa estasi sovrannaturale che fa della poesia fisica e della fisica poesia. Vorrei abitare l’immenso, spalancare l’altrove, io, nella metafisica della notte, voglio dividere il corpo fino a infrangerlo. Sono il baratro del tempo che si chiama spazio, la spettrale trama del buio, la fuliggine luminosissima nel fondo del pozzo, il dolore diluito in milligrammi di eroina e vene tumide. Sono nuda, una candela in mano, attraverso la tenebra e mi elevo. Una melodia di archi mi vince e sono il vuoto, trasfiguro, mi moltiplico. Quante me esistono? Mi sono specchiata nei tuoi occhi e sono anche te, sono lo sguardo che non cede al regresso della memoria, qualcosa si estingue mentre divido, moltiplico coscienze e mi rifletto infinitesimale nell’abisso dello sguardo. Ho i tuoi occhi, Marco. Siamo velocità, caduta libera, luce accecante e ci smembriamo in particelle luminose, non siamo mai stati. Non siamo nati se non nell’illusione dello spazio. Siamo orbite senza direzioni.
Cammino a piedi scalzi nell’orchidea. Rifulgo nei petali traslucidi e ceruli, glauchi e topazi, nella corolla ritrovo mio padre sulla barca. Seguo Caronte nella barca, nel fondo dell’abisso. Ora sono la madre suprema, la cura che beve sé stessa e torna all’origine. Nelle otto fiamme mi vesto di bianco. Inalbo e frango. Adesso, mamma, sono tutte le donne della famiglia.
Un salto quantistico si verifica quando cambiamo bruscamente sistema di riferimento
Sono l’orchidea che ride, il vento che frange, il fiume che esonda. Voi mi cercate nello spazio e sbagliate. Perché io sono il tempo. Il tempo si spacca in un muro di occhi. L’uomo corpulento che vende whiskey è una maschera verdazzurra di teschio. Ritrovo la croce, sono la croce. Allargo le braccia, le braccia, le braccia. Mi supero, dinastia di soli, nell’estasi suprema di un’autocrocifissione. Voglio smettere di divenire e assurgere alla stasi. Alla parusia del tutto. Il tutto è indicibile e perciò lo chiamiamo nulla. Sto cercando nell’universo l’essenza pura dell’anima. E non mi basta sapermi questa pelle. Questa carne. Voglio spaccare la carne con otto lame, otto candele, otto fuochi, fiume che esonda. Assurgere allo spirito. Nel fuoco divento l’occhio scuro della casa che si guarda dentro. Mi divoro.
Imperscrutabile, mi muovo nell’invisibile e somiglio al tuo Dio, madre. Il tuo Dio non è più reale dello spaziotempo. Il pozzo è un buco nero, lo spaziotempo si curva e siamo presenza nella memoria della casa vuota. Siamo la casa, l’altrove. Quante me posso esperire? Frattali. Senza terra trasporto rovine.
Quanta potenza ci vuole per diventare deserto.
Il concetto di simultaneità è relativo.
Dentro la Casa tutto è relativo. Accanto a me ho la bambina, simultaneamente nel pozzo, nella casa, a Castel del Monte e nel Castello di Otranto. Davanti a me ho l’anziana, prende per mano Giuliana e la porta nel ventre della casa. La interroga sul non essere. Se il sistema di riferimento è la casa, la casa si muove e modifica la coscienza di coloro che vi sono entrati. Lasciate ogni speranza. Siamo nella luce.
La velocità è relativa. Siamo luce cruda camuffata da buio.
Ho vissuto tredici anni a Berlino, a Kreuzberg, andavo spesso nel pub di un danese amante di Nick Cave, ho studiato lì intere notti, l’alcol non era un impedimento, sotto effetto etilico vedo le cose nitidamente, esperisco le formule. Lì ho incontrato il padre di mio figlio, un brasiliano. Nell’acme dell’amplesso, in soffitta, mi ha detto: T’ingravido. Quando sono andata a dirgli che ero incinta mi ha gridato: Non voglio saperne, è tuo figlio, una tua scelta. Avevo le chiavi e ho dato fuoco alla soffitta mentre dormiva. Ha chiamato le guardie ma non mi hanno trovata. Non c’erano prove. Mi hanno trattenuta solo cinque giorni, poi mi hanno imposto di lasciare Berlino. Mia madre era in Puglia. L’ho raggiunta. Ho riabbracciato Giuliana.
