LEVANTO

Lettera di Cristina Campo ad Alessandro Spina.

Roma, gennaio 1973.

Caro Spina,

ripenso spesso a Céchov, al dottor Andrej Efimic’ e ai suoi colloqui con il folle Ivan Dmìtric nel racconto La corsia n. 6. Il diaframma che con le sue formule piacevolmente stoiche Andrej ha frapposto fra sé e il mondo dei suoi malati verrà frantumato da una serie di eventi funesti e lui si troverà chiuso con loro, nelle loro corsie, a condividere quella vita invivibile che da sano teorizzava vivibile. Non potrà che morirne. Ricorderà, carissimo, come, nel Racconto di uno sconosciuto, ritorna di nuovo, con toni tragici, il tema del dialogo interrotto: non più fra una parte razionale e una folle, che si contendono lo spirito umano, ma fra il terrorista e il reazionario, fra l’attivista e il parassita. Tatski, il cospiratore, irrompe nella vita di Orlov, il lettore. La lettura passiva e l’azione violenta si scontrano, dominate entrambe dalla gratuità del caso e della sventura. Qui Cechov attua la sua pietas, costringendoci non a sentire un conflitto ma a vederlo nei personaggi stessi. Cechov nasconde ogni ideologia dentro storie in cui si muovono esseri umani: è l’unico scrittore immune da sentenze morali e in grado di manifestare, a voce sommessa, un pensiero vigile e non deformante sul dolore. La sofferenza di cui trattano i suoi racconti non ha nulla in comune con i nostri eccidi quotidiani, che transigono sulla natura del male e ne fanno un evento fortuito e crudele.

Ricordo un episodio personale. Convalescente da un grave attacco di angina, mi trovavo a Levanto, per riprendere le forze. Era maggio, un cielo stranamente grigio. Ero nevrastenica e debole, aggrappata solo a questo mio stile sublime e simmetrico, a questo mio modo di porgere la frase al mondo – un modo rigoroso e implacabile, più simile a un’antifona cantata in una cattedrale bizantina che a delle forme linguistiche imparate dal lessico del vocabolario. In quell’attimo mi sentii contemporaneamente Orlov ed Efimic’, il lettore legato alle sue carte consolatorie e l’essere incapace di tollerare una cognizione del dolore non definibile dalle sue categorie. Levanto, misteriosa e grigia, era lo specchio dei libri che avevo letto o che avrei potuto leggere. L’affanno da cui ero così frequentemente assalita mi dava paradossalmente forza. La scrittura non poteva nulla contro quella fitta al braccio sinistro, estesa fino alla radice dell’unghia. Non mi rifugiai in forme ideali. Non elessi a tempio sacro una poesia di John Donne o un magico racconto di Shéhérazade. Il tappeto non volava. Il flauto sibilava musiche incomprensibili. Non lessi né scrissi nulla, pur essendo Cristina Campo. Guardai l’ardesia, il granito, la chiesa. Guardai il mare infuriato con chiaroveggenza, come un medico vedrebbe l’anima del suo paziente, e sentiii che nulla può essere contenuto. Tutto è incontenibile e illimitato, come la litania della sabbia che scorre nel deserto.

Io, Cristina Campo, osservavo il mare di sbieco, con pazienza e costanza, come un monaco stilita. Tutto era nell’attenzione del mio sguardo, nel modo con cui giravo gli occhi o protendevo le spalle. Nel mio stile, non nella mia letteratura. Allora capii che tutti i libri erano fondamentalmente dei fuochi di cui ogni volta bisognava ravvivare la fiamma. Levanto mi si mostrò come quel racconto di Cechov in cui Kovrin sogna un monaco nero, la testa canuta scoperta, scalzo, le braccia incrociate sul petto. Il monaco gli spiega che esiste una verità eterna e un’immortalità luminosa. Kovrin muore e sul suo viso si irrigidisce un sorriso di beatitudine che, come negli affreschi di Giotto, crea istantaneamente la quarta dimensione. Levanto è il mio monaco nero, l’evento inspiegabile che mi può portare alla rovina come alla grazia ma che non potevo non vivere. Mi sento come se non avessi mai voluto, fino in fondo, capire la natura eterna e tumultuosa del mare, ma mi fossi trovata sempre a trattare con le fiabe, le leggende che parlano degli scogli dove naufragano le navi o si infrangono le onde – mai del mare stesso, di quel pulsare inquieto che nessuna loggia medioevale o nessun capitello romanico può contenere in iscrizioni significative.

Il mondo sfugge sempre alle iscrizioni, e per questo non possiamo smettere di scrivere sulla labilità delle nostre tracce con impietosa asciuttezza. Se cedessimo di un centimetro, non saremmo pari al compito che ci siamo dettati, simili a poveri fanciulli che descrivono uno stagno. Ma, volendo parlare del mare e non essendo ancora annegati, occorre una costante attenzione e un perpetuo smarrimento che, in misura alchemica, vanno mescolati e graduati, per non diventare né caos né ermeneusi.

A Levanto scoprii, caro Spina, un odio acre e pieno di disprezzo per la letteratura. Lei mi capisce benissimo, essendo partito per l’Africa: io non sopporto le volgari querelles di questi scrittori del limite così intolleranti dell’infinito da negarlo come merce avariata: ogni giorno ho a che fare con le loro arroganti certezze che sporcano la stanza in cui scrivo. Questa stanza, oggi, è Levanto, un piccolo scoglio su cui si è fermata l’ombra di una nuvola. Ma, se uno sciame d’insetti oscura la roccia e un vento allontana la nuvola, cosa accadrà di me, di noi? Riusciremo ancora a colmare dei fogli bianchi con il sogno di una scrittura che ci illumini, ci comprenda interi? Riusciremo, sapendo come si infrange il mare sotto la piazza, e come si riflette la luna sulle rocce. O non riusciremo.

A volte, avere il cuore malato è una fortuna, Alessandro.

Sua Cristina

**

Fotografia di Albino Crovetto

Lascia un commento