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Adesso ti cucio
un vestito,
addosso meditando i gesti
gioie rubate
a un rigattiere
li serbo per te con cura
mentre tutto fuori
è in disordine
il cielo le cose
il grido disperato di un bambino
allora in tutto questo caos
getto
lo sguardo dalla finestra e m’accorgo
di non averti mai parlato
e di essere
in questo vuoto di parola
testimone della tua morte
che t’invade le vesti
le porta a sorgenti
limpide più quiete
precoci lame del tuo pensare
chiuso in una scatola,
dove ascolti soltanto
la voce dei tuoi dèi ribelli, traditi
e beffeggiati.
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Ad Alfonso
Alfonso, voce della terra,
lasci l’inchiostro innamorato
dei giorni, macchiare il dorso,
gli omeri, nascosti gioielli nella tua
parola, eloquenza campale
come il suono delle campane
nell’umiltà vespertina.
Hai capito l’oscurità
demone sottile,
sei in ogni gesto
ogni anfratto della madre
tua origine, filtro
di memoria bellezza cauta
degli dèi che ispirano
nel caos serale il tuo
lavoro,padrone dell’officina
tanto cara a te, fulgido
angelo della creazione gettato
nel vagone d’un treno deragliato,
spina del cuore rossa moltitudine
sonora, florilegio arcaico
di notti dipinte sul dorso
della tua mano
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Michele Ferrara degli Uberti (1971-2025). Ha iniziato a pubblicare nel 1992 su riviste di cultura e poesia quali “Pagine”, “Galleria”, “Poetry”, “Fermenti”, “Produzione e cultura”, “Inchiostri”. Del 1998 la prima raccolta poetica, I richiami della luna nuova; nel 2004, con Liberi editore, Il compagno invisibile. È presente in diverse antologie e ha vinto vari premi fra cui la sezione inediti del “Dario Bellezza”.
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Un ricordo, di Alfonso Guida
Un altro che scende dalla carrozza, un altro e poi un altro. Ma oggi è sceso Michele, poeta geniale della parola innamorata, della parola riflessa dallo specchio attraversato da un’Alice a lui tanto cara, insieme a Rosselli, Campana, Auden, fino a psicoanalisti come Laing. Quante strade aveva tentato Michele. Mi chiamava un giorno al fisso (allora non esistevano i cellulari) e si diceva innamorato di mia sorella che non aveva mai visto. Mi chiamava un giorno e mi cantava, roco, cavernoso, oltretombale, un inglese inventato – jazz. Rideva grasso. Andava coi travestiti che sostituivano le donne, impossibilitato ad averle. Era completamente compromesso da una malattia crudele che però lo rendeva geniale con le parole, con l’arte in generale. Suonava il pianoforte. Anche suo fratello gemello era schizofrenico. Stava in una comunità psichiatrica quando ci conoscemmo al Premio Bellezza. Un rapporto troppo conflittuale aveva fatto sì che i medici lo allontanassero dalla madre. Eppure veniva da una buona famiglia. Sua madre psicoanalista freudiana, suo padre lavorava alla Treccani a Venezia. Non era me, figlio dell’ignoranza che mi ha ucciso, dopo anni di sevizie. Ma seviziato era pure Michele, seviziato fin nelle radici che si ostinava a percepire “stellate”. Ricordo questa sua immagine relativa a La libellula. Gli piaceva Sleep e diceva sempre al telefono, nel primo pomeriggio: “Hello, Shallops”. Shallops è il nome usato da Amelia in una poesia di Sleep che sta per “scialuppa”. È sparito un giorno nel nulla. Sono passati trent’anni… Quanti primi pomeriggi d’estate passati a leggerci poesie. Vanno via tutti… L’ultima volta fu di mattina: “Devo andare a piazza Venezia a leggere una poesia sulla Shoah”…
Michele, classe 1971, occhi spiritati e barba alla Charles Manson. Sapeva le poesie di Testamento di Alda Merini, libro che gli regalò la madre, a memoria…
Di notte russava.