Ho spaccato gli orologi. Un orologio non è il tempo, solo numeri e molle. Per attraversare il tempo bisogna tornare all’origine e sono nell’origine, essere simultaneo, quante me nel passato? Quante nel futuro? Solo l’adesso è vero. La durata dell’esistenza è questo adesso che fugge e noi, senza terra, fuggiamo nell’istante. Dondolo nelle candele, anelo alla fiamma, entro ed esco dalla fiamma. Marco una volta mi disse che si può entrare e uscire dalle cose. Se vuoi frequentarli frequentali (i tossici) ma devi entrare e uscire, come in un teatro. Mascherata da madre sono stata accolta da figli perversi. Non sono mai uscita dal teatro della dipendenza, non è un teatro, è una fabbrica, produzione macchinica, muro immondo. Nella casa sono fuori dalla fabbrica. La casa produce sé stessa nell’infinitamente otto. La casa si eleva e torna in essere. Nella casa nulla può morire, nessuno può morire, perché il tempo può riavvolgersi nell’ottagono infinito, all’infinito. Nella casa siamo tutti proiezioni astrali di sospensione. La simultaneità infrange le barriere dei corpi. Siamo trasmigrazione continua. Fluidità viva. Paradosso.
La massa è energia affastellata.
Nella casa possiamo spostare i muri. Quando leggerai questo diario ti chiederai se gli abitanti della casa siano vivi o morti. Essendo un paradosso spaziotemporale, sono vivi e morti simultaneamente. Nella Casa tutto è mentale. Tutto è rappresentazione simbolica, nulla è oltre il vissuto e il vissuto è simile al sogno. Ma non si sogna perché la casa non dorme mai. I suoi occhi sono ripetizioni di otto ciechi. La casa non vede se non il fondo dell’incoscienza. Nella casa siamo uniti al gatto, al ragno, alla mangusta, al serpente, alla quercia, alla magnolia, all’orchidea, al padre abbandonico, alla madre delirante, al fratello castrante, alla moglie paranoide, alla nipote visionaria, alla deriva della percezione. Nulla è vero nella casa e nulla è falso. È il fuoco stesso della vita che bruciando si rigenera costantemente. La casa è elevazione di simultaneità e ubiquità. Se sono nella casa sono anche fuori. La casa è la forma dello spazio fuori dal muro. Nel muro la casa è bidimensionale. Fuori dal muro, pentadimensionale. La casa è un paradosso di Schrödinger. La casa è paura cruda. Desiderio estremo. Io vi sono entrata e ho toccato la placenta viva della parete. Io vi sono entrata nuda e la casa mi ha accolta, sbranata.
Nell’occhio della casa un’orgia di corpi e coscienze. Nell’occhio buio della casa mi sono lasciata sbranare e ho sbranato. L’uomo è arrivato dal passato, gli ho infilato le dita nell’ano. Mi è venuto in bocca. Ho succhiato il seme e leccato il glande fino a rinvigorirne il turgore. Ci siamo morsi a sangue.
L’uomo è arrivato dal passato e ha rovesciato il mio corpo, riempito tutti i miei buchi. Ha ridetto: T’ingravido. Ho lasciato entrare e diguazzare in me lo sperma. Nel buio otto donne mi hanno leccato il ventre. Otto candele. Vesti bianche divampate nella fiamma. Squame fredde sulla pelle. Ho aperto le cosce. Le serpi mi sono sgusciate dentro. Nella casa non esiste sogno e non esiste veglia. Il tempo si sopravvive separando lo spazio. Non c’è modo di lasciare la casa ma si può imparare a modellarla. Si può scegliere cosa vedere.
I buchi neri sono oggetti di grande massa dentro cui si può cadere ma non si può uscire.
