UOMO PSICHICO

Immagini di Henri Michaux

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Lui? Sempre a costruire una vita segreta, dove nessuno lo vedesse. Lui, a scrivere chiuso nella sua stanza parole che cancellassero le penose cose del mondo. Felice quando, con suo padre, allungava l’elastico della fionda e tirava pietre contro la fabbrica di birra vicina al terrazzo. Il sasso rimbalzava sulla tettoia di ferro con una freschezza felice. Qualcosa, finalmente, accadeva. Lui, in quel suono, esisteva. Uscì di casa fingendo di essere testimone alle nozze di un altro: era vestito a festa, sorrideva, ma vagava come un fantasma in quel matrimonio che era il suo e non era il suo. I suoi amici scattavano fotografie da cui la madre sarebbe stata, per sempre, assente. Quell’assenza, oggi, è un macigno che non raccoglie più dal suolo. La vera biografia è amare chi si desidera amare. La sua vita è stata Einfhart, regno dell’immaginazione interiore, modellato dalla madre. Poi divenne Erlebnis, l’esperienza amorosa con le creature umane. I momenti bellissimi, pur restando nascosti nella vita reale, lo abbagliano ancora, come meteoriti disseminati negli anni, come prati luminosi nei pendii di montagna. Alla fine, lo sa, è stato lui il regista di tutti i suoi segreti.

Hofmannsthal, scoprendo a Parigi la prima mostra dello sconosciuto V. Van Gogh nel 1901, ne è sconvolto come da un cataclisma. Nulla è più identico a quello che era, dopo che ha visto quei colori. «Ma cosa sono i colori se non prorompe in essi la vita più fonda degli oggetti? E quella vita profondissima era lì, albero e pietra e muro e sentiero davano di sé quel che avevano di più segreto, me lo gettavano per così dire incontro, ma non la voluttà e l’armonia della loro vita muta, quale in passato mi fluiva talvolta incontro dai quadri antichi quasi un’aura incantata; no, il solo fatto che esistessero con quella violenza, il furibondo stupefacente miracolo della loro esistenza investì la mia vita umana. Come posso farti intendere che ogni creatura […] mi si levava incontro come rinata dallo spaventoso caos della non-vita, dal baratro dell’irrealtà, così che io sentii, no, seppi, che ognuna di quelle cose, di quelle creature, era nata da un terribile dubbio del mondo e con la sua esistenza copriva ora per sempre un’orrenda voragine, il nulla spalancato!» Hofmannsthal davanti a Van Gogh è l’uomo psichico travolto dalla follia dell’oltrepsiche. Il nulla spalancato è la sua ombra quotidiana, ma non è in grado di soffrirla dentro di sé: la regge per un attimo, da spettatore incantato.

Una psicologa di nome Nausicaa scrive un libro dedicato ai “fantasmi gentili” ricoverati nel manicomio di Quarto. Il libro, accompagnato dai disegni burleschi di un matto anonimo, viene pubblicato quando lei ha ormai più di ottant’anni. Pochi mesi dopo, prima della presentazione del libro, muore, nella sua casa di campagna, per coma diabetico. Vivo il libro, l’autore deve sparire, come quando si fugge all’improvviso e si lascia la scena. Ma la parola resta, con le piccole fiamme dei racconti. Eccone uno: «Ho esitato a lungo prima di scrivere questa storia. Penso però che sia giusto parlare di quella sera d’inverno, fredda e piovosa. Ero stanca, timbrai il cartellino con un senso di sollievo, Finalmente potevo tornare a casa, al caldo, dia miei cari. Poi mi accorsi d lui, era là nell’atrio e chiaramente mi stava aspettando, non ne farò il nome anche se risuona da anti anni nella mia mente e nel mio cuore. Si avvicinò, con il suo sorriso di sempre. Lo guardai, forse un po’ infastidita, ero stanca, gli dissi: “Hai qualcosa da dirmi?”. Lui rispose, sempre sorridendo: “No, forse non è importante, ne parleremo domani mattina”: Tornai a casa sollevata… L’indomani mattina, arrivata al cancello, mi dissero che durante la notte si era tolto la vita. Sono trascorsi agli anni e il suo fantasma gentile mi appare spesso, quasi volesse consolarmi perché io quella sera non l’ho ascoltato. Non saprò mai cosa mi volesse dire, se in qualche modo avrei potuto evitare il suo gesto. So che sicuramente lui mi ha perdonata ma la colpa rimane, e pesa…».