Io ti parlo dalle profondità telluriche dell’assurdo. Io sono il muro e sono anche la casa. Qui tutto è pesante, tutto si smembra, diventa leggero e inconsistente. Io sono questa inconsistenza di cui non conosci regole e confini. Io sono quest’assenza di regole e confini. Entrerai mille volte e mille volte t’illuderai di uscirne. Io sono l’increata variabile che sussume il mondo, il centro inestinguibile della vita, sorgente. L’occulta essenza che mi abita mi sovrasta. Sulle mie braccia camminano otto ragni. Apro le braccia e le ragnatele si riproducono nelle pareti. Metto le mani nel muro e strappo le ragnatele. Sono il filo e riavvolgo la ragnatela. Sono il ragno e mi avviluppo nella ragnatela. Sono tessitura eterna. Disfacimento e ricomposizione. Percorro fino al culmine il filo e il filo scompare. Diventa luce. Divoro la luce e mi lascio abbacinare dalla folgore del cielo. Nella folgore sono la bambina dal vestito nero.
Corro lungo le stanze ottagonali e incrocio gli occhi di Giuliana. Nel fulmine la bambina mi riconosce coesistente. A volte la parola mi supera. Vive di sé stessa. E io le obbedisco come un cane.
Il fattore gamma dei tachioni è la radice quadrata di un numero negativo
Sto addentando l’infinito, la luce brama la velocità, nella velocità mi supero e infrango gli argini. Carne della mia carne. È una prigione questo corpo ma è menzogna. Posso superarlo nel disfacimento della luce. È potente il buio che trapassa il raggio, ogni buio è mille volte la luce. Cammino nel raggio di ragnatela che si fa tessuto e nel tessuto che si fa pistillo e nel pistillo che si fa corolla e nel colore spalancato che frange luminosissimo. Cammino nell’orchidea che torna a rinvigorire il buio e si espande universale deserta.
Vorrei credere nel vostro Dio ma mi viene difficile immaginare una causalità nelle stelle. È una sequenza di divorazioni il fuoco. Il tutto, inconsapevole, vive della disgregazione delle parti. Solo la fiamma è vera. Nel resto non siamo che residuo, cenere. Ho infilato otto volte la lingua nella fica della morte e sono tornata. Ai confini dell’incoscienza ho ritrovato la nemesi, madre, sorella. Divenire animale. Divenire pianta. Divenire flusso. La mia bocca nella tua fica. Sono una donna che scopa altre donne. Sono una donna che sugge i seni della madre. Sono un corpo che rovina nei paradisi artificiali dell’antimateria. Io, negativo assoluto, sono l’angelo della divinazione. Sradico ogni residuo di umano e il mio corpo accoglie la primavera dell’abisso. Nell’oltretomba del mare mi riconosco sparsa. Sono ottomila coscienze, ritorno all’antico e rivivo il futuro. Sono gesto che rovina in eterno, mano che infrange. Nella mia sete, ho rivoltato la morte. Ritorno.
Sono un oggetto di massa immaginaria. Man mano che mi avvicino all’infinito decresco. Ecco come riavvolgo. Mi sono consacrata alla fisica perché è il sistema più avanzato per creare immaginari. Io abito i numeri immaginari. Sono il nessuno che ti siede accanto.
La distorsione dello spaziotempo rende variabili le superfici in quanto ogni cosa ha massa immaginaria.
Noi nella casa attraversiamo i muri e siamo insieme dentro e fuori dalla casa.
Lo spazio non è solido, la quantità di spazio presente in una data regione non è fissa
Ci vuole un tempo infinito per cadere dentro un buco nero e se la casa è un buco nero il processo di caduta è infinito e inarrestabile. La distanza che separa l’esterno dalla casa è infinita, si arriverà al centro della casa solo quando si raggiungerà il fondo ma il fondo è infinitamente lontano. L’infinito non dura che un millesimo di secondo. È la distanza di Plank. Da quando la casa esiste la distanza tra me e il mondo è infinita e infinitesimale. Posso vedervi, agire su di voi, ma sono separata da voi da un infinito.
Forse tutti gli elettroni sono connessi e in realtà c’è soltanto un unico elettrone che rimbalza avanti e indietro nel tempo
L’antimateria è un mare di elettroni con carica negativa ma l’antimateria è anche una materia ordinaria che si muove indietro nel tempo. La tua anima dopo la morte si muove indietro nel tempo. Rimbalza e diventa un’anima che si muove in avanti. La casa è un tunnel spaziotemporale. Non sappiamo cosa ci sia dall’altra parte della casa. Un tunnel spaziotemporale può connettere punti fisici o tempi. Dio è un’equazione.
La violazione della causalità implica la negazione del libero arbitrio
La mia debitrice porta il ragazzo chiamato Infinito. Ho riunito altre sei donne. Stanno cercando Dio. Ho offerto loro il sangue. Infinito si sottopone all’esperimento, simultaneamente vivo e morto. Morto nel futuro e vivo nel passato. Dice di averlo sempre saputo. E per questo gli hanno diagnosticato una schizofrenia dissociativa.
Prendiamo otto candele, le disseminiamo intorno al suo corpo. Incidiamo con un tagliacarte otto parti.
È stata la ragazza a portaci il tagliacarte, l’ha portato dal futuro. L’ha donato a me. Incido la carne di Infinito. Tagli intercostali, inguinali e dorsali. Prendo le mani delle sette donne. Una musica antica sorge purissima dalle pareti. È un concerto di archi. Il mantra s’impossessa di noi. Le parole ci elevano:
legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo.
Beviamo il sangue di Infinito praticando ulteriori tagli e agganciando la carne con i denti. Il rito si compie e la freccia, il cerchio, l’otto rovesciato va a ritroso. Infinito resterà vivo nel passato. Sarà eternamente vivo a tredici anni. Il sangue stilla e la donna che mi è debitrice, nuda, si scaglia sul corpo, lo avvolge e lo monta. Metto le mani nel fuoco e sono il fuoco. Il mio ventre torna piatto, la mia pelle torna liscia, la mia carne intera. Sono la freccia a ritroso. Il cerchio antiorario. L’otto rovesciato che si piega. Nel buco bianco trasfiguro in luce. Non posso più. Sono. La. A.
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PARTE 8
LE VOCI DELLA CASA
scintille sparse tra le pareti pencolanti
quando sto con te divento te quando sto con lei divento lei quando sto con e ho paura di questa ingerenza di questa anche la fisicità si cancella scolora perché poi devo sentire e non sopporto e arrivo a quella cosa quella sì quella cosa che sta dentro la casa ed è la casa mio padre dice ascolta questo canto e trasformalo in agosto sulla spiaggia di Margherita di Savoia le onde hanno il colore della calce murata viva nel mare mi spezzo l’osso del braccio ehi perché ve ne andate ehi perché ho undici anni sull’osso del braccio un bracciale grandissimo nero e turchese dove inizia lo spazio e finisce il tempo bisogna entrare e uscire vuoi frequentarli frequentali ma devi sapere che non sei come loro si entra e si esce tu ami la mamma dico e che significa amare eros philia o agape forse non la amo con eros dice e chi ami con eros dico solo chi non possiedo dice e io come sono amata agape e tu quante volte mi vedrai morire quante volte il tagliacarte piantato in petto non saprò mai sono vivi o morti vivi o morti non ho notizie dall’ospedale non saprò mai Infinto mi ha detto sono stato ricoverato tre volte sono stato in mezzo ai matti veri e mi hanno dato il prozac e l’abilify camminavo morto guardavo dalla finestra bianca la collina di Minervino Murge un ragazzo è entrato nella mia stanza e mi ha regalato un libro di poesie di Paul Celan ho sfogliato il libro e tutto intorno un manto bianchissimo ho sentito di tornare indietro particella infinitesimo atomo elettrone fotone quark onda miliardi di onde riassorbito nello spaziotempo il corpo non è che proiezione di memoria allora mi sono chiesto sono vivo o morto quando sono nato mio padre se n’è andato per questo tuo padre mi voleva bene il mio mi ha abbandonato e a lungo nella mente cercavo le radici della mia coscienza nell’incoscienza la madre è la mia rovina sono stato la sua ho bisogno di essere ucciso per tornare senza fratture l’ho abbracciato e Infinito ho detto io e te siamo bambini del mare camminiamo verso l’orizzonte e le mani si frantumano e Infinito ho detto non devi morire non morire resta con me restami accanto i miei problemi ha detto i miei problemi sono così grandi da oscurare il sentiero divoro l’orizzonte e mi vivo rovesciato sono la notte l’oscura immensità che tutto sovrasta uno non dovrebbe vederla a tredici anni non dovrebbe parlarle ogni sera non dovrebbe la dama dal velo nero esce dai mobili e si fa gigantesca si trasforma in corolla bianca di magnolia ho sacrificato la madre io stesso sacrificando