Di quel mare così azzurro, le onde osservate da intelligenti e da idioti, da cani e bambini, che fare? La luce sta per arrivare alla finestra. Ricordo quando guardavo le saline azzurre, il mulino di Mozia. Cos’è lo stile, se non l’aria asciutta che prosciuga il vento? Lo scudo potente e sicuro che controlla le infinite rifrazioni dello specchio? Rifrazioni, non fantasie. L’immaginario non è una plaga remota ai confini del mondo: è il mondo stesso come un tutto straziato. Sono io che curo, io che faccio all’amore. D. mi scrive, mi dice che ha vinto il cancro alla vescica e ringrazia i Grandi Medici del Grande Staff che lo ha curato. Ma, prima di tutti, ringrazia me. Che, nella mente, lo avevo già guarito. Tiene, sul comodino, il mio Demone accanto (copia introvabile che ha trovato e acquistato sul web), e a tratti lo legge, perché sente che da lì si sprigiona una forza. I. mi dice che, con Galassie parallele, ho costruito un edificio con le pietre dei matti e ci abito, fingendo di essere sano.

La scrittura come una tela che cuci e che scuci secondo la tua tempesta emotiva. Ma non perdere l’ultimo controllo. Una lucida vigilanza, dentro il disfacimento, e l’opera è scritta, è dipinta, risuona: come se vedessimo un quadro di Bacon colare colore e disgregarsi (ma anche se stanno disfacendosi dei lineamenti, anche se intravediamo una macchia astratta, sappiamo che tutto deriva da una figura, da un volto). La vigilanza: necessità di mantenere i confini mentre tutto si disgrega. Se la tempesta si cristallizza in delirio, il dolore viene zittito nella gabbia del sintomo. Ma se il crogiuolo di immagini fluttua e la forma tiene; scopriamo attimi attoniti dove la poesia trova la sua cassa di risonanza. Sarebbe un mio antico sogno invitare un matto al rigore ostinato dello studio, sapergli insegnare come slacciarsi dai suoi traumi: «vedi, quelle sono corde inservibili che hanno solo il potere di soffocarti…». Ma io, cosa posso insegnare sulla libertà, a parte queste annotazioni teoriche? Nulla, avendo vissuto sempre da prigioniero, in ogni secondo della mia vita, ribellandomi contro ogni dovere ma restandone ostinato custode. In guerra sarei stato medico come in tempo di pace, curando le ferite dei combattenti ma imprecando contro gli orrori bellici che non sapevo evitare. Mai stato homo politicus: solo un soccorritore, una creatura compassionevole. Tutte le mura intorno, tanti soldati che cercano di sgretolarle con l’esplosivo. Tante sentinelle, tutte racchiuse in me. Come dice C. «Ho in dote una matassa di voci».

L’idea dell’essere come tremore. Non conosco una seconda idea: filosofi la studiano, io la vivo.

Ho salvato vent’anni di lavoro: solo poesie, scarabocchi qui e là. Sapete che io resto muto per giorni. Ma le parole scritte mi salvano dal tacere senza ritorno.

Fermo qualcuno per strada, gli leggo i miei versi. Non potete immaginare con quanta sufficienza mi ascolti, aspettando che io finisca. Per fortuna, dopo, non mi regala due spiccioli (ma forse sarebbe meglio). Ho già deciso che sarò un accattone della poesia, con le postume grandezze fissate come chiodi nella testa. I miraggi sono solo raggiri.

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