e officiante ho sacrificato la madre l’ho divorata lei mi ha divorato ricordi Giuliana l’immagine del pesce un grande leviatano che mangia i pesci verdi e i pesci verdi abitano il suo ventre ecco Giuliana tu l’hai vista questa malattia l’hai vista nell’abisso l’hai guardata in faccia e così hai guardato in faccia il mio delirio gli dico Infinito noi siamo fatti di ricordi e nel cuore della casa dispieghiamo la memoria sai quanti anni abbiamo ne abbiamo cento forse anche milioni miliardi abbiamo gli anni della terra e dalla terra ci lasciamo deglutire i volti si sono fusi in un frantume di luce e attraverso le pareti Lilith mi apre il torace e mi mangia il cuore la casa brucia il cielo si squarcia esce una falce è la luna padre sei il mio solo padre ma ne ho conosciuto anche un altro e dimmi come si chiama non lo so non è uno sono tanti stanno qui dentro restano lì posso dividerli e renderli totem oppure no guarda che un osso spezzato dovrebbe far male non sento niente non sento niente non sento niente e dimmi dov’è questa casa abbandonata oltre il muricciolo Cristina ha detto che possiamo andarci covoni sterpaglia ci sono le vipere le vipere le vipere addosso ovunque le squame le vipere dov’è questa casa dove vai non si esce alle due del pomeriggio è controra io e Cristina ci masturbiamo in silenzio tra i ruderi in silenzio ci guardiamo e ci spogliamo furiose apro le cosce lascio entrare le sue dita lascio che si stenda su di me apro tantissimo spalanco la bocca e vorrei mangiarla vorrei strapparle anche la pelle mi sale addosso lascia colare la saliva tra le gambe strofina l’addome sul mio mi prende per i capelli strofina la clitoride contro la mia lascio che i suoi umori mi bagnino le stringo i capezzoli fino a farla urlare e sarà un segreto dice sarà il muro si apre le mattonelle vengono giù sale una nube di polvere entro nell’apertura Cristina m’insegue urla il mio nome e il varco si chiude lei resta dall’altra parte Lilith ha il sangue sulle labbra mi viene incontro con il sangue sulle labbra e vedo dieci Lilith dieci età diverse la bambina che danza a Castel Del Monte la ragazza che corre nelle segrete del castello di Otranto la donna con bambino che entra nel fuoco la donna anziana che insegue la donna del diario nonna con i capelli neri e il Vangelo in mano nonna in ospedale trasfigurata in malattia nonna sulla sedia di vimini a casa e mia madre giovane con i capelli neri mia madre bambina con le trecce e gli occhi grandi mia madre con il ventre e i fianchi laschi mia madre con una raggiera di rughe intorno alle labbra mia madre che cammina claudicante e si poggia alle pareti per non cadere mio padre che la segue con un bastone in mano mio padre senza capelli e con il volto solcato da profonde faglie mio padre con i capelli lunghi la barba e la maglietta rossa torace corporatura gracile e la stessa oscurità nello sguardo mangia dice Lilith mangia il suo cuore sto cercando di riavvolgere se riavvolgo la freccia le sciagure finiscono mangia il suo cuore se riavvolgo la freccia mangia il suo cuore mangia il suo non è una freccia è un otto rovesciato infiniti Infinito mangiane adesso mangiane il corpo di Cristo e io m’inginocchio e chiudo gli occhi mi mette una benda sulle palpebre non vedo che buio ma apro le labbra le apro bene e mastico carne e sangue carne e sangue carne e sangue e sangue e sangue non sono Lilith dice sono Giuliana sono dieci volte Giuliana sono te viva o morta nessuno vive nessuno muore vivi o morti siamo masticati dal tempo vicini all’eternità infinite copie di noi la casa è un portale il tempo è squarciato ecco che siamo il tutto e il suo nulla assurgere al nulla nel buio luminosissimo mi toccano l’addome mi toccano le gambe mi aprono le braccia accolgo la lama al centro del petto se vuoi frequentali entrare e uscire otto candele al centro una donna vestita di bianco il vestito brucia e la donna scompare entrare e uscire uscire uscire uscire non posso padre non posso non esco otto candele addosso la cera la cera lacera adesso stracciata fuori dai bordi muta chi sono lo specchio chi sono la casa chi sono la frattura chi sono mio padre e io esco dalla vita con gli occhi di mio padre e gli occhi di mio padre sono il tempo ho illuso il mondo di esserne capace ho illuso gli uomini feriti e li ho salvati nessuno può salvarsi nessuno esce vivo allora ti dissi aspettami cosa sai tu che a me conviene ignorare figlia mia anima mia quanto è trascorso non ho memoria tutto è presente fummo immacolati nella casa vuota ho scacciato l’ideale per donarmi a te la morte è una danza di resti che bruciano la vita è una danza di resti che bruciano i fiammiferi e la benzina distruggere la casa riemergere dal fango siamo fango linea che separa il dentro dal fuori dentro il cerchio siamo infiniti fuori dal cerchio finiti verrà il giorno in cui ti dar i miei occhi ma senza tempo il giorno è presente l’istante eterno forse era questa la malattia sapersi dissipati senza direzioni è un fiore di magnolia e nei pistilli stanno i silenzi mille bambine di carta aspettano fuori dalla stanza ho tagliato gli occhi alla luce e divampo con te nell’indistinto io t’insegno la rivolta ma ogni volta vinci il fuoco con il cielo sai cosa siamo siamo la casa che brucia il rito dell’altrove siamo spaziotempo curvato all’infinito cos’è l’amore in questo dissiparsi cantina gloria di giornate in frantumi dai chiodi affiggere quadri guardare la madre cospargerla di sperma morire nella fica dell’alba lasciarsi assorbire dall’utero primigenio figlia mia hai abbandonato il tempo e resterai in eterno nel riverbero dell’albero le radici sono serpi i rami braccia dita milioni di dita arrampicate al cielo la luce non è che illusione oltre la barriera le categorie si vanificano solo la polvere è vera siamo granelli nel deserto siamo deserto saprai vincere il dolore l’ingiuria l’assenza ricordo chiuder a chiave affinché tu non esca in piena notte affinché tu non vada a cercarli li hai cercati per troppo tempo e ti hanno maledetta ti ho vista piangere a piedi scalzi nel bagno della scuola le braccia sugli occhi ti ho sentita urlare ti ucciderai mille volte affinché io possa mille volte salvarti ma ascolta sono lo specchio la casa la rovina ci che sarà è eterno e ci che sarà è già stato ecco il segreto del mare il mare è dove le mani si spezzano e le onde si riempiono di mostri sai cosa sono i mostri siamo noi che ci guardiamo dal futuro siamo futuro assenza materia ombratile ogni forma di vita è una forma di morte il segreto del tempo è la simultaneità mentre cresce inabissa si eleva e scombuia adesso risorgi aspetta non andartene sappi che ogni istante è già stato al centro dell’ottagono il corpo di Infinito e quello di Giuliana dissanguati riverberano privi di età adolescenti e senescenti corpi senza organi miliardi di Giuliane miliardi di Infiniti di ogni età infestano la casa miliardi di Marco miliardi di Antonia miliardi di Chiara miliardi di Lilith di ogni età la casa pullula e le donne vestite di bianco si gettano nel fuoco si gettano nel fuoco si gettano nel fuoco Lilith innalza lacerti di carne al soffitto franato corre nella fiamma si getta nel fuoco la casa divampa si frantuma multipli di noi si vanificano nello spaziotempo siamo le voci della casa moltiplichiamo coscienze attraversiamo il cemento attraversiamo le ere li guardiamo sacrificarsi e morire e rinascere invano li guardiamo disporre candele e pregare ridiamo a lungo e lasciamo che s’illudano ecco degli stolti che imitano la nostra potenza ma è un’ovvia caricatura.

Wols
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Ilaria Palomba, pugliese di di origine e romana di adozione, è nata nel 1987. Ha pubblicato il romanzo Fatti male (Gaffi), tradotto in Germania per la Aufbau-Verlag nella collana Blumenbar, con titolo “Tu dir weh”; il saggio Io sono un’opera d’arte. Viaggio nel mondo della performance art”(Dal Sud); il romanzo Homo homini virus (Meridiano Zero), Brama (Perrone editore), Vuoto (Les Flâneurs); e le sillogi poetiche: Città metafisiche, Microcosmi, Scisma. Il suo ultimo romanzo è Purgatorio, pubblicato da Alterego edizioni. Il suo sito internet è: www.ilariapalomba.it L’indirizzo del suo blog: http://ilariapalomba.wordpress.com
